VITTORELLI, Il vangelo secondo Matteo. Pasolini e il sacro: «Crist al mi clama / ma sensa lus»... :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Paolo Vittorelli

 

Il vangelo secondo Matteo. Pasolini e il sacro: «Crist al mi clama / ma sensa lus»...[1]

 

 

Abbreviazioni

 

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Il film Il Vangelo secondo Matteo fu un evento dichiaratamente imprevedibile anche per il suo stesso autore.

L’ambiente culturale che ne favorì la genesi fu quello delle attività dell’associazione Pro civitate christiana, fondata nel 1939 da don Giovanni Rossi, sacerdote milanese, e la cui sede, dal nome di ‘Cittadella’, si trova ad Assisi. Leggendo il suo statuto, si nota come una delle missioni della Pro civitate sia quella di rivolgere le proprie attenzioni di evangelizzazione anche a quei componenti del mondo della cultura dichiaratamente atei, agnostici o non praticanti, offrendosi al dialogo con spirito di ecumenismo.

L’associazione volle dunque fare conoscenza di un intellettuale che per la sua distanza dalla Chiesa istituzionale sembra in effetti quel non credente descritto dal suo statuto, ma che tuttavia si è sempre sentito vicino particolarmente alle idee umanitarie e sociali del cristianesimo, e non sentiva affatto problematici per la sua poetica e per la sua persona i concetti di ‘sacro’ e di ‘religione’: titoli come L’usignolo della Chiesa Cattolica, raccolta di poesie giovanili pubblicata nel 1958, ispirata da una lettura dei Vangeli, e La religione del mio tempo, pubblicata nel 1961, ci danno conferma dell’interesse non episodico del poeta per ciò che riguarda il sacro.

Anche il contesto storico contemporaneo alla produzione del Vangelo secondo Matteo non fu estraneo alla sua nascita: l’elezione al soglio pontificio di papa Roncalli fu il preannuncio del più importante avvenimento della Chiesa del Novecento, il Concilio Vaticano II, aperto ufficialmente l’11 ottobre 1962 da parte di Giovanni XXIII, che lo aveva indetto già nel 1959. Che la figura di questo Papa, le sue idee di rottura con la vecchia Chiesa controriformista e questo stesso avvenimento siano direttamente legati alla nascita de Il Vangelo, è ammissione del suo stesso autore:

Papa Giovanni XXIII, […] obiettivamente rivoluzionò la situazione. Se Pio XII fosse vissuto altri tre o quattro anni, non sarei mai stato in grado di fare Il Vangelo;

È stato il primo papa che abbia detto che il marxismo non è un diavolo, una bestia nera.[2]

 

Pasolini ebbe una così grande stima per papa Roncalli, che dedicò il film alla sua memoria.

Per la parte laica della società italiana era ormai passato il tempo della ricostruzione dai danni provocati dalla Seconda Guerra Mondiale e ci si trovava alla fase successiva: l’ottenimento di benessere materiale noto col nome di ‘miracolo economico’. È il momento in cui la società si sta tecnologicizzando ad un ritmo sempre più sostenuto (tutti vogliono avere – e quanto prima possibile – l’automobile, la televisione, gli elettrodomestici), ed è il 4 ottobre del 1962 che l’associazione Pro civitate christiana invitò Pier Paolo Pasolini nella sua ‘Cittadella’ per il suo dibattito annuale sul cinema. Il film sul quale discutere era Accattone.

Per quel pomeriggio si annunciò, inaspettata, la visita del ‘Papa buono’, e a tale notizia, subito, la folla riempì le strade di Assisi. Pasolini preferì passare le ore pomeridiane di quella giornata nella camera offertagli dall’associazione umbra, rimandando la sua partenza.

In ognuna delle stanze della pensione della Pro civitate christiana si trova, nel cassetto del comodino, il testo dei quattro Vangeli. Pasolini, sprovvisto di altri libri e non sapendo come impiegare altrimenti il suo tempo, iniziò a leggere per intero e senza interruzioni il Vangelo secondo Matteo (che nelle edizioni del Nuovo Testamento è di solito posto per primo) e sentì immediatamente «un trauma, un impulso che in quel momento lì era assolutamente oscuro, era una forma di esaltazione, era quella che Berenson chiama ‘l’aumento di vitalità’ che dà la lettura di un grande testo, la visione di un grande quadro».[3]

Questa improvvisa ‘illuminazione irrazionale’ (aggettivo che in Pasolini coincide con ‘religioso’) si concretizzò nel bisogno di realizzare un film basato su quell’opera. Il regista-scrittore si rivolse alla Cittadella per alcune informazioni storiche e filologiche sull’epoca di Cristo e sul testo evangelico di Matteo.

Ritornato a Roma, si impegnò nella stesura di una prima versione della sceneggiatura. Il 30 aprile 1963 ne terminò la redazione, e volle che fosse vista da don Andrea Carraro, un padre dell’associazione di Assisi. Le osservazioni di Padre Carraro furono generalmente seguite da Pasolini, che modificò la sua sceneggiatura con sostanziale fiducia.

A questo punto iniziò a parlare del suo progetto con il produttore Alfredo Bini, ma i collaboratori del produttore (specialmente quelli finanziari) espressero un dubbio: il precedente mediometraggio La ricotta, che rappresentava difficoltà e manìe di un regista nel realizzare un film sulla Passione, fu sequestrato con l’accusa al suo autore di vilipendio alla Religione dello Stato, si vuole forse che finisca allo stesso modo anche questa volta? Pasolini, in seguito anche ad assicurazioni epistolari, fu però capace di sciogliere le titubanze dei partners finanziari della Arco film. Durante la lavorazione del Vangelo, nel maggio 1964, fu anche assolto in appello dalla anzidetta accusa.

Scritta e depositata la sceneggiatura definitiva, si trattò di scegliere le persone e i luoghi.

