CARLO BIANCHI, Der Cornet di Rainer Maria Rilke tra Martin e Viktor Ullmann :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Carlo Bianchi*

 

Il «Cornet» di Rainer Maria Rilke fra Martin e Viktor Ullmann. Un testo letterario e due poetiche dei dodici suoni

 

 

I. Parole, musica, guerra

 

Durante la seconda guerra mondiale, le immaginazioni sonore di Frank Martin e Viktor Ullmann furono conquistate da una medesima storia di dame, cavalieri, armi e amori: una storia antica trasfigurata da un moderno sentire, narrata sul nascere del Novecento da Rainer Maria Rilke nel poemetto Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke (‘Il canto d’amore e morte dell’alfiere Christoph Rilke’, d’ora in poi Cornet), in cui il poeta rievoca una crociata contro i turchi condotta dal suo antenato Christoph nel XVII secolo. Era un episodio storico come tanti, un mero fatto di cronaca, che però la penna di Rilke aveva reso un’opera artistica di rara penetrazione psicologica e dal seducente linguaggio ibrido: trecentocinquanta righe scritte in uno stile insieme poetico e narrativo, in una prosa che urge alla poesia, al lirismo.[1] Martin e Ullmann ne trassero due composizioni rispettivamente nel 1942-1943 e nel 1944, in pieno conflitto, ricollegandosi così, anche solo involontariamente, a quei compositori come Kurt Weill, Paul von Klenau e Kasimir von Pászthory che avevano avvertito questi versi di Rilke particolarmente adatti a risuonare in musica al tempo della prima guerra mondiale.[2]

È facile ritrovare i motivi per cui il Cornet, testo avvincente ed eccezionalmente diffuso, con migliaia di copie vendute fin dalle prime edizioni, fosse protagonista di una ricezione non solo generica ma anche specificamente musicale e bellica. Infatti, esso da un lato offriva una versificazione che oltre a venarsi di una propria musicalità, fatta di assonanze, allitterazioni e onomatopee, si rivelava in sintonia con molte forme e sintassi musicali novecentesche in ragione di una struttura complessivamente libera, rapsodica, tutta a scorci, facilmente sezionabile e adattabile anche grazie a una griglia alquanto regolare di ventisei brevi capitoli. D’altronde, Rilke cantava l’amore e la morte in una poesia di guerra, ammantando l’avventura cavalleresca di tali caratteri eroici, patriottici e sacrificali – in ultima istanza di glorificazione della battaglia – da rendere il Cornet identificabile in vari modi con gli slanci di nazionalismo interventista che percorrevano l’Europa nei due decenni intorno alla Grande Guerra.[3] A tale aura del Cornet contribuì peraltro anche il susseguirsi delle sue varie versioni ed edizioni, dato che la prima versione del Cornet risale al 1899 ma il grande successo editoriale giunse proprio a ridosso del conflitto, nel 1912, quando una nuova e definitiva versione, approntata da Rilke già nel 1906, venne pubblicata come primo volume della collana Insel-Bücherei, che sarebbe poi divenuta celebre.

In verità, né le trasposizioni musicali del Cornet né le sue aggiornate connotazioni patriottico-militari rispondevano alle intenzioni e all’approvazione di Rilke. Egli tuttavia non poté opporsi né all’una né all’altra tendenza interpretativa; dovette piuttosto assistere all’inveramento di un principio da lui stesso dichiarato, secondo cui l’opera d’arte, in generale, «è una confessione profondamente intima che si presenta sotto forma di un ricordo, di un’esperienza o di un evento e che può esistere da sola, indipendentemente dal suo artefice».[4] Rilke dovette constatare insomma come il suo testo, una volta dato alla comunità estetica, potesse non senza motivo essere oggetto di svariate ricezioni all’interno di orizzonti di significato che oltrepassavano quello dell’originale atto creativo.

In merito alle trasposizioni musicali, Rilke era contrario a quelle del Cornet come a quelle di qualsiasi altra sua opera, perché, a suo dire, accostare contemporaneamente musica e poesia significava creare un attrito fra le due arti. Secondo lui, la sua poesia bastava a se stessa. Non vi era spazio per altre ‘illustrazioni’, nemmeno per quelle pittoriche.[5]

Sono, ahimé!, davvero sinceramente avverso a qualsiasi accompagnamento – musicale tanto quanto figurativo – delle mie opere. Dopo tutto, il mio scopo è quello di riempire con la mia creazione tutto lo spazio artistico che si offre ad un’idea della mia mente. Detesto credere che ci possa essere una qualche stanza lasciata a disposizione per un’altra arte, che quindi sarebbe a sua volta interpretativa e complementare.[6]

Pur osteggiando apertamente in particolare il pezzo di Pászthory – affermando di sentirsi «castigato» da una musica che costituiva una «fessura» (Ritze) tramite la quale il testo poetico era stato «invaso dalle tarme» (drang das Mottenvolk ein) –,[7] Rilke non fu nelle condizioni di negare al compositore il permesso per l’esecuzione e la pubblicazione del brano, nonché per l’organizzazione di serate in cui questo arrangiamento del Cornet costituiva una delle principali attrattive (in seguito, peraltro, a Rilke fu anche garantita una percentuale sui guadagni procurati dagli sfruttamenti musicali del Cornet, e non solo quello di Pászthory). Né Rilke poté in alcun modo interferire con la forte ricezione musicale di cui godeva la sua poesia in generale.[8]

Riguardo invece all’interpretazione del Cornet come poesia di guerra e della Grande Guerra, sembra che Rilke in questi versi risentisse a malapena della propria personale esperienza all’Accademia militare, e nel 1899 certo non poteva immaginare la catastrofe che anni dopo avrebbe sconvolto l’Europa. Egli attribuiva al vero artista, e ovviamente a se stesso, una «visione esistenziale estranea al proprio tempo» (zeitfremdem Lebensmeinung) sostenendo che l’arte, per essere tale, non poteva accompagnare gli eventi con patriottici gesti di disapprovazione o di consenso, pena la sua riduzione a un mero «giornalismo rimato o dipinto» (gereimter oder gemalter Journalismus). Conscio tuttavia che l’artista inevitabilmente si incontra con i portati della propria epoca, concepiva l’atto creativo proprio come prodotto del conflitto fra la sfera del presente e quella autonoma dell’arte.[9] Così, Rilke fu contrariato dai nuovi significati bellici e sociali assunti dal Cornet, ma a testimonianza di come in seguito li abbia compresi, e in un certo senso si sia adeguato ad essi, basti citare una sua poesia del 1914, spedita, insieme con una copia del poemetto, a un tenente rimasto ferito in guerra:

Noch weiß ich sie, die wunderlich Nacht
da ich dies schrieb: was war ich jung.
Nun hat seither des Schicksals Forderung
Geschehen über Tausende gebracht.
Mut über Tausende, Not über sie,
und über Hunderte das Heldentum
das plötzliche: als hätten sie noch nie
ihr Herz gekannt. So war auch meines ganz
wie neu für mich in jener fernen Nacht
da ungeahnt, unausgedacht
dieses Gedicht aus ihm entsprang…
So sind wir etwas, sinds und wissens nicht
und Schicksal ist nicht mehr als wir: es will.
[10]

 

Al di là dell’originario e autentico sentire del suo autore, dunque, il Cornet ben si prestava ad essere musicato in un periodo bellico. Così era stato durante la prima guerra mondiale e così fu durante la seconda per Martin e Ullmann.[11] Nell’avventura dell’alfiere rilkiano i due compositori individuarono un testo che rispondeva alle loro esigenze, compositive ed extramusicali, e su tale base letteraria, a circa un anno di distanza l’uno dall’altro, scrissero rispettivamente un ampio Lied per contralto e orchestra da camera (Martin)[12] e un melologo per voce recitante e pianoforte (Ullmann). In quel periodo Martin e Ullmann partecipavano della stessa circostanza storica e sociale della guerra, e tuttavia affrontavano condizioni pratiche ed esistenziali assai differenti. Infatti, Martin si trovava nella natia e neutrale Svizzera, al riparo dai pericoli del conflitto, mentre Ullmann nell’agosto 1944, quando mise in musica i versi di Rilke, era internato ormai da due anni nel ghetto di Theresienstadt: il Cornet sarebbe stata la sua ultima composizione, prima della fatale deportazione ad Auschwitz.

Quantunque al tempo della seconda guerra mondiale il Cornet non avesse affatto smarrito il suo potenziale significato di poesia bellica ‘attualizzabile’, non sarà forse mai possibile stabilire se effettivamente Martin e Ullmann – in che misura e in quale modo – intendessero la battaglia narrata nel Cornet come un allegorico riferimento alla realtà circostante. Disponiamo di alcune dichiarazioni di Martin riguardo alla nascita del suo Cornet che in verità non fanno riferimento a un intendimento poetico di tal genere ma che, semmai, testimoniano il generico forte fascino provato dal compositore per quest’opera e per il modo in cui la lingua rilkiana parla di guerra. Egli infatti la definisce una «breve epopea», una serie di «piccoli poemi in prosa» (rievocando così quelli di Baudelaire ne Le spleen de Paris) che riescono a salvaguardare una sensibilità incredibilmente raffinata «pure nella raffigurazione della brutalità della guerra».[13]

Per ciò che riguarda Ullmann, invece, l’intenzione di affidare alle parole di Rilke un qualche significato di rappresentazione ‘attualizzata’ è solo deducibile da alcuni indizi indiretti, ovvero da ciò che si può ricostruire della vita sociale e dell’atteggiamento artistico del compositore nel ghetto di Theresienstadt. Forse musicare il Cornet era un modo per rendere omaggio a un compositore e amico di Ullmann, Siegmund Schul, anche lui internato a Theresienstadt, deceduto il 2 giugno del 1944; ma non è improbabile che l’incedere di Christoph contro i turchi nascondesse per Ullmann il significato di un incoraggiamento alla resistenza contro le forze naziste, proprio nel momento in cui all’interno del campo si diffondevano le notizie dell’avvenuto sbarco in Normandia da parte delle forze americane e dell’avanzata verso Berlino da parte di quelle sovietiche. Inoltre, date le convinzioni spirituali di Ullmann, il significato della morte di Christoph pare oltrepassare quella del singolo e piuttosto da intendersi, in senso ‘steineriano’, come germe di nuova vita – un’idea di morte che senza dubbio apparteneva a Ullmann e che durante la sua prigionia egli aveva espresso come velato simbolo di resistenza nell’opera Der Kaiser von Atlantis.[14]

In ogni caso, a prescindere da eventuali significati extramusicali di natura sociologica, un’analisi del Cornet di Martin e di quello di Ullmann, in un confronto che evidenzi le differenze quanto le sintomatiche affinità, può rivelarsi di estremo interesse per una definizione dello stile e delle visioni estetiche dei due compositori, con riferimento ad alcune generali tendenze della musica del Novecento, nonché per suggerire ulteriori riflessioni sulle caratteristiche semantiche e puramente sonore del testo di Rilke.

 

II. Parole, musica, modernità

 

L’argomento e le strutture poetiche del Cornet scaturiscono da una forte tensione fra tradizione e modernità, a vari livelli. Rilke assume gli elementi arcaici e tradizionali della vicenda del suo antenato con un atteggiamento che in senso lato si potrebbe definire neoromantico, se non addirittura espressionista. Il richiamo dell’avventura epica presenta tratti cari agli scrittori romantici, così come l’espediente del ‘documento ritrovato’: la breve cronaca che Rilke pone ad introduzione del poema per definirne le coordinate storiche è una sorta di estratto di atto giuridico in cui Otto von Rilke viene additato come erede dei poderi del fratello Christoph, caduto in Ungheria contro i turchi. Tale atto, recante gli spunti storici da cui scaturisce la narrazione dell’avventura dell’Alfiere, era stato procurato a Rilke dallo zio Jaroslav, che per documentare la nobiltà della famiglia aveva compiuto delle ricerche nell’Archivio di stato di Sassonia. Storicamente la battaglia è quella di Mogersdorf-San Gottardo, svoltasi nel 1664, in cui gli austriaci alleati con francesi, olandesi e altri, guidati da Raimondo Montecuccoli e Johann Spork, respinsero un attacco dei turchi sul fiume Raab (ora al confine fra Austria meridionale e Ungheria).