Scegliendo gli attori, Pasolini tentò dapprima di far interpretare gli antichi abitanti della Galilea alle popolazioni che abitano oggi le regioni in cui Cristo stesso aveva vissuto, ma con suo grande dispiacere notò, osservandone l’aspetto, che «sono facce in cui non è passata assolutamente la predicazione di Cristo».[4] Occorrevano dunque delle persone che mostrassero fin dalla prima impressione di essere vissuti nel e con il Cristianesimo, e fu dunque in Italia che le ritrovò: i personaggi del Vangelo che appartengono al popolo saranno interpretati da persone che proverranno da esso, ed ecco quindi il sottoproletariato romano o meridionale recitare nei ruoli dei discepoli illetterati; per i discepoli alfabetizzati, come dovevano essere gli evangelisti, richiese la collaborazione di amici intellettuali; per i farisei ritenne inevitabile il ricorso ad esponenti della borghesia.

Per il ruolo del protagonista, Pasolini pensò di «cercare fra i poeti»:[5] Gesù avrebbe potuto essere impersonato da Evetušenko, Kerouac, Ginsberg o Gotysolo. Perché proprio un poeta? «Poiché avevo in mente di rappresentare il Cristo come un intellettuale in un mondo di poveri disponibili alla rivolta, e cercavo un’analogia fra quello che Cristo fu veramente e chi avrebbe potuto impersonarlo».[6]

Questa risposta nasconde qualcosa di più profondo e fors’anche inconscio: penso infatti che Pasolini vedesse in Cristo un antenato (sociale) di se, un Pier Paolo ante litteram. Doveva aver percepito in modo forse irrazionale, e tale da lasciare un segno in lui, qualcosa che gli suggeriva alcuni aspetti in comune fra se stesso e Cristo: entrambi si rivolgevano con forza ai loro contemporanei, entrambi ebbero chi li seguì, entrambi infine furono perseguitati dalla giustizia. Possiamo constatare nel film almeno un segno concreto di questa sensazione inconscia: fu l’aver fatto interpretare Maria adulta alla sua propria madre. L’analogia è chiara: ‘se io, Pasolini, mi sento, o mi piacerebbe essere, figura christi, dunque la madre di Cristo dev’essere mia madre’. Avere l’impressione, nel leggere il Vangelo, che de te fabula narratur dev’essere stato uno dei combustibili dell’aumento di vitalità. Non sono il primo ad aver percepito questa identificazione con Cristo: già Franco Fortini scrisse «Quel Gesù-Pier Paolo»[7] in una lettera al regista, commentando il film. Ma forse l’autore stesso in qualche modo se ne rese conto qualche anno più tardi: «la differenza profonda fra Edipo e gli altri miei film è che è autobiografico, mentre gli altri non lo erano, o lo erano inconsciamente, indirettamente […] Racconto la mia vita, mitizzata naturalmente, resa epica dalla leggenda di Edipo»[8] (corsivi di chi scrive).

Indeciso sull’interprete di Cristo anche dopo aver visto mille volti (doveva essere il suo…), fu ancora il Caso ad aiutarlo: uno studente spagnolo che stava contattando intellettuali per organizzare un’azione di protesta antifranchista si recò a casa di Pasolini, nel quartiere EUR di Roma, avendo sentito parlare in Italia di un certo poeta marxista che avrebbe potuto aiutarlo. Il regista lo scelse perché il suo volto gli ricordava certi cristi di El Greco, ed anche quelli dell’espressionista Georges Rouault (e pure per il suo spirito di rivoluzionario, non diverso, secondo Pasolini, da quello che animò anche il Gesù storico): «La figura di Cristo dovrebbe avere […] la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno».[9]

Per la ricerca dei luoghi accadde qualcosa di simile alla ricerca dei volti: in Israele o in Palestina altro non resta dell’epoca in cui è vissuto Cristo se non dei relitti, senza contare il continuo stato di guerra che affligge quei territori. Dunque la mitica Terra Santa che fu il luogo della storia evangelica dovrà essere ricostruita anch’essa nei luoghi d’Italia il meno possibile modificati dall’intervento modernizzante dell’uomo. E così Matera reciterà la parte di Gerusalemme, il torrente di Chia quella del fiume Giordano, le falde dell’Etna il deserto dove il maligno tentò Cristo, e così via. Credo quasi che Pasolini non volesse realmente girare il film in Medio Oriente: se i territori presso Nazaret richiamano alla mente Massafra, significherà che la scena del film la cui location doveva essere Nazaret può benissimo essere recitata a Massafra. Anzi, essendo il luogo della Puglia una Nazaret archetipica, si rivelerà quasi più adatta al film della Nazaret vera. La Terra Santa perduta fu dunque ritrovata in Italia secondo il principio della ricostruzione analogica.

Tra medio e lungometraggi Il Vangelo è il settimo film di Pasolini (in tre anni). Pur non essendo più alle prime armi (ora – 1964 – conosce i vari tipi di obiettivi e il risultato di ognuno) riconoscerà più tardi di aver fatto alcune scelte creative unicamente grazie all’intuizione esatta e all’improvvisazione anche nel caso de Il Vangelo.

Credette innanzitutto di avere in pugno lo stile con il quale realizzare le riprese, e che questo potesse essere il medesimo usato per realizzare Accattone: se lì aveva usato una tecnica a macchina fissa, cosa che porta al risultato di un’immagine ferma e sacrale (che il regista definì ‘romanica’), è ovvio – credo abbia pensato – che questo stile ‘da facciata di cattedrale’ sia la scelta stilistica ottima per una narrazione di argomento sacro.

Ma, fatte le prime riprese, Pier Paolo non fu soddisfatto: il risultato era inautentico, una pura enfasi, occorre cambiare tutto. La tecnica che sceglierà sarà allora la non-tecnica del pastiche, del magma totale, quando non quella del risultato casuale. Ecco dunque riprese ‘da servizio giornalistico’, ‘da documentario’, ovvero ‘da operatore del giro d’Italia’, quelle con la macchina da presa semplicemente posta sulla spalla o, ancora, quelle in cui è visibile il cambio repentino degli obiettivi. Questo modo di procedere fece sì che molti metri di pellicola siano stati rifiutati dal regista, sia quelli con tecnica ‘sacrale’ (di cui sopravvive solo la scena dell’arresto di Cristo) sia quelli con tecnica multiforme.

Questo polistilismo dipenderà certo dalla crisi delle prime scene retoriche e da una generale tendenza dell’autore per la creazione polistilistica (anche in campo letterario), ma io credo dipenda pure dal testo che Pasolini andò a rappresentare.

Il Vangelo è infatti esso stesso molte cose tutte insieme (ed è certo anche per questa ragione che Pasolini lo sentì tanto vicino al suo mondo creativo): è biografia, testo didattico, dimostrazione della verità delle antiche profezie, testimonianza, raccolta di detti ed exempla, ed è pertanto inevitabile che la manifesta varietas di una scrittura come quella di Matteo si realizzi filmicamente per mezzo di un misto di stili. Altra ragione del magma stilistico consiste nel fatto che nel film si riuniscono due punti di vista simultanei: quello di un intellettuale marxista e quello di duemila anni di cristianesimo. In effetti, il fatto che un autore dichiaratamente «non credente dall’età di quattordici anni» e che affermò di votare per il P.C.I. si cimentasse in un film sul Vangelo (che, come gli disse un intervistatore, «è proprietà della Chiesa Cattolica», si noti bene il termine) era qualcosa che disorientava, o indignava, e comunque veniva assai raramente compreso.[10]

Per provare a far comprendere, lascio che si spieghi l’autore e propongo la lettura di questa serie di citazioni tratte da Saggi sulla politica e la società:

 

La Chiesa potrebbe essere la guida, grandiosa ma non autoritaria, di tutti coloro che rifiutano […] il nuovo potere consumistico che è completamente irreligioso; (pp. 354 e 355)

Sono un marxista che sceglie soggetti religiosi. Questa è bella! Esiste adesso anche un monopolio sulla religione? Ecco la conclusione di quarant’anni di orrenda propaganda e di maccartismo! Molti degli uomini più profondamente religiosi di questo secolo sono comunisti. […] S’intende che quando dico religioso non intendo dire credente in una religione confessionale; (p. 866)

Anche i fenomeni beat, hippies ecc. sono fenomeni di carattere religioso; (p. 857)

Tutto quello che Marx ha detto della religione è da prendere e da buttar via, è frutto di una colossale ignoranza; (p. 1715)

Per concludere vorrei dire che il ‘contrario’ della religione non è il comunismo (che, benché abbia preso dalla tradizione borghese lo spirito laico e positivistico, è in fondo molto religioso); ma il ‘contrario’ della religione è il capitalismo (spietato, crudele, cinico, puramente materialistico, causa di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, culla del culto del potere, covo orrendo del razzismo); (p. 859)

 

Tenendo presente il significato di ‘religioso’ che emerge da queste citazioni, non mi sembra più sostenibile che il ricorrere a temi relativi alla religione, pur continuando a vedere il mondo secondo il punto di vista di Marx o di Gramsci, si possa definire contraddizione. O almeno non la si può definire tale all’interno della mente di Pasolini. Perché egli non fu allo stesso tempo rivoluzionario e sanfedista, ma dotato della medesima coerenza ed indipendenza di giudizio sia trattando argomenti socio-politici sia esprimendo la sua sensibilità religiosa. Non ci fidandoci delle etichette applicategli già in vita, veniamo alla scoperta che fu in realtà eterodosso in entrambi gli ambiti (e quindi non totalmente accettato sia dall’una che dall’altra parte).

Il senso del sacro, che in Italia si esprime da due millenni nel cattolicesimo, era da lui fortemente sentito perché era il modo stesso di organizzare la vita di quel mondo immutabile, naturale, contadino, dialettale ed umanistico che scoprì in Friuli durante la Resistenza (col pericolo sempre incombente della morte) ed amò sempre visceralmente, ma che ora vedeva prossimo all’estinzione a causa dell’avanzare dell’industrializzazione assoluta, la quale, secondo l’analisi di Marx che Pasolini recupera, si accingeva ad assimilare tutto a se stessa (non esisteva la parola ‘globalizzazione’, ma è evidente che la minaccia incipiente era questa).

Di fronte a questa incombente fine del suo mondo, ecco dunque la necessità, quasi il dovere, di realizzare un film su di una storia antica, epica, inaccettabile (se non affatto incomprensibile) per il freddo razionalismo tecnicistico del nuovissimo mondo unidimensionale del ‘produrre-consumare-inquinare-produrre’. Ecco pertanto l’invito ai suoi connazionali a conoscere direttamente il Vangelo, «testo che in Italia non legge nessuno»,[11] anche tra gli intellettuali, sottraendolo alla esclusiva proprietà ecclesiastica. Pasolini desiderò provocare il dialogo tra comunisti (che avrebbero dovuto abbandonare le loro riserve per tutto ciò che è irrazionale e religioso) e cattolici (che avrebbero dovuto abbandonare quelle per la filosofia di Marx e la psicologia di Freud). Non aveva affatto l’intenzione di farci assistere a due ore di catechismo. Ma in Italia si diede per scontato che un film sul Vangelo dovesse realizzarsi propaganda fide. Questo non lo è. È invece qualcosa di analogo ad una tragedia greca. Al tempo dei tragediografi, gli autori conoscevano già trama ed esito, detto nei termini settoriali del cinema ‘avevano già il soggetto’. L’importante era ‘la sceneggiatura’, ovvero la resa poetico-teatrale del mito. Che Eschilo abbia creduto o no all’esistenza di Zeus, ciò non intacca il valore delle sue opere; perché mai dovrebbe importare in cosa abbia creduto Pasolini? Il suo è un prodotto che ha lo stesso spirito dei tragediografi classici. Perché anch’egli presenta la storia sacra come fosse mythos: quello formatosi nel tempo che separa il Gesù storico dal suo film.