Se il fatto è accertato, tanto la discendenza nobile della famiglia Rilke quanto i contorni della partecipazione di Christoph alla battaglia narrata nel poema sono di assai dubbia attendibilità. Le stesse circostanze della stesura del Cornet, riferite da Rilke, indicano un’ispirazione per nulla cronachistica, bensì sospesa fra il gesto rapsodico del genio romantico e una scrittura quasi ‘automatica’. Infatti in una lettera del 1924 – come già nella poesia del 1914 spedita a Friedrich von Mosch (si veda sopra) – Rilke ricordava:

Il Cornet fu il dono inatteso d’una sola notte, d’una notte d’autunno, scritto di un fiato, al lume di due candele agitate dal vento notturno; nacque dal vagare delle nuvole sulla luna, dopo che il pretesto materiale mi era stato ispirato, alcune settimane innanzi, dalla prima conoscenza di certe carte di famiglia venutemi per eredità.[15]

Assunto nella rilkiana poetica del pretesto, lo scenario del dato storico viene filtrato da correlativi oggettivi, elementi simbolici e accenni a percezioni ultrasensibili che conducono all’estremo la poetica propria di molti scrittori romantici e pongono il Cornet sullo stesso piano di altre opere ‘moderne’ ad esso contemporanee – come L’angelo di fuoco (1908) di Valerij Brjusov, ad esempio, in cui lo scrittore russo sfrutta l’espediente del ‘manoscritto ritrovato’ e la vicenda del Rinascimento germanico per una narrazione di stampo pienamente simbolista. L’atteggiamento di Rilke può cioè essere definito genericamente neoromantico se si considera che, oltre al tema del viaggio e oltre al gusto per il ritrovamento di un’epica remota, anche una certa indagine della sfera psicologica, a scapito di quella materiale, concreta e sensibile, risale a istanze del Romanticismo storico, per poi costituire il fondamento di varie correnti a cavallo fra Otto e Novecento, fino a culminare, in ambiti artistici ed epistemologici, con la scoperta dell’inconscio e la nascita della psicoanalisi.[16]

L’avventura riportata nel Cornet vede il diciottenne Christoph Rilke – detto dal narratore «quel di Langenau» – cavalcare a lungo insieme ai suoi compagni e attraversare vari paesaggi per congiungersi all’esercito imperiale del comandante Johann Spork (capitolo X) che conferisce a Christoph il grado di Alfiere. Dopo aver ripreso il viaggio, Christoph e gli altri trovano sosta in un castello dove incontrano delle dame e viene organizzato un festante banchetto, ebbro di danze. Christoph trascorre una notte d’amore con la castellana. Ma il mattino successivo il castello viene messo a ferro e fuoco dai turchi; Christoph si lancia a cavallo contro il nemico e, bruciata la propria bandiera, cade ucciso.

Rilke recupera una figura medievale carica di significati mistici e salvifici, quella del cavaliere, che dopo aver attraversato l’immaginario romantico tendeva all’alba del XX secolo ad incarnare simbolicamente la missione dell’artista stesso (si pensi al gruppo espressionista Der Blaue Reiter [‘Il cavaliere azzurro’]). Muovendo da simili archetipi, la modernità del racconto risiede nell’alternanza, intersezione e confusione che il poeta continuamente crea fra il mondo della realtà e quello interiore del protagonista. Fin dall’inizio, infatti, il cavalcare del viaggio è intriso della forte nostalgia che Christoph nutre soprattutto per la madre – sentimento che si estende poi agli altri compagni d’avventura – e lo scenario sembra indagabile ricorrendo a un misterioso intuito, più che tramite i sensi: «Si hanno due occhi di troppo» (man hat zwei Augen zuviel) ammonisce Rilke dopo pochi versi, schiudendo al lettore una dimensione contaminata dall’indeterminatezza del tempo e dal disorientamento nello spazio. In seguito, sarà sempre sottile il confine fra la concretezza dei corpi e le rappresentazioni della psiche. Un momento di marcata sinestesia fra sogno e coscienza è, ad esempio, il sensuale incontro con le dame durante il banchetto al castello (capitolo XVI):

Und Einer steht und staunt in diese Pracht. Und er ist so geartet, daß er wartet, ob er erwacht. Denn nur im Schlafe schaut man solchen Staat und solche Feste solcher Frauen: ihre kleinste Geste ist eine Falte, fallend in Brokat. Sie bauen Stunden auf aus silbernen Gesprächen, und manchmal heben sie die Hände so –, und du mußt meinen, daß sie irgendwo, wo du nicht hinreichst, sanfte Rosen brächen, die du nicht siehst. Und da träumst du: Geschmückt sein mit ihnen und anders beglückt sein und dir eine Krone verdienen für deine Stirne, die leer ist.[17]

Perfino l’episodio più ‘materico’ di tutta la vicenda, cioè lo scontro col nemico che assalta e incendia il castello il mattino dopo la notte d’amore di Christoph (capitolo XXIII), è avvolto in una sorta di trance che rende il passaggio dal momento onirico dell’amore alla morte in un’accelerazione quasi senza soluzione di continuità.

Ist das der Morgen? Welche Sonne geht auf? Wie groß ist die Sonne. Sind das Vögel? Ihre Stimmen sind überall. / Alles ist hell, aber es ist kein Tag. / Alles ist laut, aber es sind nicht Vogelstimmen. / Das sind die Balken, die leuchten. Das sind die Fenster, die schrein. Und sie schrein, rot, in die Feinde hinein, die draußen stehn im flackernden Land, schrein: Brand.[18]

Ma non è solo l’argomento del racconto di cronaca ad essere modernamente trasfigurato, bensì anche la lingua stessa: versi ora lunghi, ora di una parola sola, che corrono a strappi, con sorprendenti omissioni lessicali, continui spostamenti, indeterminatezze e rotture della sintassi convenzionale. Sganciata da qualsiasi precostituita regola metrica, in assenza di quantità sillabiche ricorsive, la lingua del Cornet risuona piuttosto governata da inaudite forze ritmiche e musicali – fin dall’iniziale «Reiten, reiten, reiten» – ove spiccano significanti potenzialmente ambigui, dalle finissime oscillazioni semantiche, e termini di derivazione arcaica.[19]

Il recupero di elementi tradizionali e il loro ricombinarsi grazie a una personale ricettività alle tendenze moderniste del Novecento è una caratteristica di tutta l’opera di Rilke.[20] Nel giovanile Cornet, tale dialettica fra tradizione e modernità si rivela in uno stile dalle sembianze ‘istintive’ – seppure inevitabilmente legato a una riflessione sulla poesia – che in base a componenti altamente psichico-simboliche disarticola, trasforma e sotto nuove prospettive ricompone a un tempo la lingua tradizionale e la vicenda storica. Non a caso, già alla fine degli anni Venti il critico Felix Wittmer aveva notato come l’innovativa libertà sintattica e formale del Cornet richiamasse certe strutture musicali moderniste di quel tempo che tuttavia mantengono elementi della tradizione.

Wittmer identifica un esempio di efficace trasposizione musicale del Cornet, di rappresentazione dei suoi effetti linguistici, proprio nel citato pezzo di Pászthory; composizione dalle tonalità sì «libere» e spesso cromatiche, ma con un frequente impiego di triadi consonanti, e dunque ben distante dagli sperimentalismi dei più avanzati Klavierstücke di Schönberg, di certe opere di Webern o del tardo Skrjabin. Nel suo paragone, Wittmer accenna alla «discontinuità» di Reger e cita invero il nome di Schönberg, ma non le più radicali opere dodecafoniche, bensì genericamente una «armonia di timbri» – corrispettivo armonico della «melodia di timbri» (Klangfarbenmelodie), argomentata dal compositore nel suo Manuale di armonia del 1911.

Se fino ad ora riguardo alle leggi musicali della poesia sono apparsi studi isolati [Wittmer cita qui Oskar WALZEL, Leitmotiv in Dichtungen, «Zeitschrift für Bücherfreunde», n.f. 8, 2, p. 270; Adolf von GROLMAN, Adalbert Stifters Romane, Halle, 1926] allora, quando prima o poi si sarà raccolto materiale a sufficienza, qualcuno dovrebbe scrivere la storia dello stile musicale in poesia. Diventerebbe allora chiaro che Rilke organizza i suoi leitmotiv, come «Desiderio e morte, donna e destino» (Maync), in un modo più ardito e li varia al pari di E.T.A. Hoffmann ne La pentola d’oro. Ci accorgeremmo che la forma dissoluta [sciolta] dell’opera di Rilke [il Cornet] si avvicina al libero stile della musica moderna, che la sua metrica cambia indicazioni di tempo con una frequenza pari a quella delle più discontinue opere di Reger, che è in grado perfino di emettere ‘accordi-parola’ [Wortakkorde] che il geniale teorico musicale Arnold Schönberg aveva in mente come «armonie di timbri» [Klangfarbenharmonien].[21]

Tale analogia letterario-musicale assume rilevanza anche considerando la vicinanza cronologica di Wittmer rispetto alla diffusione del testo del Cornet e dei suoi arrangiamenti musicali. Al di là delle effettive competenze musicologiche di Wittmer – che nel corso del saggio comunque emergono con pertinenza, sia in merito al Cornet di Pászthory, sia alla conoscenza dei repertori moderni di quel tempo – è sintomatico che nel parlare di un generico «libero stile della musica moderna», idealmente riferibile a quello letterario del Cornet di Rilke, egli indichi tendenze che non tagliano completamente i ponti con i linguaggi del passato, cioè stili compositivi non radicalmente atonali.

Trattandosi di un testo scritto all’alba del Novecento, il Cornet non poteva incontrarsi che con stili musicali «moderni». Ma se si considera la dialettica fra tradizione e modernità che soggiace al testo di Rilke, e anche solo si legge il saggio di Wittmer scorgendo con cognizione di causa i riferimenti musicali fra le pieghe delle sue parole, paiono non casuali gli stili ‘contaminati’ delle citate versioni di Klenau, di Kurt Weill e dello stesso Pászthory. Ugualmente, pare sintomatico che in seguito sia Frank Martin sia Viktor Ullmann abbiano musicato il Cornet ricorrendo a stilemi compositivi che da un lato si richiamano a Schönberg e alla dodecafonia (esplicitamente in Martin, indirettamente in Ullmann) e d’altronde mantengano vari elementi ereditati dal sistema tonale.

 

III. L’ombra di Schönberg

 

Quando Martin si accingeva a scrivere il Cornet, aveva già da alcuni anni volto lo sguardo al «metodo di composizione con dodici note» adottandolo con varie trasgressioni rispetto al modello schönbergiano e rispetto a quelle composizioni della Scuola di Vienna che egli aveva avuto occasione di ascoltare ed esaminare.[22] Una delle caratteristiche della dodecafonia di Martin risiede nella multiforme presenza di quel «senso tonale» che egli a vari livelli mantiene nella maggior parte delle sue opere e che all’epoca del Cornet, in uno scritto del 1943 dal titolo Défense de l’harmonie, definì una delle caratteristiche distintive della musica europea.[23] In un altro scritto, intitolato Schönberg et nous, di pochi anni successivo, Martin avrebbe dichiarato la sua personale concezione, estetica e poetica, del metodo dodecafonico:

Come tutte le rivoluzioni, quella di Schönberg erige a sistema il nuovo pensiero che propone, nega tutto ciò che non è essa stessa, e considera decisamente sospetti coloro che si accostano ad essa senza adottare l’integralità dei suoi dogmi. Come tutte le rivoluzioni, essa crede anche che l’avvenire le appartiene, non comprendendo che, per sua essenza, è effimera, e che il suo apporto positivo non può essere fecondo se non si integra nei valori permanenti della musica. Poiché non ci sono, nell’arte, valori reali se non quelli che uniscono l’immediato e il permanente. […] È così che le regole stabilite da Schönberg possono arricchire la nostra scrittura musicale rendendo la nostra sensibilità più acuta. Questa tecnica allora parlerà un altro linguaggio rispetto a quello del suo ideatore, ognuno lo modellerà secondo il proprio temperamento. […] Così possiamo partecipare a questa liberazione dalla cadenza e dalla tonalità classica, a questa liberazione quindi dal modo diatonico, senza tuttavia rinunciare al nostro senso di funzione tonale, di basso funzionale e di gerarchia dei rapporti di cui l’acustica elementare ci garantisce la realtà fisica.[24]

Circa vent’anni dopo Schönberg et nous, Martin avrebbe riaffermato che l’adozione di una serie dodecafonica non implica necessariamente l’atonalità, e che le sperimentazioni con le serie avevano influenzato il cromatismo che costituisce una parte consistente della sua produzione musicale.[25] Il Cornet è uno dei pezzi in cui Martin ricorre parzialmente a tale poetica di libero approccio alla dodecafonia, evidente nell’incipit del contralto solo, poi riproposta qua e là, in modo discontinuo ma inequivocabile. Ove presente, essa ritiene vari «sensi» tonali e numerose ‘licenze’ rispetto alle regole seriali stabilite da Schönberg – licenze cui Martin accenna sempre in Schönberg et nous – come le ripetizioni di note all’interno della serie, o i raddoppi d’ottava, o l’impiego di serie ‘difettive’ (non di dodici ma di undici o dieci note).

Il rapporto con Schönberg fu certo più stretto per Ullmann che non per Martin, dato che in un periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale Ullmann era stato di Schönberg allievo diretto. Tuttavia, paradossalmente, il rapporto di Ullmann con la dodecafonia è molto meno evidente e documentabile rispetto a quello di Martin, e in un confronto fra i due Cornet, se in quello di Martin il riferimento seriale è per vari passaggi esplicito (e talora, quando esso non emerge dalla versione definitiva, viene confermato da alcuni schizzi), in quello di Ullmann si scorge piuttosto una tendenza ad esaurire il totale cromatico tramite materiali melodico-lineari e armonici di varia natura: triadica, cromatica, solo sporadicamente e parzialmente seriale.