Per ciò che riguarda la composizione visiva del film, ebbe un ruolo importantissimo il ricorso alla tradizione pittorica italiana rinascimentale. E questo per una causa ben precisa: come si è detto, Pasolini fu non credente, rappresentare tutto ciò che il Vangelo contiene di semplicemente storico non gli creò particolari problemi (interiori). Ma come rendere quel ‘Totalmente Altro’ che il marxismo non può (e non vuole) spiegare, ma che è così fortemente presente nel testo evangelico? Come potrà un non credente rappresentare i miracoli senza cadere nell’ipocrisia? Pasolini chiese aiuto a dei credenti, sia contemporanei (la già citata associazione di Assisi) sia storici (i pittori classici della storia dell’arte italiana): Piero Della Francesca (i fotogrammi iniziali con Maria incinta sono ispirati alla Madonna del parto, i costumi dei farisei o dei soldati agli affreschi della basilica di San Francesco di Arezzo), Filippo Lippi o Botticelli (come la danza di Salomè – ipse dixit –) Masaccio, Duccio, un Seicento non meglio individuato (le scene dell’adorazione dei magi) con qualche digressione nell’espressionismo. L’arte pittorica viene evocata solo per un primo spunto estetico, perché vi cercheremmo invano delle ricostruzioni esatte di celebri dipinti.

Di fronte a questa voluta congerie di stili, il film ha unità stilistica? Il suo stesso autore non sapeva rispondere a questa domanda. Chi scrive ritiene evidente che quello che da unità al film siano la figura di Cristo, che costituisce in fondo il perno su cui ruota la voluta varietà di linguaggi; e le composizioni musicali, le quali, sebbene numerose ed eterogenee, ricompaiono in momenti diversi del film, creando delle connessioni emozionali tra le sequenze filmiche che sottolineano.

Le riprese si svolsero dal 24 aprile a fine luglio del 1964. Il film fu presentato alla XXIV Mostra del Cinema di Venezia il 4 settembre 1964. Il suo autore disse di averlo completato il 3 settembre, e di aver poi compiuto qualche ulteriore ritocco. Vivente Pasolini, il film ricevette numerosi premi, due dei quali rifiutati. Dei film fatti fino al 1964 fu quello che incassò di più al botteghino.

 

La colonna sonora

 

Benché ‘colonna sonora’ non sia affatto sinonimo di ‘musica di un film’, tuttavia in questa parte mi occuperò della definizione di musica in Pasolini e della sua funzione nei film fino al Vangelo.

Le riflessioni sulla musica vanno minuziosamente ricercate nel mare magnum delle dichiarazioni, delle interviste e degli articoli sul cinema, e rischiano di passare inosservate. Nonostante le sue lacune storico-tecniche – non incontrò alcun maestro analogo a Roberto Longhi che lo introducesse alla produzione musicale storica dell’occidente – l’atteggiamento critico di fronte al fatto musicale comparve già in giovane età in Pasolini. Da come disse in un’intervista, amava la musica quasi di più della pittura, anche se ‘se ne intendeva di meno’ dal punto di vista tecnico.

Risale al 1944, quando conobbe la violinista Pina Kalč e provò a ricominciare a prendere lezioni di violino, il suo studio sulle sonate e partite di Bach (letto in pubblico dal suo autore, ma mai pubblicato finché visse, ebbe solo nel 1999 la sua editio princeps). Già in questo primo scritto compaiono elementi quali: 1) la consapevolezza della impossibilità di interpretare pienamente ed adeguatamente una realizzazione musicale con il lessico ordinario; 2) la consapevolezza che la musica, arte non destinata a veicolare un contenuto semantico, ha un senso non in se stessa, ma ne viene dotata dal suo percepente (ma la sua futura attività registica sconfesserà in parte questo assunto); 3) il tentativo di descrivere la musica in termini di emozioni suscitate in lui e di paragoni o relazioni di questa o quella frase musicale con elementi extra-sonori della realtà.

Le biografie ci dicono che sempre in questi anni (l’Italia vive il periodo della Resistenza), Pasolini iniziò a nutrire interessi verso la poesia popolare e contadina e, inevitabilmente, anche verso la musica popolare, dato che la poesia di tradizione orale è assai spesso cantata.

Dopo il saggio giovanile, gli interventi di Pasolini sul tema della musica si fanno sporadici, trattando di questo argomento soltanto quando sono degli intervistatori a sollevare la questione. Il nuovo rapporto con la musica dipende dall’aver intrapreso la carriera registica. Ora si tratta di dare un senso alla messa insieme di quella musica con quelle immagini.

Nel gennaio del 1962, in un incontro con gli allievi alla scuola sperimentale di cinema, ci si mise a scandagliare Accattone. Il regista spiegò che la scelta delle composizioni musicali è stata questione di gusto personale: «quando pensavo genericamente di fare un film, pensavo che non avrei potuto commentarlo altrimenti che con la musica di Bach; un po’ perché è l’autore che amo di più; e un po’ perché per me la musica di Bach è la musica in sé, la musica in assoluto».[12]

Ma vi fu anche l’influsso della tecnica di scrittura del romanzo: Bach corrisponde al registro elevato, il blues St. James Infirmary alle frasi in dialetto. Si noti il fatto che il regista mette in atto questo scarto fra registri stilistici tramite la musica adottata, più che tramite ciò che viene percepito dall’occhio.

Nel settembre dello stesso anno, Pasolini, rispondendo ad una domanda di un intervistatore su Mamma Roma, ha l’occasione di dire che le composizioni che sceglie per i suoi film hanno la funzione di leitmotiv: come in Accattone c’è il «motivo d’amore», il motivo della «morte più o meno redenta» (il coro di Bach), quello del male misterioso eccetera (dunque le musiche del film sono «motivi conduttori per i personaggi e per i loro problemi»), così per Mamma Roma la scelta della musica è avvenuta con lo stesso criterio, e Pasolini riconosce che «la musica nel film ha senz’altro un grande valore emotivo, ma è sempre fiancheggiatrice rispetto a tutto il resto».[13] Afferma poi, un po’ tra le righe, che sarebbe quasi meglio, per una visione del film senza sovra-interpretazioni distraenti, se lo spettatore non sapesse quale composizione sia la musica che procede assieme alle immagini, e chi lo sapesse, fosse capace di superare queste sue conoscenze, perché a causa di esse potrebbe male interpretare «la funzionalità della musica prescelta», ovvero che la musica è «un elemento puramente psicologico del film», a cui si affida una funzione didascalica.[14]

A chiarimento delle sue affermazioni, e per rispondere al perché del contrasto che molti commentatori notavano tra le immagini e le musiche dei suoi film, Pasolini dice al suo intervistatore, Maurizio Ponzi, che la musica è l’elemento clamoroso, la veste esteriore dello stile del film. Ovvero: la macchina da presa può anche farci vedere dei «personaggi miserabili» o «che sono al di fuori di una coscienza storica», ma la musica che «commenta queste immagini», appartenente alla tradizione colta, indica che vedere il mondo sottoproletario come «crudo e puzzolente»[15] (così il suo intervistatore) è una deformazione creata dal nostro occhio di spettatori borghesi omologati. Il messaggio è quindi: ‘non ti fidare di come ti appaiono, perché le loro azioni – come io, il regista, ti sto informando attraverso la musica – sono in realtà epiche e degne di un testo sacro’.

È per questo motivo che il regista può far sentire il coro finale della Passione secondo Matteo di Bach durante la lotta del protagonista con l’ex-cognato nel film Accattone, nonostante la vicenda si svolga in epoca attuale (nel 1961), e nel decorso narrativo del film non ci sia niente che giustifichi la presenza nella colonna sonora di musica sacra evangelico-luterana del XVIII secolo. Posta nel film, la musica esprime il livello profondo di quello che vediamo sullo schermo: la ‘superficie’ ci mostra uno scontro che immaginiamo essere accaduto chissà quante altre volte fra due borgatari romani, ma quello che sta in profondità rispetto a ciò che vede l’occhio è una lotta epica di quello che sarà un martire sociale. Anche Accattone, benché sia evidentemente un fuorilegge, ha una dignità, anzi, anch’egli è figura christi, ed è unicamente la musica scelta per fondersi a queste immagini che riesce a comunicarcelo. Immaginiamo quella stessa scena accompagnata da musica per sole percussioni…

La successiva evocazione della musica si ha nell’agosto 1966, quando, al ritorno da New York e durante una crisi che lo spinge quasi a non voler più scrivere poesia, compone un’autopresentazione destinata ad un immaginario critico americano, che doveva intitolarsi Who is me, dalla quale propongo i seguenti excerpta:

[La mia vita sia] Non questa mia espressione di poeta rinunciatario, […] / ma l’espressione staccata dalle cose, [è una definizione di musica] / i segni fatti musica, / la poesia cantata e oscura, / che non esprime nulla se non se stessa […] / Avrò sempre il rimpianto di quella poesia / che è azione essa stessa, nel suo distacco dalle cose, / nella sua musica che non esprime nulla / se non la propria arida e sublime passione per se stessa. / Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti, / che io vorrei essere scrittore di musica, / vivere con degli strumenti / dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare, / nel paesaggio più bello del mondo, […] e lì comporre musica / l’unica azione espressiva / forse alta, e indefinibile come le azioni della realtà.[16]

 

L’argomento principale di questi versi è la poesia ideale, che Pasolini tende a scrivere, pur consapevole che questa sta ad un livello inattingibile: la poesia perfetta è un’espressione letteraria la più vicina possibile alla musica, puro suono svincolato dall’obbligo di significare, che si sottrae alle definizioni, somigliante alla realtà stessa, ma tuttavia dotata di «un’arida passione». Riemergono in parte le considerazioni finali esposte nel saggio sulla musica per violino solo di Bach. È degno di nota che la sua definizione del comporre musica assomigli fortemente alla sua definizione di fare del cinema.

In questi anni, Pasolini vive la stagione dei film volutamente difficili, da egli stesso così definiti, la cui difficoltà è una strategia per limitare i danni della commercializzazione e massificazione del prodotto creativo.

Per questi film, spiega al suo intervistatore Jean Duflot, «mi controllo e diffido dell’illustrazione musicale. Molto spesso può dissimulare debolezze stilistiche o tecniche».[17] Abbiamo un ulteriore squarcio sul compito della musica nel film. L’espressione che vorrei far notare è «illustrazione musicale»: anche la musica illustra, la colonna visiva non è il totale dell’illustrazione, il quale si può raggiungere solo unendo musica e visione nel prodotto audiovisivo.

Le risposte agli intervistatori Duflot e Halliday concernono un’ulteriore giustificazione alla sua concezione per l’abbinamento di immagini e musica: non sempre i critici, alla prima, notavano contrasti violenti tra componente visiva e componente uditiva del film: Mamma Roma, spiega Pasolini, appartiene a questa seconda tendenza, nella quale è popolare tanto ciò che si vede quanto ciò che si sente, di conseguenza i commentatori hanno capito di più la presenza della musica di Vivaldi (che per Pasolini – ed evidentemente anche per i suoi critici, quando non la credevano opera del collaboratore C. Rustichelli! – riprende motivi popolari) che non quella di Bach in Accattone. Oltre a questa constatazione, il regista-scrittore non fa ulteriori osservazioni in merito alle musiche dei film realizzati prima di Uccellacci ed uccellini.

Successiva a queste interviste è La musica nel film, databile al 1972.[18] Questo corto scritto (composto per il retro di copertina di un disco di Morricone) è la più compiuta concettualizzazione sulla musica, e la musica dei film in particolare, che il Pasolini maturo ci abbia lasciato. Sperando che i lettori di questo intervento non manchino di leggerla, possiamo evidenziarne i punti più notevoli:

  1. La musica di un film può anche pre-esistere al film che la avrà come colonna sonora, ma è solo applicandola al film che diventerà musica del film, e non saranno più come prima né la musica né le immagin.
     