Allievo di Schönberg fra il 1918 e il 1919, quindi in un periodo in cui il metodo dodecafonico non era ancora delineato,[26] Ullmann aveva mostrato di averne coscienza in un articolo su Berg, pubblicato nel 1930, in cui parla dell’invenzione dodecafonica come di un principio che nell’atonalità creata da Schönberg – dove «tutti i suoni diventano fratelli» – stabilisce un nuovo ordine, scongiurando «il pericolo dell’anarchia».[27] Egli rimarca come Schönberg negli anni Venti avesse contrapposto, tramite la dodecafonia, atonalità e tonalità, e come Berg abbia poi fuso l’orizzonte dodecafonico con quello tonale.[28] Una fusione, quella ad opera di Berg, per cui Ullmann spende parole di entusiasmo, definendola il «ponte» che unisce la musica antica e moderna e che di conseguenza viene gettato anche verso il pubblico.[29]

Tuttavia, nonostante tali dichiarazioni, un effettivo impiego della dodecafonia in Ullmann è difficilmente argomentabile, anche perché parecchie sue composizioni non sono state conservate. Evidenti impieghi di serie – peraltro, anche qui, difettive – si ritrovano solo in alcuni pezzi scritti a Theresienstadt, come l’Andante del Quartetto per archi n. 3 op. 46 (una serie di undici note) o l’Adagio, ma con moto della Sonata per pianoforte n. 7 (una serie di dieci note). Alla fine degli anni Settanta, un allievo di Ullmann, Max Bloch, in un saggio biografico che è fra i più attendibili, ha puntualizzato come nemmeno l’apprendistato con Schönberg possa essere considerato di per sé la prova di un’adesione di Ullmann alla poetica dodecafonica:

Le recensioni di esecuzioni delle composizioni di Ullmann iniziano, quasi senza eccezione, ricordando al lettore che egli fu un allievo di Schönberg. L’aura era tanto brillante, di una presentazione così lusinghiera, che ci giunge per lo più come un anti-climax il sapere che non è stata conservata una sola composizione scritta da Ullmann in uno stile dodecafonico rigoroso. Un critico musicale scrisse nei primi giorni che Ullmann era un brillante esponente del sistema dodecafonico, ma non abbiamo nulla per provarlo. Possiamo avere i nostri dubbi su quando, dove e anche se Ullmann abbia avuto un’istruzione sistematica riguardo alla composizione con dodici note. Quando egli studiò con Schönberg, le sue regole [del sistema] dovevano attendere ancora cinque anni per essere sviluppate compiutamente. Per di più, con ogni studente Schönberg insisteva sull’apprendimento dell’armonia e del contrappunto tradizionali prima di fare un passo successivo. Questo rende pressoché certo che qualunque cosa Ullmann abbia assorbito del sistema non lo apprese direttamente dal maestro, [ma] solo dallo studio delle sue opere e di quelle di allievi più vecchi, in particolare Alban Berg. Comunque, una minuziosa analisi delle opere di Ullmann rivelerà altre caratteristiche dello stile di Schönberg.[30]

Viceversa, un evidente indizio che Ullmann tenesse in considerazione la dodecafonia anche da un punto di vista creativo, seppure in modo assai personale, è costituita da una lettera del 1938 indirizzata a Karel Rainer. Oltre a riconoscere i suoi debiti nei confronti della scuola di Schönberg e di Alois Hába – del quale era stato allievo al Conservatorio di Praga proprio in quegli anni – Ullmann afferma di essere arrivato a una svolta stilistica nel suo percorso creativo elaborando proprio un «sistema dodecafonico su una base tonale»:

Caratteristica dei miei nuovi tentativi, a parer mio, è la nuova Sonata [n. 1 op. 10, 1936] per pianoforte (nuove funzioni armoniche all’interno della struttura di una tonalità che forse può essere definita politonalità. Il tema principale è in tre tonalità, ma questo non è fondamentale. Ciò che si verifica in apparenza è il congiungersi delle dodici tonalità e delle relative tonalità minori. Sembra che io stessi continuamente cercando un sistema dodecafonico su una base tonale, simile al mescolamento di tonalità maggiori e minori). Ciò che potrebbe essere implicato è l’esplorazione delle aree sconfinate dell’armonia dalla funzionalità totale, o la congiuntura dello iato che separa l’armonia romantica da quella ‘atonale’. Sono debitore della scuola di Schönberg per ciò che riguarda strutture coerenti, ovvero logiche, e a quella di Hába per il raffinamento della sensibilità melodica, la concezione di nuovi principi formali e la liberazione dai canoni di Beethoven e Brahms. […] Secondo me Hába ha compiuto il primo passo oltre l’epoca di Beethoven, le cui idee relative alla forma dominano ancora la scuola di Schönberg.[31]

Dunque tramite questo sistema dodecafonico sui generis, e coerentemente con le entusiastiche considerazioni espresse già anni prima sulla dodecafonia ‘mista’ di Berg, Ullmann si prefiggeva di eliminare «lo iato fra l’armonia romantica e quella atonale». Si trattava di toccare i dodici suoni disponibili tramite un libero utilizzo di movimenti lineari e vari elementi tonali, principalmente accordi triadici, che in tal modo, senza i vincoli di una scala diatonica maggiore e minore, possono essere interpretati come appartenenti a tonalità diverse. La definizione di «politonalità», data dallo stesso Ullmann, non pare in verità del tutto appropriata per un simile procedimento, dato che questi elementi riconducibili a tonalità diverse non sono in genere impiegati da Ullmann simultaneamente, bensì in successione, così da formare percorsi cadenzali che conferiscono agli accordi nuove «funzioni» – nuove potenzialità di relazionarsi sintatticamente gli uni con gli altri. Allora, più che politonali, i liberi accostamenti triadici di Ullmann possono essere definiti generalmente ‘poliarmonici’ (quantomeno nel corso del presente articolo si farà ricorso a tale termine).

Nel ricercare continuamente una propria poetica di nuove funzioni tonali, memore di una dodecafonia come quella di Berg, dell’atonalità non dodecafonica e della tonalità sospesa schönbergiane,[32] nonché forte di svariate esperienze fra cui non va dimenticata quella della Zeitoper negli anni Venti, Ullmann giunse al tempo di Theresienstadt avendo maturato una scrittura di raro eclettismo. Accanto ai frequenti tonalismi diatonici, egli poteva attingere a un’organizzazione del totale cromatico che al suo interno lascia spazio sia ad elementi atonali sia a ‘poliarmonie’ triadiche. La nuova tendenza dichiarata da Ullmann nel 1938 si ritrova dunque nelle composizioni del periodo di prigionia: nelle ultime sonate per pianoforte, in vari cicli liederistici e pezzi da camera, nell’opera Der Kaiser von Atlantis e, infine, anche nel Cornet. In linea con un’idea di «sistema dodecafonico su basi tonali» la presenza di serie in queste opere, benché sporadica, si caratterizza per armonizzazioni triadiche. È il caso delle due opere citate come esempio di serialismo in Ullmann, ovvero l’Andante del Quartetto n. 3 e l’Adagio, ma con moto della Sonata per pianoforte n. 7. Il Cornet non può certo essere definito dodecafonico, ma è piuttosto uno di quei brani in cui Ullmann accosta materiali di ispirazione seriale ad altri variamente atonali e neotonali, o ‘poliarmonici’, che complessivamente tendono ad esaurire il totale cromatico nel giro di poche battute.

Risuonano simili le dichiarazioni di Martin e di Ullmann riguardo a un impiego dei dodici suoni che possa mantenere elementi tonali, e proprio in relazione a tali intendimenti si possono trovare fra i rispettivi Cornet caratteristiche compositive in qualche modo analoghe. Nel generale cromatismo delle due composizioni permangono frequenti accordi triadici; tuttavia essi non sono mai parte di una tonalità chiaramente affermata, talora sembrano assumere nuove funzioni sintattiche, creare cadenze neotonali, spesso sono parte di un processo di ‘straniamento’, in cui l’eredità del patrimonio tonale viene suggerita ma nel contempo deformata (o addirittura ‘disturbata’) da cromatismi e varie aggiunte in apparenza antiorganiche. In Ullmann tali procedimenti non possono che essere recati esclusivamente dalla texture pianistica mentre in Martin si trovano distribuiti fra il ruolo dell’orchestra (spesso accordale e triadico) e quello della melodia del contralto (ora appartenente alla costruzione armonica, ora ad essa estranea).

Nei due Cornet la generale dialettica armonica fra tradizione e modernità si trova ancora più accentuata allorquando gli accordi triadici e le generali ‘salienze’ tonali – arpeggi di triadi, anche solo accennati, o movimenti lineari delle parti che richiamano stereotipi cadenzali tonali – fronteggiano set cromatici e serialismi che ne sono del tutto privi. Considerata questa dimensione ‘armonica’ – o, più propriamente, di organizzazione delle altezze – si può dunque affermare che Martin e Ullmann tendevano entrambi, idealmente, ad assecondare la dialettica fra tradizione e modernità del testo di Rilke tramite un compromesso fra la tradizione e la modernità delle tecniche compositive disponibili fino ad allora. Ma le similitudini musicali che in relazione al medesimo testo si rivelano fra le due composizioni non si limitano all’armonia, o generica organizzazione delle altezze. Alcune forti analogie infatti emergono con evidenza anche nel comune e frequente impiego di ostinati ritmici, nonché in una organizzazione dei materiali tematici che sia Martin sia Ullmann impiegano come leitmotiv (motivi conduttori) seguendo gli episodi e le sensazioni dell’avventura di Christoph, e riflettendo così quello «stile musicale della poesia» che i leitmotiv letterari del Cornet avevano già suggerito a studiosi come Oskar Walzel e Felix Wittmer.

 

IV. Testo e leitmotiv. Funzioni del cromatismo e funzioni tonali

 

Né il Cornet di Martin né quello di Ullmann riportano il testo di Rilke integralmente. La divisione del poemetto in ventisei brevi capitoli, oltre ad assecondare le macroarticolazioni del materiale musicale, offre anche un certo margine di scelta, cioè la possibilità di escluderne alcuni senza inficiare il senso complessivo della trama – anche perché a fronte dei capitoli narrativi dell’azione altri sono più di carattere statico e contemplativo. In merito a tale organizzazione generale del testo, la prima differenza fra i Cornet di Martin e Ullmann riguarda il capitolo I, che consiste nella notizia di cronaca introduttiva, è il ‘documento ritrovato’: Martin lo esclude, iniziando la composizione direttamente con i «Reiten, reiten, reiten» che aprono la versificazione vera e propria, mentre Ullmann lo mantiene in stile di pura recitazione, senza musica, con l’accompagnamento del pianoforte che compare, anch’esso, a partire da «Reiten, reiten, reiten». In seguito sono altresì numerose fra i due Cornet le differenze di scelta e organizzazione dei capitoli. Martin esclude i capitoli I, IV, V, VII e XIX, ottenendo nel complesso, con alcuni accorpamenti, ventitrè brani.[33] Ullmann invece utilizza solo dodici dei ventisei capitoli a disposizione, organizzandoli in due parti. Nella prima parte i capitoli III-IV e XII-XIII sono riuniti rispettivamente in un unico brano musicale.

 

I PARTE

II PARTE

I
(senza musica)

XIV

II

XV

III-IV

XVII

IX

XX

XII-XIII

XXIII

 

XXIV

 

XXV

 

XXVI
(i versi finali)

 

Così, Martin si avvicina molto più di Ullmann alla struttura originale del testo. Il carattere ‘antologico’ del Cornet di Ullmann è del resto indicato esplicitamente dal sottotitolo 12 Stücke aus der Dichtung Rilkes (‘Dodici brani dal poema di Rilke’).

Nonostante la difformità nella scelta e nell’accostamento dei capitoli, Ullmann e Martin conservano nelle rispettive strutture di testo verbale i fondamentali leitmotiv dati da Rilke al Cornet. «Desiderio e morte, donna e destino» come notava Maync, certo, ma anche, o forse prima di tutto, il motivo del cavalcare (reiten) che innerva la versificazione dall’inizio alla fine. È un tema in apparenza puramente materiale, questo della continua cavalcata di Christoph e dei suoi compagni, ma che si carica di stati emotivi tesi a trasfigurare il movimento fisico, come accade per molti altri aspetti materiali della vicenda. Le varie forme espressive (o espressioniste) del cavalcare di Christoph ricevono un continuo ampliamento semantico dalle multiformi relazioni che Ullmann e Martin stabiliscono fra i cromatismi atonali, gli elementi triadici e i ‘gesti’ tonali. Il testo letterario viene cioè assecondato da una dialettica armonica che dispiega già in sé, nelle sue peculiari contrapposizioni fra consonanza e dissonanza, comunque venate da eredità tonali, una fitta rete di implicazioni associative e simboliche.