  2. Un prodotto musicale è in primo luogo una manifestazione comunicativa assoluta, dotata del potere di «cristallizzazione di un sentimento e sentimentalizzazione di un concetto», ovvero: la musica rende razionale/calcolabile l’emozionale/passionale e viceversa, spianando le barriere tra queste due polarità dell’interiorità umana. Nel film, la musica orienta l’interpretazione di quello che le immagini mostrano, rendendo per quanto possibile «fisicamente presente», chiaro ed inequivoco allo spettatore il senso profondo – che sta originariamente nella mente del regista, e che aspetta il mezzo per essere esplicitato – di quanto sta percependo (Pasolini denomina questa caratteristica «funzione didascalica della musica»).
     

  3. Applicare della musica ad una sequenza visiva, è un’operazione che si può fare con due mentalità differenti, pur avvenendo tecnicamente allo stesso modo. La prima, quella dell’applicazione orizzontale, è «una linearità e una successività che si applica ad un’altra linearità e successività» ed in tal caso i valori aggiunti (espressione che si ritrova anche in M. Chion con lo stesso significato che in Pasolini) consistono in una modifica del ritmo complessivo, ed esaltano l’espressività del ritmo già dato dal montaggio alle immagini pure. Con questo risultato a due strati non otteniamo ancora un continuum audiovisivo. La seconda, quella dell’applicazione verticale, viene ad agire sul senso stesso; in questo caso «la fonte musicale […] non è individuabile sullo schermo – e nasce da un ‘altrove’ fisico per sua natura ‘profondo’ –» che non può essere localizzato né dai personaggi né dallo spettatore, e «sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita».

In questo caso i valori aggiunti sono non soltanto espressivi, ma addirittura «indefinibili, perché essi trascendono il cinema, e riconducono il cinema alla realtà» stessa, «dove la fonte dei suoni ha una profondità reale». Questo è il caso della vera realizzazione creativa audiovisiva.[19]

Per il regista-scrittore il cinema è «la lingua scritta della realtà»,[20] di cui tentò di scrivere i rudimenti di una grammatica e di una semiologia.

Una lingua, anche quella del cinema, è composta di vocaboli, da Pasolini chiamati imsegni (il frutto della compenetrazione immagine+segno) i cui archetipi mentali sono le immagini del sogno e della memoria. Per Pasolini, dunque, l’esistenza di vocaboli audiovisivi è evidente e dimostrata: la lingua parlata sta alla lingua scritta come la realtà agìta sta al cinema. Anzi, il sistema di segni del cinema e quello della realtà sono coincidenti.

Gli imsegni sono sempre concreti e, poiché è con la realtà concreta di quello che sta davanti alla macchina da presa che il regista scrive, ne consegue che è necessariamente impossibilitato a scrivere imsegni astratti: come potrà inserire vocaboli quali felicità o tristezza (per limitarsi ai più semplici)? L’unica soluzione è affidare questo compito alla colonna sonora. L’inserimento di musica è dunque giustificato da momenti filmici che il regista vuole rendere patetici, che non potremmo identificare come tali senza di essa.

Ma se la musica ha un così basso livello semantico, com’è possibile che possa cambiare il significato di una sequenza di pellicola, quando non dargliene uno tout court? Il prodotto audiovisivo non starà forse a dimostrarci che anche la musica ha un codice con cui comunica concetti? Pasolini forse non si è mai posto quest’ultima domanda, pur avendo risposto (con le sue opere) in entrambi i sensi: con i testi saggistici di no, e con i film di , e non sarà forse un caso se in questi ricorse alla musica barocca, dichiaratamente composta secondo figure retorico-espressive.

Per il Vangelo, come per gli altri film, la colonna sonora è stata curata personalmente dal regista. Faccio notare che mentre Pasolini si affidò a dei collaboratori per aspetti quali le luci, i costumi, la scenografia ecc., per l’aspetto della colonna sonora volle operare in prima persona: segno del fatto che la musica non era forse così esteriore come dichiarò (ma forse solo per trarsi d’impaccio davanti ad intervistatori-inquisitori). Certo, c’è la collaborazione con il musicista argentino Luis E. Bacalov, ma questa si riduce complessivamente a non troppi minuti di musica, e mi dà l’impressione di essere qualcosa di giunto nel film piuttosto tardi. Non sono riuscito a trovare niente di degno di nota che tratti della collaborazione tra il regista e questo compositore. Ci sarà pure una ragione: è noto che Pasolini non trovò il suo Nino Rota, il suo personale ‘tecnico musicale’. Come prendeva gli attori dalla realtà, così anche per le composizioni per la colonna sonora manteneva un atteggiamento analogo.

La biografia di Enzo Siciliano ci informa che nei mesi in cui si dedicò alla sceneggiatura Pasolini avesse ricevuto consigli per la musica da Elsa Morante, che gli presentò delle composizioni che avrebbero potuto fornire una buona colonna sonora al suo Vangelo, e mise a disposizione del poeta la sua raccolta discografica. Prima di esplorare la discoteca di casa Morante, Pasolini pensò il suo Vangelo con musica molto meno diversificata rispetto al risultato finale. Ne è testimonianza la prima versione della sceneggiatura pubblicata da Siti e Zabagli. Anche nel caso del film su Cristo dovevano esserci una serie di motivi-guida definiti «musica profetica di Bach (o il motivo profetico di Bach)», «musica altissima di Bach, canto di angeli (musica altissima di Bach)», «musica gioiosa di Mozart», «motivo della morte di Bach», «adagio di Telemann», «suono di tromba (motivo di Bach)», «Boato che si dilegua e si perde in una musica colma di sacra allegrezza (Mozart) o musica religiosamente allegra di Mozart». A quali composizioni si riferì esattamente Pasolini? Non possiamo più saperlo con precisione. Nel film come lo vediamo oggi, non abbiamo più, ad esempio, la «musica profetica di Bach» ripetuta in tutti gli stessi punti esatti in cui l’indicazione del suo uso compariva nella prima versione della sceneggiatura, perché siamo in presenza di musiche diverse. Senza contare il fatto che il film come si presenta allo stato attuale è più corto della versione della sceneggiatura riportata dai curatori citati, ed è questa la ragione per cui sparisce il «suono di tromba (motivo di Bach)» che doveva rappresentare le trombe del giudizio finale. Non resta traccia nemmeno dell’«adagio di Telemann» che doveva essere la musica della danza di Salomè, e che fu sostituita da una composizione di Luis Enrique Bacalov. Forse si può ancora identificare un motivo teofanico: è la maurerische Trauermusik «su cui» spiegò il regista in un’intervista del 1964 «ho veramente pensato l’apparizione di Cristo al Giordano».[21]