I due versi iniziali del secondo capitolo (ovvero il primo capitolo in versi ma che è numerato come secondo perché il primo è costituito dall’introduzione cronachistica) ripetono un ritmico cavalcare di Christoph dalle sembianze quasi ‘asettiche’; ma subito il sentimento della nostalgia avvolge il trotto del cavallo e la stanchezza del protagonista, e lo sguardo narrativo si allarga su un paesaggio nel contempo reale e ultrasensibile, sulle «capanne assetate», su un senso di smarrimento dei cavalieri che sembra giungere fino alle «donne tristi che sanno di noi».

Reiten, reiten, reiten, durch den Tag, durch die Nacht, durch den Tag.
Reiten, reiten, reiten.
Und der Mut ist so müde geworden und die Sehnsucht so groß. Es gibt keine Berge mehr, kaum einen Baum. Nichts wagt aufzustehen. Fremde Hütten hocken durstig an versumpften Brunnen. Nirgends ein Turm. Und immer das gleiche Bild. Man hat zwei Augen zufiel. Nur in der Nacht manchmal glaubt man den Weg zu kennen. Vielleicht kehren wir nächtens immer wieder das Stück zurück, das wir in der fremden Sonne mühsam gewonnen haben? Es kann sein. Die Sonne ist schwer, wie bei uns tief im Sommer. Aber wir haben im Sommer Abschied genommen. Die Kleider der Frauen leuchteten lang aus dem Grün. Und nun reiten wir lang. Es muß also Herbst sein. Wenigstens dort, wo traurige Frauen von uns wissen
.[34]

Dunque Rilke dipinge un quadro dapprima di pura gestualità esterna, poi di riflessione interiore e confusione fra queste due sfere. Per rendere il senso dell’incedere, della progressione del cavallo compresa fra il reiten iniziale e l’ultimo reiten del secondo verso, Martin affida al canto del contralto una serie ascendente di dodici note, in cui l’ultima ripete la prima a distanza di ottava. Ullmann invece, per accompagnare i reiten recitati del suo brano, ricorre a un ostinato ritmico nella regione grave del pianoforte: ottave di crome alla mano sinistra (fa) scandite da regolari ‘disturbi’ dissonanti di acciaccature e di varie note sui tasti neri.

La serie impiegata da Martin conta dodici suoni, ma contenendo una ripetizione (la diesis all’inizio e si bemolle alla fine) non può essere definita propriamente dodecafonica, bensì ‘difettiva’ (i suoni diversi fra loro sono undici e non dodici: manca il la bemolle). I tre reiten del primo verso e i tre reiten del secondo sono musicati con due cellule melodiche ascendenti: la prima costituita dalle note la diesis-si-re; la seconda fa diesis-sol-si bemolle. Si tratta di due cellule di identica struttura intervallare – un semitono seguito da una terza minore – mentre ritmicamente ogni reiten è cantato con due semiminime – una seguita da punto di valore, l’altra da pausa di croma – che tramite le due pulsazioni confondono il metro di 3/4 assimilandolo a un 6/8. Le parole «durch den Tag, durch die Nacht, durch den Tag» sono inserite nella serie difettiva con tre cellule di altra struttura ritmico-intervallare, costante nella successione breve-breve-lunga (due crome seguite da semiminima).

Esempio 1

 

 Ascolto

Esempio 1. FRANK MARTIN, Der Cornet für Alt und Orchester (1942/1943) nach dem Gedichte von Rainer Maria Rilke, n. 1 (Reiten), bb. 1-10: Marjana Lipovšek (contralto), ORF-Symphonieorchester, Lothar Zagrosek (dir.), n. 1 (Reiten), bb. 1-10[35] [**].

 

 


 

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Anche Ullmann, seppure per una parola recitata e non cantata, crea una dialettica musicale che accomuna da un lato i ripetuti reiten, e dall’altro il verso «durch den Tag, durch die Nacht, durch den Tag». L’accompagnamento sotto le parole reiten che aprono il primo verso e costituiscono il secondo (nella partitura di Ullmann rispettivamente le bb. 3-5 e 11-13) è puramente ritmico-timbrico, quasi onomatopeico, tanto rispetto al significato delle parole, cioè all’immagine sonora ‘della cavalcata’, quanto al loro significante, ovvero al suono delle parole stesse. Il trottare ‘a grappoli’ del cavallo viene suggerito tramite l’ostinato delle ottave al basso (fa) con le acciaccature (sol bemolle) che provocano una costante sfasatura ritmica rispetto al metro di battuta (4/4) e soprattutto conferiscono all’incedere dell’ostinato un carattere rumoristico.

Sotto le parole reiten, la funzione ritmica e rumoristica delle acciaccature è assunta dalle simili note di ‘disturbo’ affidate alla mano destra, sui tasti neri, che rispetto ai fa del basso sono lievemente dissonanti: sol bemolle, la bemolle, si bemolle, do bemolle (pp ma marcato). Ma tanto le acciaccature quanto le quattro ripetute note successive riecheggiano anche, nel sovrapporsi al fa, il suono della lettera r, iniziale di reiten – specialmente quando questa r sia ‘moscia’, ovvero ‘rotata’, come in certa pronuncia tipicamente tedesca (propriamente: una vibrante sonora emessa con articolazione uvulare).[36] È dunque lo stesso suono della parola a farsi musica. Anche la continua ripetizione delle due sillabe della parola rei-ten sembra trovare un corrispettivo musicale nell’accompagnamento, cioè nello sfasato accento binario (ogni due crome, sempre in levare) generato prima dalle acciaccature e poi dalle note della mano destra.

Esempio 2

 

 Ascolto

Esempio 2. VIKTOR ULLMANN, Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke für Sprecher und Klavier (1944), 12 Stücke aus der Dichtung Rilkes, erster Teil, n. 2, bb. 1-6: Gert Wesphal (voce recitante) e Michael Allan (pianoforte)[34] [***].

 

 


 

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Le parole «durch den Tag, durch die Nacht, durch den Tag» sono differenziate dai ripetuti reiten poiché nelle bb. 7-10, pur continuando ininterrotto alla mano sinistra l’accompagnamento in ottave con le acciaccature, Ullmann affida alla mano destra due cellule di tre note ciascuna dal carattere più melodico, cantabile, e meno rumoristico (anche grazie alla collocazione in un ambito della tastiera più acuto: un’ottava superiore rispetto alle note dei reiten). Le note della prima cellula procedono per grado congiunto discendente, quelle della seconda procedono per salti di sesta e terza.

 

Esempio 3

Esempio 3. ULLMANN, Die Weise von Liebe und Tod, erster Teil, n. 2, bb. 7-10.

 

Nella versione di Ullmann, la valenza sonora di questi primi versi, soprattutto delle iniziali parole reiten, si trova ampliata anche grazie al contrasto con la pura recitazione dell’introduzione cronachistica riportata in apertura. Dopo l’ultima parola recitata – zurückkehrt – l’entrata del pianoforte che reca l’accompagnamento ‘della cavalcata’ già lascia presentire che grazie a questi suoni i reiten di Rilke sprigioneranno una musicalità nuova, tesa a trasferire su altri livelli gli originali significanti e significati poetici.

1

den 24. November 1663 wurde Otto von Rilke
auf Langenau
Gränitz
und Ziegra
zu Linda mit seines in Ungarn gefallenen
Bruders Christoph hinterlassenem Antheile am Gute Linda beliehen;
doch müβte er einen Revers ausstellen
nach welchem die Lebens-
reichung null und nichtig sein sollte
im Falle sein Bruder Christoph
der nach beigebrachten Totenschein als Cornet in der Compagnie
des Freiherrn von Pirovano des kaiserl. oesterr. Heysterschen
Regiments zu Roß… verstorben war
zurückkehrt.
[37]

 

2

Esempio 4

 

 Ascolto

Esempio 4. ULLMANN, Die Weise von Liebe und Tod, erster Teil, n. 1-2, bb. 1-18: Gert Wesphal (voce recitante), Michael Allan (pianoforte) [***]

 

 
 

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Nelle bb. 15-18, per le parole «Und der Mut ist so müde geworden und die Sehnsucht so groß» (‘E l’animo si è fatto così stanco e la nostalgia così grande’) con cui Rilke inizia a ‘trascendere’ il cavalcare fisico dei primi tre versi, Ullmann impiega una trasposizione di quelle due cellule melodiche di tre note che già a bb. 7-10 sono sottoposte a «durch den Tag, durch die Nacht, durch den Tag». La saturazione cromatica, solo latente nella contrapposizione fra i materiali di queste prime diciotto battute, diventa totale nelle dieci battute seguenti, dove – sempre sopra l’accompagnamento ‘della cavalcata’ – compare una serie di tre accordi fortemente dissonanti per le parole «Es gibt keine Berge mehr, kaum einen Baum. Nicht wagt aufzustehen. Fremde Hütten hocken durstig an versumpften Brunnen» (‘Non si vedono più monti, a malapena un albero. Nulla che osi levarsi. Capanne sconosciute siedono assetate accanto a fonti paludose’).

Nella produzione matura di Ullmann l’impiego di simili accordi, basati su quarte giuste e concatenazioni di tritoni, è in sintonia con le risorse scalari ‘acustiche’ che egli sovente utilizza per orientarsi nel totale cromatico (ma anche per colorire strutture tonali).[38]

Esempio 5.  ULLMANN, Die Weise von Liebe und Tod, erster Teil, n. 2, bb. 19-23.

In seguito, il paesaggio psicologico descritto da Rilke si ritrova accompagnato da una scrittura musicale che rispetto a quella precedente segna un sensibile contrasto. Infatti, viene sì mantenuta la figurazione di crome ostinate alla mano sinistra, ma non è più costituita da ottave sole con acciaccature, bensì da martellati accordi, variamente dissonanti e consonanti, triadici e non, che trovano un elemento comune in una triade diminuita, accompagnata da un pedale estraneo a tale armonia. In coincidenza del cambio di metro, da 4/4 a 3/4, viene assegnato alla mano destra un motivo di due battute continuamente ripetuto e variato. Il climax sembra raggiunto sotto le parole «Vielleicht kehren wir nächtens immer wieder das Stück zurück, das wir in der fremden Sonne mühsam gewonnen haben?» (‘Forse di notte [sempre] ripercorriamo a ritroso quello stesso tratto conquistato con pena sotto un sole straniero?’). Nell’armonizzazione di questo verso, Ullmann pone in risalto la triade diminuita affidata all’ostinato della mano sinistra, si bemollere bemollefa bemolle, distanziandola dal pedale al basso (mi bemolle), mentre il motivo alla mano destra viene portato nella regione acuta della tastiera e stretto con figurazioni di crome e semicrome. Alla fine del verso la triade diminuita è resa minore, con il fa bemolle che diventa bequadro.

Esempio 6

Esempio 6. ULLMANN, Die Weise von Liebe und Tod, erster Teil, n. 2, bb. 36-40.

 

Dopo che lo smarrimento dei cavalieri è stato musicato ricorrendo alla presenza della triade diminuita, che forse non a caso determina un richiamo tonale ‘tensivo’ – «vagante», come direbbe Schönberg –, l’accompagnamento si basa su un ripetuto accordo di La minore, con dinamica sul forte, e ottave al basso in controtempo che portano progressivamente alla ripresa della figurazione ‘della cavalcata’ nella sua forma iniziale (in ottave e con le acciaccature). Ritornano gli accordi ‘acustici’ delle bb. 19-28, ritmicamente accelerati, in forte e fortissimo, prima che si alternino, di nuovo in pianissimo, ai lievi disturbi cromatici dei reiten iniziali. Da qui fino ai versi finali «Es muß also Herbst sein. Wenigstens dort, wo traurige Frauen von uns wissen», viene ripreso il materiale della prima sezione, in una sorta di processo di liquidazione, articolando così una forma musicale del brano che nel complesso appare tripartita, con una sezione centrale ‘di movimento’.

Se queste sono le caratteristiche musicali che Ullmann conferisce al secondo capitolo di Rilke, dal canto suo Martin, per i medesimi versi, segue un altro percorso, in cui tuttavia si possono rintracciare sintomatici punti di contatto con quello di Ullmann e che a loro volta sembrano motivati dal significato e dalla struttura del testo rilkiano. La serie difettiva posta da Martin ad apertura del brano diventa dodecafonica con la comparsa del la bemolle all’inizio del terzo verso «Und der Mut ist so müde geworden». Martin trasgredisce la regola dodecafonica sia utilizzando una serie difettiva, per costruire la melodia che riveste i primi tre versi, sia utilizzando una serie dodecafonica in cui la dodicesima nota viene raggiunta dopo una ripetizione della prima. Allora è facile richiamare le citate affermazioni di Martin, pubblicate qualche anno dopo la composizione del Cornet, secondo cui una delle possibilità offerte dalla tecnica di Schönberg – il suo apporto «positivo» – sarebbe la concezione di melodie «estremamente ricche», come conseguenza di una ricerca che «ci rende estremamente sensibili al ritorno della melodia su se stessa». Una sensibilità, questa, in cui la ripetizione di una delle dodici note prima che ritorni la prima corrisponde al sentimento di violazione di una regola fondamentale nel segno di una estetica ben definita.[39]

Con la frase «Und der Mut ist so müde geworden und die Sehnsucht so groß» la melodia diventa ancora meno ‘serialmente rigorosa’ e non si scorgono procedimenti di inversione, retrogradazione o retrogradazione inversa della serie enunciata inizialmente. Emerge piuttosto l’altra fondamentale caratteristica della dodecafonia di Martin cui abbiamo fatto riferimento, e dal compositore dichiarata, ovvero il mantenimento di un generico «senso tonale», poiché Martin ricorre qui ad alcune triadi maggiori e minori. In ragione di una loro peculiare valenza associativa, accentuata dal contrasto rispetto al precedente cromatismo, esse paiono riflettere il caricamento emotivo che Rilke in questo verso conferisce all’incedere della cavalcata – è forse non casuale che un sentimento in sé contrastante come la Sehnsucht, (ricordo di una gioia lontana che nel contempo si fa smarrimento di fronte all’hic et nunc) sia introdotto nell’alveo tonale ricorrendo all’alternanza fra una triade minore e una maggiore.

 

Esempio 7

 Ascolto

Esempio 7. MARTIN, Der Cornet, n. 1 (Reiten), bb. 1-15: Marjana Lipovšek (contralto), ORF-Symphonieorchester, Lothar Zagrosek (dir.) [**] .

 

 


 

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La presenza delle triadi è prima accennata orizzontalmente nella melodia stessa: dopo il la bemolle di «Und der», che costituisce la dodicesima nota della serie iniziale, le tre parole «Mut ist so müde» sono affidate alla voce rispettivamente con le note discendenti la-fa-do, arpeggio della triade di Fa maggiore. Poi sulla parola «Sehnsucht» (‘nostalgia’) le triadi vengono realizzate armonicamente tramite l’entrata del clarinetto e del fagotto: il do diesis del canto si trova accompagnato simultaneamente da un la (clarinetto) e da un fa diesis (fagotto), e quindi si forma complessivamente una triade di Fa diesis minore. Nello stesso modo, segue sull’aggettivo «groß» – cioè quando Rilke scrive che la nostalgia «è così grande» – una triade di Fa maggiore (la al contralto, fa al fagotto, do al clarinetto).

Nella battuta successiva, i movimenti cromatici del clarinetto e del fagotto si arrestano su una quinta mi-si che prepara l’inizio della conseguente frase su una triade di Mi maggiore (iniziando il contralto con un sol diesis). I versi «Es gibt keine Berg mehr, kaum einen Baum. Nicht wagt aufzustehen. Fremde Hütten hocken durstig an versumpften Brunnen» sono affidati al contralto con una melodia cromatica ma dai frequenti rapporti di terza e ricca di ripetizioni. Quindi Martin già espone le caratteristiche della parte del canto che saranno fondamentali nel corso di tutta la composizione, ovvero, ben oltre un generico cromatismo, lo sfruttamento degli intervalli di semitono e di terza (maggiore e minore), le frequenti insistenze su una sola nota, che tende a farsi quasi corda di recitazione, e il rapporto con la texture dell’orchestra, particolarmente ricco ed espressivo, che porta le note del contralto talora a farsi parte delle armonie triadiche strumentali, talora a completarle, talora ad arricchirle con appoggiature o determinando intervalli di settima o di nona. L’alternanza maggiore/minore impiegata per la parola «Sehnsucht» è un esempio di reciproco completamento triadico fra la voce e l’armonia strumentale. Tale espediente si ripete, uguale e trasposto, per il verso «Man hat zwei Augen zufiel», che non è solo ‘emotivo’ ma addirittura ‘ultrasensibile’.

 

Esempio 8

Esempio 8. MARTIN, Der Cornet, n. 1 (Reiten), cifra 2.

 

Quando il contralto canta «Nur in der Nacht manchmal glaubt man den Weg zu kennen» la scarna struttura armonico-contrappuntistica dei fiati confluisce in una scrittura complessivamente più consonante e ritmicamente più mossa, affidata agli archi. Per il senso di smarrimento sensibile che ammanta la cavalcata nel verso seguente, «Vielleicht kehren wir nächtens immer wieder das Stück zurück, das wir in der fremden Sonne mühsam gewonnen haben?» – ovvero il verso che nella versione di Ullmann costituiva il climax della sezione centrale – Martin affida alla voce la frequente ripercussione di una medesima nota (una delle ‘corde di recitazione’ a cui si è accennato) e impiega come sostegno armonico negli archi una nuova figurazione, anch’essa a suo modo ostinata: una ripetuta e ieratica successione cromatica di quattro accordi di semiminima. Come nel corrispondente passaggio di Ullmann, per il medesimo verso di Rilke, anche questo motivo è caratterizzato dalla costante presenza di triadi diminuite (pur non trattandosi sempre dello stesso accordo). A queste si aggiungono rapide note per salti dei bassi che accentuano il senso ritmico dell’incedere e ‘pungono’ l’armonia, allargando la costruzione diminuita. Così, ogni quartina forma complessivamente un totale cromatico.

 

Esempio 9

Esempio 9. MARTIN, Der Cornet, n. 1 (Reiten), cifra 3 + 1.

 

Il canto insiste inizialmente su un sol diesis che è di volta in volta appartenente ed estraneo rispetto alle triadi, o insieme ad esse forma delle settime diminuite. La melodia si fa più articolata allorquando la figurazione ostinata dell’accompagnamento viene ripetuta e trasposta per dieci battute fino dal verso «Die Sonne ist schwer, wie bei uns tief im Sommer». Poi la voce canta senza accompagnamento strumentale gli ultimi versi, «Aber wir haben im Sommer Abschied genommen. Die Kleider der Frauen leuchteten lang aus dem Grün. Und nun reiten wir lang. Es muß also Herbst sein». Nelle ultime tre battute, sul verso «Wenigstens dort, wo traurige Frauen von uns wissen», la linea del canto ritrova il principio del reciproco completamento triadico rispetto all’orchestra, formando insieme agli ottoni le triadi di Do diesis minore, Do maggiore, Do minore e Si minore.

Sia l’accompagnamento ‘della cavalcata’ nel Cornet di Ullmann, sia la figurazione ostinata delle triadi diminuite in quello di Martin ricorreranno varie volte a mo’ di leitmotiv. In Martin, il leitmotiv è recato dall’orchestra, non dal canto: quest’ultimo si ripresenta ogni volta variato e senza caratteristiche ricorrenti che possano suggerire una funzione leitmotivica. Se in Ullmann l’ostinato delle ottave al basso costituisce una sorta di sfondo materiale su cui si innestano i vari psicologismi dell’incedere, d’altronde in Martin il connotato ripresentarsi dell’ostinato diminuito degli archi – il suo comparire nel primo brano per poi ricorrere nel terzo, nel decimo e infine nell’ultimo (in Rilke rispettivamente i capitoli III, XIII e XXVI) – ha stimolato la definizione di Leidensmotiv (‘tema del dolore’).[40] Questo motivo infatti non solo musica all’inizio il senso dello smarrimento della cavalcata, ma si ritrova accennato e variato proprio nel terzo brano, pervaso dalla crepuscolare nostalgia di Christoph per la madre (capitolo III), e viene poi riproposto fedelmente nel decimo (capitolo XIII) per accompagnare i cavalieri che scavalcano un contadino trucidato (prima che avvistino il castello ove troveranno sosta).

Sie reiten über einen erschlagenen Bauer. Er hat die Augen weit offen und etwas spiegelt sich drin; kein Himmel.[41]

 

 Ascolto

Esempio 9a. MARTIN, Der Cornet, n. 10 (Das Schloß).

 

 


 

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Infine, il Leidensmotiv ritornerà, sintomaticamente, nell’ultimo capitolo, quando il cavalcare è quello del corriere del barone von Pirovano che giunge a Langenau per recare notizia della caduta di Christoph. Nel motivo di Martin, il ‘dolore’, o forse, piuttosto, un generico sentimento di malessere e visionaria inquietudine – che dunque più che trascendere il movimento della cavalcata sembra trovare in esso un proprio correlativo oggettivo –, non pare legato solo al ritmo dell’ostinato, allo ieratico incedere delle semiminime, ma anche all’armonia. Essa infatti, pure straniata dai bassi e dalla cangiante relazione con la linea del canto, si mostra inequivocabilmente diminuita, richiamando il carattere tonalmente «vagante» di tale simmetria triadica, sintomo di un errare incerto, come nel percorso notturno di Ullmann. Una conferma della funzione drammatica e ‘inquieta’ che l’armonia diminuita riveste per Martin si ha, paradossalmente, allorché il motivo ricorre in un momento di stabilità fisica e netto cambiamento emotivo del racconto. Si tratta in particolare di alcuni versi del capitolo XIV (in Martin l’undicesimo brano) in cui i cavalieri, dopo aver scavalcato il contadino trucidato, giungono al castello e lì trovano ristoro: «Nicht immer Soldat sein. Einmal die Locken offen tragen und den weiten offenen Kragen und in seidenen Sesseln sitzen und bis in die Finger-spitzen so: nach dem Bad sein».[42]

Ecco allora che le triadi del Leidensmotiv, condotte non più dagli archi ma dal pianoforte, diventano perfette (maggiori e minori) smorzando la dissonante tensione di quelle diminuite (e i ‘pungenti’ salti dei bassi vengono sostituiti da lunghe note tenute). La benvenuta sosta presso il castello rende armonicamente più stabile – pur in una continua deformazione complessiva e in una nuova dialettica cromatica tra maggiore e minore – quello stesso motivo che nel brano precedente (capitolo XIII) viene impiegato nella sua originaria veste armonica diminuita per accompagnare la cavalcata oltre il contadino trucidato – e che fino all’avvistamento del castello avviene in una atmosfera lugubre e ansiosa. Perdendo la sua connotazione diminuita, insomma, l’ostinato ritmico sembra farsi parte e specchio dell’animo dei cavalieri che non si sentono più (solo) soldati. In questa forma armonica maggiore/minore, il motivo viene ripetuto a conclusione del primo incontro con le dame: inizialmente compaiono ripetuti accordi formati da triadi perfette che grazie all’orchestrazione di Martin assorbono in modo dolcissimo le lievi aggiunte dissonanti, poi le triadi perfette e gli scivolamenti cromatici del Leidensmotiv, affidato di nuovo agli archi, intervengono suggerendo un forte ‘moto emotivo’ – ma diverso da quello dell’inquietudine della cavalcata – in un parossistico crescendo recato dalla voce, dalla texture e dalla dinamica orchestrale che sfocia infine nella gioiosa festa del banchetto (il brano successivo).

Tanto nel Cornet di Ullmann quanto in quello di Martin sono numerosi i motivi basati su ostinati ritmici (ove l’elemento ostinato può essere un accordo o un bicordo o anche una sola nota raddoppiata ai bassi) impiegati tendenzialmente per sostenere immagini di movimento. Oltre ai comuni momenti ‘di cavalcata’, basti considerare gli ostinati che i due compositori utilizzano per la concitazione del capitolo IX o per la progressione dello scontro armato verso la fine. Tuttavia, il Leidensmotiv di Martin e l’accompagnamento ‘della cavalcata’ in Ullmann, ripresentandosi a distanza – ciclicamente – in corrispondenza di immagini e suggestioni ricorrenti, sembrano più degli altri mostrare forti valenze narrative, nonché sintomatiche analogie fra le due composizioni.

Se in Martin il Leidensmotiv dopo il brano iniziale ricorre parzialmente nel capitolo III del poema, ma soprattutto nel XIII e infine nell’ultimo, in Ullmann l’accompagnamento ‘della cavalcata’ si ripresenta fedelmente pressoché nei medesimi momenti, cioè, oltre all’inizio, proprio nel XIII e nell’ultimo capitolo. I materiali musicali di cui tale accompagnamento viene ogni volta rivestito confermano come in Ullmann la carica psicologica data da Rilke al movimento della cavalcata trovi un corrispettivo nelle potenzialità associative insite nelle triadi e nella loro intersezione od opposizione con i campi cromatici, soprattutto perché il pattern ritmico ‘della cavalcata’ si troverà strettamente collegato a un tema ‘poliarmonico’ che ritornerà anch’esso carico di forti connotazioni leitmotiviche.

L’accompagnamento ‘della cavalcata’ ritorna una prima volta per l’inizio del XIII capitolo di Rilke, che in Ullmann corrisponde alla seconda sezione del quinto brano – la prima sezione del brano è costituita dal capitolo XII e la sezione del capitolo XIII attacca di seguito. Con l’indicazione Tempo I (des I. Stückes) l’accompagnamento ‘della cavalcata’ si ripresenta sorreggendo un tema che era già stato utilizzato all’inizio del brano, e quindi del capitolo XII, quando Christoph arresta per qualche istante il suo incedere e scrive una lettera alla madre: «Der von Langenau schreibt einen Brief, ganz in Gedanken» (‘quel di Langenau scrive una lettera, profondamente assorto’). Qui Ullmann ricorre a una breve melodia accompagnata, di due battute. Sarebbe riduttivo parlare di un mero ‘tema della lettera’: per come esso comparirà anche in seguito, pare più appropriato identificarlo come generico tema ‘dello spirito di Christoph’; o forse, addirittura può essere detto tema ‘del dolore’ – richiamando proprio il Leidensmotiv di Martin – dato che dopo questa presentazione esso, sempre in drammatica simbiosi con l’accompagnamento ‘della cavalcata’, si ritroverà sia nel fosco capitolo successivo sia nella conclusione del poema, ad enfatizzare il dolore per la morte del protagonista.