La presenza della musica dalla Passione secondo Matteo di Bach si presta ad alcune critiche: rischia di farci ricordare Accattone, dà un po’ il senso che abbia ‘piovuto sul bagnato’ (il Vangelo di Matteo assieme alla la Matthäuspassion…), evidentemente il regista non trovò nient’altro per comunicare il senso di momento sublime e, se si nota bene, fu usata da Pasolini nelle sequenze anteriori alla conversione al pastiche.

Oltre ai suoni propriamente musicali, è degno di nota che Pasolini avesse posto fin nella prima sceneggiatura anche rumori naturali e ambientali, alla pari con i suoni musicali e quelli del parlato: compaiono ad esempio indicazioni come «canto dell’usignolo», «rumori della città» o anche una espressione musicale umana come «canto del fellah» (ma sta fra i rumori anch’esso!). Anche il canto dell’usignolo ha un valore espressivo.

Importante anche la presenza del silenzio: Pasolini rispetta anche in questo caso il dettato evangelico, (anche se ciò gli dovesse costare qualche acrobazia visiva) praticamente non ci sono aggiunte al testo di Matteo: Maria non ha neanche una battuta da dire. Nelle scene della crocifissione si leggono sulle labbra dell’attrice le parole «ah figlio mio», ma si sente la musica mozartiana. Altro suono degno di nota è la voce off, che in questo film è nientemeno che la voce divina, ma anche la voce del profeta Geremia, che si ode dopo la strage degli innocenti.

Il tempo occupato da suoni musicali nel decorso del film è di 81 minuti e 47 secondi su di un film di 131 minuti, ovvero il 62% del totale del tempo di proiezione. Non ci si lasci spaventare dal loro numero e dalla loro diversità di carattere, origine e momento storico di composizione: si tratta di un simbolo, quello dell’ecumenismo giovanneo (oltre alla solita risorsa del pastiche pasoliniano).

Uno spoglio completo delle composizioni scelte da Pasolini per il suo film dà il seguente risultato (si veda la tabella 1).

 

Alcuni esempi di sintassi audiovisiva

Tabella 2

L’ispirazione per la scena della strage degli innocenti venne a Pasolini dagli episodi della Seconda Guerra Mondiale ai quali probabilmente assisté di persona. I soldati di Erode dovevano dare l’idea delle squadracce nazi-fasciste, ed in effetti, se si osserva il loro abbigliamento, si nota sul loro capo un cappellaccio che può ricordare il fez. Non indossano (ovviamente) delle camicie nere, ma il mantello nero supplisce adeguatamente alla mancanza.

La musica che si ascolta in questa scena è tratta dalla Cantata op. 78 di Prokof’ev, ma non si può dimenticare che questa è la rielaborazione della musica scritta per il film Alexander Nevskji di S. Ejzenstejn. Siamo dunque di fronte a musica di un film costituita da musica di un altro film: nel mondo della cinematografia questa è una cosa estremamente rara. Non dubito che Pasolini l’abbia scelta perché è una musica ‘a tinte forti’, ma noto anche che pure nel film ejsenstejniano era presente un riferimento ad armate naziste: sono simboleggiate dai cavalieri teutonici (e guarda caso proprio questa parte della cantata è quella scelta dal nostro regista-scrittore per il suo film). Gli estratti scelti da Pasolini sono l’inizio della cantata (il motivo di tre note in unisono – nei registri propri a ciascun strumento –), una piccola parte del coro in latino-nonsense, e l’accordo di tutta l’orchestra che segue all’intervento corale, con tromba in fff. La musica originale della cantata non è come la sentiamo nel Vangelo, e Pasolini è intervenuto compiendo un vero e proprio montaggio anche sulla colonna sonora.

Giunti ad 1h 9m 35s quello che vediamo è la cella di San Giovanni Battista e quello che sentiamo è il motivo delle tre note all’unisono: grazie ad esse comprendiamo che il destino del Battista è il medesimo che ebbero i bambini innocenti.

Tabella 3

Il secondo esempio ha per oggetto una sequenza molto semplice: una panoramica della città di Gerusalemme (ovvero Matera) in modo da far vedere luoghi distanti e poi via via sempre più vicini, fino a quando, al cambio di inquadratura che segue, Gesù sceglie e fa avviare alcuni discepoli verso la città perché vi predichino.

Questo è almeno ciò che si vede. Ciò che si sente fa porre allo spettatore la domanda: ma dov’è il maniscalco dotato di una così notevole presenza fonica? Sarà forse, dal momento che Gerusalemme è la città dove Cristo sarà condannato a morte, una rappresentazione/prefigurazione del pestare del martello sui chiodi della croce? E poi: questo vociare tanto pervasivo fa credere che la città sia piena di gente, quando la colonna visiva non ci mostra propriamente una folla! Ecco che questa pur breve sequenza ha tutte le caratteristiche di frase audiovisiva: non vedo tutto ciò che sento e non sento tutto ciò che vedo, soltanto l’insieme dei due canali comunicativi restituisce a me spettatore il messaggio reale del regista.