 

Esempio 10

 Esempio 10. ULLMANN, Die Weise von Liebe und Tod, n. 5, erster Teil, bb. 1-2.

 

La melodia è costituita da una serie di otto note, in cui l’ultima ripete la prima, mentre per l’armonizzazione vengono impiegati accordi triadici appartenenti a tonalità diverse: La bemolle minore, Do minore, una settima di terza specie (accordo semidiminuito) costruita su re (con il fa che tace) e poi di nuovo La bemolle minore. Seguono vari procedimenti di variazione, liquidazione (soprattutto della conclusiva cellula di quattro note, seconda battuta) e ripetizione. Nell’unirsi al libero cromatismo della melodia e di varie note di collegamento, tali procedimenti armonici richiamano con evidenza quel «sistema dodecafonico su basi tonali» che Ullmann nel 1938 aveva definito caratteristico del suo nuovo stile. Il totale cromatico viene cioè esaurito mantenendo come base quelle successioni di accordi triadici che Ullmann chiamerebbe ‘politonali’ e che abbiamo qui ridefinito ‘poliarmoniche’.

Il tema ‘dello spirito di Christoph’ dunque ritorna insieme all’accompagnamento ‘della cavalcata’ all’inizio della seconda sezione del brano – cioè del capitolo XIII, che abbiamo visto iniziare con i versi «Sie reiten über einen erschlagenen Bauer. Er hat die Augen weit offen und etwas spiegelt sich drin; kein Himmel». Il tema è riproposto per aggravamento. L’accompagnamento ‘della cavalcata’ è affidato alla mano sinistra, mentre la mano destra suona accordi e melodia insieme. Gli accordi, di semibreve, uno per battuta, riprendono le armonie utilizzate nella prima presentazione del tema. Il primo quindi è ancora un accordo di La bemolle minore (b. 29), il secondo di Do minore, con la nota della melodia che ne costituisce la settima maggiore (b. 30), e il terzo (b. 31) è la settima di terza specie (accordo semidiminuito) con il re come fondamentale: se si considera il basso ‘della cavalcata’ (il fa) non come mero pedale, bensì come nota appartenente all’armonia, allora la struttura semidiminuita risulterà completa (il sol della melodia invece non può rientrare in questa costruzione triadica). L’ultimo accordo è ancora di La bemolle minore (b. 32).

 

Esempio 11

 

 Ascolto

Esempio 11. ULLMANN, Die Weise von Liebe und Tod, erster Teil, n. 5, bb. 29-32: Gert Wesphal (voce recitante) e Michael Allan (pianoforte) [***].

 

 


 

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Nel corso del brano, le varie elaborazioni del tema si alternano e sovrappongono ad altri frammenti leitmotivici per accompagnare l’avvistamento del villaggio e del castello con i suoi rumori. L’accompagnamento ‘della cavalcata’ è intermittente, si interrompe varie volte, ad esempio quando compare il maestoso portone del castello (Groß wird das Tor ) e nel pianoforte il tema ‘dello spirito di Christoph’ è un solenne contrappunto fra le due mani. Per la parola Horch (‘Ascolta’) Ullmann impiega una veloce scala ‘acustica’ a due mani da cui derivano triadi poliarmoniche e trilli. Le parole «Poltern, Klirren und Hundegebell!» (‘strepitio, cigolio e abbaiar di cani!’) sono musicate da accordi ‘acustici’ per quarte, ribattuti a gruppi di due e di terzine, in una figurazione ritmica che pare ancora una drammatica trasformazione dell’accompagnamento ‘della cavalcata’. Così avviene anche sotto le parole «Wiehern im Hof, Hufschlag und Ruf» (‘Nitriti nel cortile, calpestio di zoccoli e richiamo’), mentre ricompare il tema iniziale. Da qui alla fine del brano, le ripetizioni, liquidazioni, diminuzioni e i contrappunti del tema si alternano e si sovrappongono violentemente con l’accompagnamento ‘della cavalcata’ e con la sua nuova, drammatica forma ritmica.

Sie reiten über einen erschlagenen Bauer. Er hat die Augen weit offen und etwas spiegelt sich drin; kein Himmel. Später heulen Hunde. Es kommt also ein Dorf, endlich. Und über den Hütten steigt steinern ein Schloß. Breit hält sich ihnen die Brücke hin. Groß wird das Tor. Hoch willkommt das Horn. Horch: Poltern, Klirren und Hundegebell! Wiehern im Hof, Hufschlag und Ruf.[43]

 

 Ascolto

Esempio 11a. ULLMANN, Die Weise von Liebe und Tod, erster Teil, n. 5: Gert Wesphal (voce recitante) e Michael Allan (pianoforte).

 

 


 

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La struttura ritmico-armonica che in questo brano Ullmann conferisce al tema ‘dello spirito di Christoph’ viene ripresa nell’ultimo dei dodici pezzi, quello che musica gli ultimi versi del capitolo XXVI (esempio 12). Lo scontro con il nemico fuori dal castello è già avvenuto e l’avventura dell’amore e della morte di Christoph è già finita; Rilke sposta la sua descrizione distante, nello spazio e nel tempo, alcuni mesi dopo, quando al luogo d’origine dei Christoph, Langenau, giunge il corriere del barone von Pirovano per annunciare l’accaduto: «Im nächsten Frühjar (es kam traurig und kalt) ritt ein Kurier des Freiherrn von Pirovano langsam in Langenau ein. Dort hat er eine alte Frau weinen sehen».[44]

Dopo due battute di introduzione affidate all’accompagnamento ‘della cavalcata’, il tema ‘dello spirito di Christoph’ appare nella stessa forma aggravata che musicava la cavalcata oltre il contadino trucidato (capitolo XIII). Nelle battute seguenti, il tema è riproposto con una diversa armonia, e con essa assume un’altra sfumatura il significato complessivo del passaggio. Prima l’accompagnamento ‘della cavalcata’ viene sospeso sotto il verso «Dort hat er eine alte Frau Weinen sehen» (‘Lì vide piangere una vecchia’ [la madre di Christoph]), e dopo due battute di transizione, indicate retenu (warm und ruhig), la ripresa del tema avviene nell’ambito di una esclusiva triade di Do minore. Ad essa appartengono sia il tema, sia l’accompagnamento ‘della cavalcata’ (quest’ultimo costruito sulle note sol-do e non più sul fa in ottava). Per sottolineare un momento poetico che costituisce un punto di confluenza di tutto il testo di Rilke, l’accordo di Do minore lascia emergere in modo particolarmente evidente la propria struttura triadica e la carica ‘drammatica’ tonalmente associata alla triade minore. L’accompagnamento si fa parte del ‘dramma’ dell’ultimo dolore della madre di Christoph diventando parte dell’armonia, facendosi meno rumoristico (vengono eliminate le acciaccature) e risuonando infine a mo’ di marcia funebre, tramite una figurazione ritmica simile a quella basata su gruppi di due crome e di terzine che già Ullmann aveva impiegato per sonorizzare l’allucinata immagine del castello del capitolo XIII.

Dopo questa ultima e pregnante ripetizione del tema ‘dello spirito di Christoph’ Ullmann sospende definitivamente l’accompagnamento ‘della cavalcata’ e dirige la propria poetica armonica sempre più verso l’area di Mi bemolle maggiore – che rispetto a Do minore costituisce la ‘serena’ relativa maggiore. Formalmente questa sezione conclusiva è costruita con alcuni frammenti leitmotivici che Ullmann aveva già impiegato qua e là nel corso della composizione e che erano concentrati soprattutto laddove Rilke descrive l’incedere di Christoph contro il nemico dopo la notte d’amore. Si tratta in particolare di una rapida cellula melodica in quarte e di una libera sequenza di accordi (triadici e per quarte). Nel finale dell’ultimo brano, entrambi questi elementi leitmotivici si appoggiano a Mi bemolle, l’uno melodicamente e l’altro armonicamente, per giungere a una conclusione su due esclusivi accordi di Mi bemolle maggiore perfettamente consonanti. Rispetto al ‘dramma’ appena trascorso, legato alla triade di Do minore, gli accordi di Mi bemolle maggiore risuonano quasi come una catarsi, a suggello di una morte che sembra dunque – forse steinerianamente – non essere solo un ‘dramma’.

 

Esempio 12

 

 Ascolto

Esempio 12. ULLAMNN, Die Weise von Liebe und Tod, n. 12 [zweiter Teil, n. 8]: Gert Wesphal (voce recitante) e Michael Allan (pianoforte) [***] ).

 

 


 

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I versi su cui Ullmann compone l’ultimo brano del suo Cornet corrispondono, in quello di Martin, alla seconda parte del brano conclusivo intitolato Im nächsten Frühjahr che nella prima sezione musica le parole «Der Waffenrock ist im Schlosse verbrannt, der Brief und das Rosenblatt einer fremden Frau» (‘L’uniforme è bruciata nel castello, la lettera e il petalo di rosa di una donna sconosciuta’). È per Martin il ventitreesimo e ultimo brano, che a sua volta in relazione al testo di Rilke corrisponde alla seconda parte del capitolo XXVI. La prima parte di questo capitolo (esclusa da Ullmann e che Martin mette in musica nel precedente brano n. 22, Der Tod) descrive lo scontro con il nemico e la caduta di Christoph. Così, l’ultimo brano di Martin inizia con la scena postuma allo scontro, prima che lo sguardo narrativo di Rilke si sposti sull’entrata a Langenau del corriere del barone von Pirovano.

La cavalcata del corriere viene introdotta e accompagnata dalle ostinate triadi diminuite del Leidensmotiv, affidato agli archi. Per le otto battute del precedente verso «Der Waffenrock ist im Schlosse verbrannt, der Brief und das Rosenblatt einer fremden Frau» Martin assegna al contralto due frasi melodiche con note che vengono ribattute fra tre intervalli di terza minore (do diesis-mi; mi-sol; re diesis-fa diesis). Su un pedale costante di mi, l’orchestra anticipa i bassi del Leidensmotiv, sfruttando ancora relazioni di terza minore che insieme alle note della melodia formano perciò una ‘latente’ triade/settima diminuita (la diesis-do diesis-mi-sol). La susseguente comparsa del Leidensmotiv orchestrale si pone dunque come una ‘concretizzazione’ del sound diminuito che nella prima parte è solo accennato. Il contralto canta i desolati e dimessi versi del ritorno a Langenau con frasi e frammenti melodici che nel loro vario cromatismo coprono dieci delle dodici note a disposizione e si relazionano alle triadi diminuite secondo i vari principi di arricchimento, appartenenza e integrazione a cui abbiamo più volte accennato.

La pregnanza del verso «Dort hat er eine alte Frau Weinen sehen» determina una sorta di analogia fra le versioni di Ullmann e di Martin, poiché anche Martin per musicare quest’ultimo verso sospende l’ostinato ritmico dell’accompagnamento, e per quanto riguarda l’armonia, dopo i cromatismi degli accordi diminuiti e dei vari complessi dissonanti, si affida alla valenza espressiva di una un’inaudita ed esclusiva triade minore (Do diesis minore). Secondo un procedimento che Martin aveva già sfruttato alla fine del primo brano, le note affidate agli archi e quelle affidate al canto si integrano per formare una successione di triadi perfette, in particolare una continua alternanza maggiore/minore, che viene condotta da uno scivolamento cromatico discendente: alla triade iniziale di Do diesis minore (mezzoforte) seguono in diminuendo le triadi di Do maggiore, Do minore, Si maggiore e Si minore, fino al pianissimo (ppp) dell’ultimo isolato basso.

 

Esempio 13

Esempio 13. Frank Martin, Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke, © Copyright 1944 by Universal Edition A.G., Wien/UE 11491.

 Ascolto

MARTIN, Der Cornet, n. 23 (Im nächsten Frühjahr), cifra 1: Marjana Lipovšek (contralto), ORF-Symphonieorchester, Lothar Zagrosek (dir.) [**].

 

 


 

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esempio 13a

Esempio 13a. Pagina autografa della riduzione per canto e pianoforte che Martin ha approntato nel 1943. Conservata presso la Paul Sacher Stiftung di Basilea, Sammlung Frank Martin.

 

Dunque i brani conclusivi riportati negli esempi 12 e 13 sono da un lato rappresentativi delle poetiche dei dodici suoni di Ullmann e Martin, e d’altronde rivelano alcune sintomatiche analogie stilistiche fra i Cornet dei due compositori, indicando talora una comune ragion d’essere delle strutture musicali che a sua volta si intreccia indissolubilmente al significato e alle forme del testo di Rilke. Nella conclusione di Ullmann, il suo «sistema dodecafonico su basi tonali» emerge da un leitmotiv, quello ‘dello spirito di Christoph’, che presenta una struttura melodica serialmente ‘difettiva’ e un’armonizzazione ‘tonalmente poliarmonica’. Nella conclusione di Martin, la sua particolare concezione della dodecafonia si riverbera parzialmente nella linea melodica del contralto, che grazie al cromatismo si fa «estremamente ricca», ma anche nell’accompagnamento strumentale, formato da triadi diminuite che unite ai bassi toccano tutti i dodici suoni disponibili.

È arduo stabilire se in Ullmann le diverse presentazioni del tema ‘dello spirito di Christoph’ implichino i dodici suoni come un presupposto, o non piuttosto come una risultante, cioè come la conseguenza di un procedimento armonico liberamente triadico. Siamo in presenza di una sorta di compromesso fra una neotonalità armonica e un libero pensiero seriale ‘difettivo’, stimolato soprattutto da ragioni melodiche, che si fondono determinando un esaurimento del totale cromatico. Da parte sua, Martin, nel pezzo finale, copre il totale cromatico con un procedimento in qualche modo analogo, sia melodicamente che armonicamente, e anche qui perciò sussistono le ambiguità: si intravede un certo atteggiamento seriale nella natura variamente cromatica della melodia del contralto, mentre nella formula del Leidensmotiv il totale cromatico pare essere la conseguenza dell’armonia «vagante» delle triadi diminuite. E tuttavia, non è escluso che anche in questo accompagnamento strumentale si nasconda il pensiero peculiarmente dodecafonico di Martin; ovvero non è escluso che qui il procedimento precompositivo sia stato simile a quello che apre l’ottavo brano, Der Schrei dove le triadi perfette sono di comprovata provenienza seriale – stando alle indicazioni dello schizzo che ci è rimasto.[45] E allora anche nell’ultimo brano di Martin la dialettica fra accordi triadici, cromatismi e campi cromatici atonali può scaturire da un’interpretazione dell’eredità dodecafonica di Schönberg; così come nella conclusione del Cornet di Ullmann tale dialettica nasce all’interno di un «sistema dodecafonico su basi tonali» che sembra affondare in Schönberg, oltre che in Berg, parte delle sue radici.

I referenti extramusicali dati dal testo di Rilke rivestono un ruolo fondamentale in queste peculiari poetiche dei dodici suoni, tanto, forse, da poter essere considerati addirittura una primaria ragione costruttiva. In particolare nei brani che concludono i due Cornet, emerge con evidenza come un momento focale e drammatico del racconto motivi la tendenza di Martin e Ullmann ad esaurire campi altamente cromatici, quando non totalmente cromatici, pur mantenendovi certi elementi ereditati dal sistema tonale. Nel corso del presente articolo sono stati illustrati vari passaggi e sezioni che mostrano con forza una reciproca influenza fra le istanze rilkiane e gli eclettismi dei dodici suoni. Per un ulteriore esempio di tale simbiosi poetico-musicale, si volga lo sguardo ancora a Der Schrei di Martin, nella sua interezza: la coerenza della serialità globale del brano determina la più varia ed esplicita dialettica fra triadi perfette e serie dodecafoniche lineari, e del resto pare non casuale che ciò si verifichi nel capitolo forse più ‘espressionista’ di tutto il poema – a cui Martin conferisce un titolo, Der Schrei (‘L’urlo’), che inevitabilmente si pone come riferimento all’omonimo quadro di Edvard Munch, ovvero una delle opere in assoluto più rappresentative dell’Espressionismo intorno a Rilke.

Nell’urlo di Martin le triadi iniziali, straniate dalle dissonanze ai bassi, ricorrono fra i cromatismi totali ad ampliamento espressivo di un testo verbale discontinuo, frammentato. I versi spezzati, talvolta di una parola sola, che descrivono il solitario incedere di un Christoph colto nel momento del sogno corrispondono a consonanze di terza fra voce e orchestra e a triadi maggiori e minori, suonate dolcissimo e pianissimo anche quando armonizzano il totale cromatico. Per le borchie della sella «che splendono tra la nube di polvere» il totale cromatico suona come un accompagnamento della voce rapido e leggero, senza incontri aspri; e così per la luna che in una sorta di madrigalismo si innalza insieme con la linea del canto, con le triadi e con la dinamica della strumentazione orchestrale. Quando Christoph si trova d’improvviso a fronteggiare l’urlo allucinato di un albero cui è legata una donna nuda e insanguinata, questo ripetuto urlo – nel paesaggio psichico di Rilke non è la donna a gridare, bensì l’albero stesso – si ritrova gridato nelle acute note del contralto («schreit, schreit») a completare cluster orchestrali in forte e più forte. Seguono nei campi cromatici altre alternanze fra triadi perfette e agglomerati dissonanti in un crescendo ritmico e dinamico dell’orchestra, finché Christoph libera la donna, tagliando le «corde cocenti», per subito fuggire oltre con quei «lacci insanguinati stretti in pugno».

Die Kompagnie liegt jenseits der Raab. Der von Langenau reitet hin, allein. Ebene. Abend. Der Beschlag vorn am Sattel glänzt durch den Staub. Und dann steigt der Mond. Er sieht es an seinen Händen.

Er träumt.
Aber da schreit ihn an.
Schreit, schreit,
zerreißt ihm den Traum.
Das ist keine Eule. Barmherzigkeit:
der einzige Baum
schreit ihn an:
Mann!
Und er schaut: es bäumt sich. Es bäumt sich ein Leib
den Baum entlang, und ein junges Weib,
blutig und bloß,
fällt ihn an: Mach mich los!
Und er springt hinab in das schwarze Grün
und durchhaut die heißen Stricke;
und er sieht ihre Blicke glühn
und ihre Zähne beißen.
Lacht sie?
Ihn graust.
Und er sitz schon zu Roß
und jagt in die Nacht. Blutige Schnüre fest in der Faust.
[46]

 

 Ascolto

Esempio 14. MARTIN, Der Cornet, n. 23 (Der Schrei): Marjana Lipovšek (contralto), ORF-Symphonieorchester, Lothar Zagrosek (dir.) [**].

 

 


 

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Forse più di ogni altro brano dei Cornet di Martin e Ullmann, Der Schrei mostra come gli elementi armonici dell’eclettismo – tonali e atonali, triadici e non, diatonici e cromatici, consonanti e dissonanti – si fronteggino con apparente ostilità trovando tuttavia una comune ragione di appartenenza nell’unità generale del totale cromatico e, parimenti, trovando un’origine e una logica costruttiva nella relazione che si instaura fra le proprie potenzialità di associazione extramusicale e i significati del testo verbale [47] – pur certo senza determinare con tale relazione una ‘regola degli affetti’ dalle rigide corrispondenze.

 

V. Quale ombra di Schönberg?

 

Nel Cornet di Martin e in quello di Ullmann la compresenza di tradizione e modernità deriva da vari atteggiamenti stilistici fra i quali un punto di coagulazione è costituito dall’interpretazione ‘non rigorosa’ che i due compositori intendono offrire dell’eredità dodecafonica di Schönberg. Martin affermava che il mantenimento nella serie di «un senso tonale» era un modo per parlare un linguaggio seriale diverso rispetto a quello del suo ideatore, mentre pare che per Ullmann il proprio «sistema dodecafonico su basi tonali», in cui gli elementi tonali si confrontano con nuove sintassi e libere serialità, corrisponda alla fusione di due sfere («l’acqua e il vino») che Schönberg aveva separato. Nei rispettivi Cornet tali atteggiamenti corrispondono allo sfruttamento di serie difettive, o più generici campi cromatici, ove accanto ad elementi atonali ricorrono anche elementi triadici, accordi e arpeggi di triadi, settime e none, ma anche semplici movimenti al basso che possono richiamare quelli tonali. Linearmente poi, in alcuni passaggi, emergono anche frammenti di codificate scale neomodali (non maggiori o minori). Si consideri ancora il Leidensmotiv di Martin, ad esempio, e il modo in cui dalla continua successione armonica delle triadi diminuite si genera nelle tre voci anche una linearità ottatonica.

Esempio 14

Esempio 14. MARTIN, Der Cornet, n. 23 (Im nächsten Frühjar), cifra 1 + 5-6.

 

La concezione della serie e del totale cromatico in Martin e Ullmann è parte di una più generale tendenza a interpretare l’eredità di Schönberg non necessariamente come negazione della tonalità in tutti i suoi aspetti (armonici, melodici, formali) e non necessariamente come negazione di altre tendenze compositive del Novecento storico (neotonali e neomodali, in senso lato neoclassiche) che anche da un punto di vista storiografico sono state generalmente considerate contrapposte al serialismo. Come ha rilevato anche Pietro Cavallotti,[48] il sistema dodecafonico, paradossalmente, a dispetto del ‘rigore’ o addirittura dell’idea di rigidità che sovente ad esso è associata, è anche un sistema estremamente malleabile, poiché nell’esaurimento del totale cromatico si danno in effetti possibilità per generare e accostare elementi che derivano dai linguaggi più diversi, non solo atonali. Queste possibilità sono testimoniate dagli svariati atteggiamenti – dichiarati e non – che nei confronti dell’ideazione di Schönberg sono stati assunti da alcuni compositori nella prima metà del Novecento. Basti pensare alle intersezioni triadiche e ottatoniche della dodecafonia di Dallapiccola,[49] o al concetto di «dodecafonia tonale» coniato e messo in pratica da Paul van Klenau.[50] In casi simili, e come per certi atteggiamenti di Martin e Ullmann, il riferimento a Schönberg parrebbe limitarsi anche solo a ‘un’ombra’, a un principio costruttivo che, di fatto, si realizza con modalità anche molto lontane dalle intenzioni del suo ideatore.

Ma tali modalità ‘non rigorose’, come le tanto citate compromissioni tonali, erano davvero così lontane dalle intenzioni di colui che la tecnica dodecafonica l’aveva inventata? Il «metodo di composizione con dodici note che stanno in relazione solo fra loro» era davvero, nelle intenzioni di Schönberg, una negazione della tonalità in tutti i suoi aspetti? Quando Martin al tempo della composizione del Cornet, nel 1943, affermava che il mantenimento di un senso tonale era un modo per far parlare alla dodecafonia un «linguaggio diverso rispetto a quello del suo ideatore» certo non poteva sapere che in quel medesimo periodo al di là dell’oceano lo stesso Schönberg tendeva a compromettere con varie ‘licenze’, consonanze, polarità, gesti e salienze tonali, la ‘purezza’ dodecafonica di pezzi come le Variazioni su un recitativo per organo op. 40, L’Ode a Napoleone Bonaparte op. 41 e il Concerto per pianoforte e orchestra op. 42.[51]

Se, fra gli anni Trenta e Quaranta, compositori come Dallapiccola o Paul van Klenau, o gli stessi Martin e Ullmann, davano valutazioni critiche e interpretazioni creative variamente tonali del sistema dodecafonico, spesso convinti di trasgredire in tal modo le norme di un’ortodossia, non va dimenticato che in quegli anni anche Schönberg intraprendeva un percorso che lo avrebbe portato a caratterizzare sempre più la propria dodecafonia con elementi o allusioni tonali – distinguendola così dalle stesse sue composizioni dodecafoniche degli anni Venti. Più in generale, dunque, dopo aver individuato con la dodecafonia un principio di integrazione in un linguaggio che era altamente differenziato a causa dell’emancipazione della dissonanza, egli tendeva a riportare nella tecnica seriale una dialettica fra consonanza e dissonanza dalle strutture e dai significati nuovi. Strutture e significati che peraltro da un punto di vista teorico nemmeno lui, alla fine della sua vita e della sua parabola creativa, sarebbe riuscito a descrivere e giustificare del tutto:

In questi ultimi anni mi è stato domandato se certe mie composizioni siano dodecafoniche ‘pure’ o in generale se siano dodecafoniche. Il fatto è che io non lo so. Sono tuttora più un compositore che un teorico. Quando compongo cerco di dimenticare tutte le teorie e continuo a comporre soltanto dopo aver liberato la mia mente da esse. Mi sembra importante mettere in guardia i miei amici contro l’ortodossia. La composizione con dodici note non è affatto un metodo così severo ed esclusivo come comunemente si crede. È prima di tutto un metodo che richiede ordine logico e organizzazione, cui il risultato principale mira ad essere la comprensibilità. Se certe mie composizioni manchino di ‘purezza’ a causa della sorprendente apparizione di alcune armonie consonanti – sorprendenti anche per me – io non sono in grado, come ho detto, di decidere. Ma sono sicuro che una mente esercitata alla logica musicale non sbaglia, anche se non è consapevole di tutto ciò che fa. Così spero che, ancora una volta, un atto di grazia possa venire in mio soccorso, come accadde nel caso della Kammersymphonie, e possa svelare la coerenza in questa apparente discrepanza.[52]

Fra le ragioni di una «coerenza in questa apparente discrepanza», vanno certo ricercati quei significati extramusicali che per Schönberg avevano avuto un’importanza determinante (parte significativa dell’«atto di grazia», come lo chiamerebbe lui) non solo nel suo periodo espressionista, quello dei monodrammi, del Pierrot Lunaire e di vari cicli liederistici, ma persino nella stessa prima intuizione della serie dodecafonica, nell’oratorio Die Jakobsleiter. Parimenti, la presenza di materiali consonanti nel campo seriale, approfondita da Schönberg dopo il 1933, nel suo periodo americano, sembra non a caso trovare un primo momento di sperimentazione in una precedente opera dalle implicazioni fortemente spirituali e simboliche, ovvero Moses und Aron (1930-1932). Ecco dunque che le interpretazioni variamente triadiche e ‘poliarmoniche’ del sistema dodecafonico da parte di compositori come Martin e Ullmann rivelano, più di quanto questi stessi compositori potessero sapere, sintomatici punti di contatto con Schönberg sia per la presenza e l’organizzazione di certe strutture immanenti, sia per la ricerca di una loro logica e motivazione – di una loro «coerenza» – in referenti extramusicali.