Pasolini l’aveva ben capito:

Ho scandagliato approfonditamente il fatto che il cinema è una tecnica audiovisiva; ho abbandonato del tutto l’idea del cinema come immagine[…] il cinema non è pura immagine, è una tecnica audiovisiva in cui parola e suono hanno la stessa importanza dell’immagine.[22]

 

Scheda del film

Il Vangelo secondo Matteo, scritto e diretto da P.P. Pasolini; Formato: 35mm, b/n, 1:1.85; Produzione: Arco Film e Lux Compagnie Cinématographique de France; Produttore: Alfredo Bini; 1964 (DVD Il Vangelo secondo Matteo – versione restaurata. Medusa film).

Distribuzione: Titanus; riprese: aprile-luglio 1964; teatri di posa: Roma, Incir De Paolis; esterni: Orte, Montecavo, Tivoli, Potenza, Matera, Barile, Bari, Gioia del Colle, Massafra, Catanzaro, Crotone, Valle dell’Etna; durata: 132 minuti.

Fotografia: Tonino Delli Colli; architetto-scenografo: Luigi Scaccianoce; costumi: Danilo Donati; musiche: a cura di Pier Paolo Pasolini; musiche originali: Luis Bacalov; montaggio: Nino Baragli; aiuto alla regia: Maurizio Lucidi; assistenti alla regia: Paul Schneider, Elsa Morante.

Interpreti e personaggi: Enrique Irazoqui (Gesù Cristo, doppiato da Enrico Maria Salerno; Margherita Caruso (Maria Giovane); Susanna Pasolini (Maria Anziana); Marcello Morante (Giuseppe); Mario Socrate (Giovanni Battista); Rodolfo Wilcock (Caifa); Alessandro Clerici (Ponzio Pilato); Paola Tedesco (Salomè); Rossana Di Rocco (angelo del Signore); Natalia Ginzburg (Maria di Betania); Ninetto Davoli (pastore); Francesco Leonetti (Erode II); Franca Cupane (Erodiade); Apostoli Settimio Di Porto (Pietro); Otello Sestili (Giuda); Enzo Siciliano (Simone); Giorgio Agamben (Filippo); Ferruccio Nuzzo (Matteo); Giacomo Morante (Giovanni); Alfonso Gatto (Andrea); Guido Gerretani (Bartolomeo); Rosario Migale (Tommaso); Luigi Barbini (Giacomo di Zebedeo); Marcello Galdini (Giacomo di Anfeo); Elio Spaziani (Taddeo).

 

Bibliografia

ROBERTO CALABRETTO, Pasolini e la musica, Pordenone, Cinemazero, 1999;

MICHEL CHION, L’audiovisione: suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 20012;

FRANCO GRATTAROLA, Pasolini una vita violentata. Pestaggi fisici e linciaggi morali: cronaca di una via crucis laica attraverso la stampa dell’epoca, Roma, Coniglio Editore, 2005;

PIER PAOLO PASOLINI, Il Vangelo secondo Matteo, Milano, Garzanti, 1964;

—————, Lettere 1955-1975, a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1988;

—————, Saggi sulla politica e la società, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, Milano, Mondadori, 1999;

—————, Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, 2 voll., Milano, Mondadori, 2001;

—————, Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, 2 voll., Milano, Mondadori, 2003;

—————, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, 2 voll., Milano, Mondadori, 2004;

ENZO SICILIANO, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano, 2005.

 

Sitografia

Portale ufficiale di «Pagine Corsare» e del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini: www.pasolini.net

 

 

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[Bio] Paolo Vittorelli ha conseguito la laurea specialistica in Musicologia e Beni musicali. Ha scritto la voce Lambardi per il Dizionario Biografico degli Italiani. Attualmente è dottorando presso l’Università di Pavia-Cremona e conduce ricerche su Baldassarre Galuppi e gli ospedali veneziani.

E-mail: paolovittorelli@yahoo.it

Paolo Vittorelli graduated in Musicology (MA degree). He wrote entry Lambardi in ‘Dizionario Biografico degli Italiani’. Currently he’s attending PhD in Musicology at Pavia-Cremona University and he’s working on thesis about Baldassarre Galuppi and venetians ospedali.

[1] Cristo mi chiama / ma senza luce: PIER PAOLO PASOLINI, Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, 2 voll., Milano, Mondadori, 2003, vol. 1, p. 42.

[2] PIER PAOLO PASOLINI, Saggi sulla politica e la società, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 1329; FRANCO GRATTAROLA, Pasolini una vita violentata. Pestaggi fisici e linciaggi morali: cronaca di una via crucis laica attraverso la stampa dell’epoca, Roma, Coniglio Editore, 2005, p. 190.

[3] Ibid., p. 767.

[4] PIER PAOLO PASOLINI, Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, 2 voll., Milano, Mondadori, 2001, vol. 1, p. 660.

[5] Ibid., vol. 2, p. 2839.

[6] PASOLINI, Saggi sulla politica, cit., pp. 1332-1333.

[7] PIER PAOLO PASOLINI, Lettere 1955-1975, a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1988, p. 563.

[8] GRATTAROLA, Pasolini una vita violentata, cit., p. 222.

[9] PASOLINI, Per il cinema, cit., vol.1, p. 673.

[10] PASOLINI, Saggi sulla politica, cit., rispettivamente pp. 866, 1563 e 1333.

[11] Ibid., p. 1333.

[12] PASOLINI, Per il cinema, cit., vol. 2, p. 2813.

[13] Ibid., pp. 2825-2826.

[14] Ibid., p. 2863.

[15] Ibid., pp. 2799-2835 e 2844-2879.

[16] PIER PAOLO PASOLINI, Il poeta delle ceneri, in Tutte le poesie, 2 voll., Milano, Mondadori, 2003, vol. 2 pp. 1287-1288.

[17] PASOLINI, Saggi sulla politica, cit., p. 1511.

[18] PASOLINI, Per il cinema, cit., vol. 2, p. 2795.

[19] Ibid., pp. 2795-2796.

[20] PIER PAOLO PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia de Laude, Milano, Mondadori, 2004, vol. 1, p. 1503.

[21] PASOLINI, Saggi sulla politica, cit., p. 783.

[22] Ibid., p. 1383.

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