Quale ombra di Schönberg allora si proietta sulle poetiche dei dodici suoni di Martin e Ullmann e sui rispettivi Cornet? Proprio Ullmann, scrivendo il citato articolo su Berg del 1930, mentre Schönberg iniziava la composizione di Moses und Aron, si era dimostrato uno dei primi a intuire che il sistema dodecafonico avrebbe potuto rivelarsi tutt’altro che rigido, severo ed esclusivo, persino nelle mani del suo stesso ideatore. Il quale – afferma Ullmann, forse per averne parlato direttamente con lui – stava aspettando «una nuova tonalità nel senso più ampio del termine», che a quel tempo ancora apparteneva al futuro:

Nel momento in cui [Schönberg] per prima cosa sciolse tutti i legami della famiglia musicale seguendo il rivoluzionario principio: «tutti i suoni siano fratelli», subito egli avvertì il pericolo dell’anarchia che si nascondeva in questa comunità di suoni, che avrebbe potuto riportare ad un ‘ordine primitivo’. Egli scongiurò questo pericolo ricorrendo a un grosso tabù, il sistema dodecafonico. Questa giovane comunità di suoni non era governata da altre leggi. Se questo suo nuovo ordine, se la ‘lex-dodecafonia’ abbia gettato le basi di un nuovo Stato di forte organizzazione, oppure solo di un governo provvisorio, non lo si può prevedere proprio perché lo stesso Schönberg sta aspettando una nuova tonalità – nel senso più ampio del termine – la cui essenza ci è sconosciuta.[53]

 

DISCOGRAFIA

Gli esempi audio dei Cornet di Martin e Ullmann sono tratti rispettivamente da:

[**] FRANK MARTIN, Der Cornet, 1CD, Orfeo International Music GmbH, 1988 (LC 8175).

[***] VIKTOR ULLMANN – ARNOLD SCHÖNBERG, Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke et al., 1CD, EDA Edition Abseit, 1995 (EDA 008-2).

 

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[Bio] Carlo Bianchi è diplomato in pianoforte e insegna analisi musicale presso la facoltà di Musicologia di Cremona (Università degli Studi di Pavia). Si è addottorato presso la medesima facoltà presentando la dissertazione Musica e guerra. Comporre all’epoca del secondo conflitto mondiale. Svolge attività di ricerca prevalentemente nell’ambito del Novecento storico.

E-mail carbianchi@libero.it

Carlo Bianchi has a degree in Piano Performance from the Conservatory of music "Cesare Pollini" of Padua. He graduated at the Faculty of Musicology of Cremona (Department of Musicological Science of the University of Pavia) and there he took his PhD working on a dissertation about relations between music and Second World War. He is currently teacher of Music Analysis at the same Faculty. His studies are mainly focused on music and composers of the first half of 20th century.

[*] La riduzione per canto e pianoforte del Cornet di Martin è edita dalla casa viennese Universal Edition (UE11491). Il Cornet di Ullmann è disponibile in una edizione Schott (ED 8285). Nel presente articolo gli esempi che si riferiscono a questo brano non sono stati riportati integralmente in ragione delle condizioni imposte dalla casa editrice.

[1] «Versifizierten Prosa» la definì lo stesso Rilke in una lettera ad Arthur Holitscher del 20 giugno 1907 (citata in RAINER MARIA RILKE, Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke: Text-Fassungen und Dokumente, hrsg. von Walter Simon, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1974, p. 97).

[2] Il Cornet era stato musicato da Kasimir von Pászthory nel 1914 come ‘melodramma’ per voce recitante e pianoforte, poi da Paul van Klenau fra il 1915 e il 1918 (per baritono, coro e orchestra) e infine da Kurt Weill nel 1919 (un poema sinfonico).

[3] «È chiaro che la celebrazione del soldato in essa contenuta non poteva che rendere quest’opera, soprattutto nei primi mesi di guerra sostenuti da entusiasmo bellico, ancora più amata di quanto già non fosse. In molti zaini, così si dice, L’Alfiere è presente, al pari della Bibbia o tutt’al più del Faust, come una sorta di equipaggiamento ideologico da battaglia» (WOLFGANG LEPPMANN, Rilke. La vita e l’opera, trad. di Donatella Frediani, Milano, Longanesi, 1989, p. 173).

[4] RILKE, Über Kunst [Sull’arte, 1898], in IDEM, Tutti gli scritti sull’arte e sulla letteratura [testo tedesco a fronte], a cura di Elena Polledri, Milano, Bompiani, 2008, pp. 194-207: 197.

[5] Anche le illustrazioni figurative del Cornet furono numerose. Rilke tendeva a svalutarle e scoraggiarle. In particolare nel 1917 respinse la proposta, avanzata dalla sua conoscente Katherina Kippenberg (moglie di Anton Kippenberg, dell’Insel-Verlag, che fu il principale artefice del successo editoriale del Cornet), di commissionare alcuni quadri a Kokoschka (LEPPMANN, Rilke. La vita e l’opera, cit., p. 175).

[6] Lettera alla contessa Maria Viktoria Attems del 12 marzo 1921, riportata in HARRY E. SEELIG, Rilke and Music. Orpheus and the Maenadic Muse, in Rilke-Rezeptionen. Rilke Reconsidered, ed. by Sigrid Bauschinger and Susan L. Cocalis, Tübingen/Basel, Francke, 1995, pp. 63-93: 66. Nel presente articolo le traduzioni in italiano sono a cura di chi scrive salvo diversa indicazione. Desidero ringraziare il professor Artemio Focher (Università degli Studi di Pavia) per alcuni consigli sulle traduzioni dal tedesco.

[7] «In den Cornet sind die Motten gekommen […] durch diese Ritze drang das Mottenvolk ein, und nun bin ich eben bestraft». Lettera del 13 ottobre 1916 (riportata in SEELIG, Rilke and Music, cit., p. 69) destinata a Katherina Kippenberg, che aveva assistito alla prima esecuzione del Cornet di Pászthory a Lipsia. In un’altra lettera ad Anna Freifrau del 4 febbraio 1915 Rilke aveva preso spunto dal Cornet di Pászthory per esprimere il suo disappunto nei confronti della generale «coesistenza di parole e musica» (Nebeneinender von Wort und Musik) e per una «forma melodrammatica» che secondo lui non era una «forma d’arte» (die für mich keine Kunstform ist): «Vielleicht kann ein starker Sprecher den augenblicklichen Einklang herstellen: das wird sich nun zeigen» (‘Forse un vigoroso lettore riesce a produrre la momentanea armonia: questo però diventa esibirsi’). RILKE, Text-Fassungen und Dokumente, cit., p. 123.

[8] Per una sintetica disamina della ricezione musicale dell’opera di Rilke, si veda SEELIG, Rilke and Music, cit. Sarebbe fuori luogo elencare qui tutti i numerosi compositori e brani del Novecento ispirati dalle poesie di Rilke (fra cui va comunque menzionato, quantomeno, il ciclo liederistico Das Marienleben di Hindemith, 1922). È piuttosto il caso di rimandare alle voci «Rilke» di alcuni dizionari enciclopedici musicali (che danno anche indicazioni sui vari contributi bibliografici inerenti l’argomento). Si vedano in particolare le voci curate da ANGIOLA MARIA BONISCONTI in Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, vol. 6 (Le biografie), 1983, pp. 353-355; PETER BRANSOMBE, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians. Second edition, vol. 21, 2001, p. 397; RÜDIGER GÖRNER, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, vol. 14 (Personenteil), 2005, pp. 353-355.

[9] Queste riflessioni, maturate prima ancora della stesura del Cornet, sono contenute negli scritti Moderne Lyryk [La lirica moderna] e Über Kunst [Sull’arte, cit.] che risalgono entrambi al 1898. Si veda RILKE, Tutti gli scritti, cit., rispettivamente pp. 100-149 (per le espressioni qui citate, pp. 104-105) e pp. 194-207: 197.

[10] «Ancora la ricordo la notte prodigiosa / che lo scrissi [il Cornet]: com’ero giovane. / Da allora le pretese del destino / hanno portato in sorte / a migliaia coraggio e bisogno, / e a centinaia l’eroismo, / improvviso: come se mai avessero / conosciuto il loro cuore. Così anche il mio fu / per me del tutto nuovo in quella lontana notte / che non presagita, impensata, / questa poesia da esso scaturì… / Così noi siamo qualcosa, lo siamo e non lo sappiamo / e il destino non è più di noi: esso ha volontà». Poesia spedita al tenente degli ussari Friedrich von Mosch nel dicembre 1914, riportata in LEPPMANN, Rilke. La vita e l’opera, cit., pp. 173-174. Qui la traduzione differisce leggermente da quella di Donatella Frediani, ibid., p. 174.

[11] Oltre a Martin e Ullmann, sempre nei medesimi anni della seconda guerra mondiale, il Cornet fu messo in musica anche dal compositore Anton Würtz (un brano per baritono e pianoforte). Così, nel complesso, i sei arrangiamenti al tempo delle due guerre, uniti alla più recente opera di Siegfrid Matthus (1985), rendono il Cornet la poesia di Rilke maggiormente musicata.

[12] Nel corso del 1942, prima ancora di venire a conoscenza del testo di Rilke, Martin aveva pensato a un ciclo liederistico per voce e pianoforte. La versione del Cornet per contralto e orchestra fu il risultato di varie riflessioni sul testo, nonché della collaborazione con la cantante Elisabeth Gehri e il direttore d’orchestra Paul Sacher: «La rencontre que je fis alors d’Elisabeth Gehri et la possibilité de l’avoir pour interprète, me décidèrent à renoncer à mon cycle de Lieder et à entreprendre un plus vaste travail. Les encouragements que je reçus de Paul Sacher achevèrent de me décider et donnèrent à mon projet sa forme définitive, en m’offrant comme partenaire à la voix d’alto la finesse et la transparence d’un orchestre de chambre.» (FRANK MARTIN, Le Cornette (1942-1943), in A propos de… Commentaires de Frank Martin sur ses oeuvres, pub. par Maria Martin, Neuchâtel, Editions de la Baconnière, 1984, pp. 49-50: 51).

[13] «…cette courte épopée en vingt et quelques chants, qui sont chacun un exquis petit poème en prose, ayant chacun sa couleur propre et son rythme et gardant jusque dans la peinture des brutalités de la guerre une sensibilité incroyablement raffinée», MARTIN, Pourquoi J’ai mis en musique «Der Cornet» de Rilke, in A propos de…, cit., pp. 51-55: 52.

[14] Per una contestualizzazione della composizione del Cornet rispetto ad altre opere di Ullmann scritte a Theresienstadt, e rispetto ai generali meccanismi estetici del Ghetto, si vedano VERENA NAEGELE, Viktor Ullmann. Komponieren in verlorener Zeit, Köln, Dittrich Verlag, 2002, pp. 426-430; INGO SCHULZ note illustrative allegate a (2) ULLMANN – SCHÖNBERG, 1995, pp. 8-13 (si veda Discografia). Con particolare riguardo al concetto di morte steineriana in Ullmann, CARLO BIANCHI, L’Andante della Sonata per pianoforte n. 5 op. 45 di Viktor Ullmann. Una testimonianza da Theresienstadt, «Philomusica on-line», 5, 2005-2006 (http://philomusica.unipv.it/).

[15] Lettera a H. Pongs del 17 agosto citata in LEPPMANN, Rilke. La vita e l’opera, cit., p. 160.

[16] Una parziale trattazione degli aspetti psicologici della poetica romantica, con riferimento in particolare alle arti figurative e con accenni al percorso che lega il Romanticismo alla nascita della psicoanalisi nel Novecento, è offerta da GIULIANO BRIGANTI, I pittori dell’immaginario. Arte e rivoluzione psicologica, Milano, Electa, 1989. Per quanto riguarda l’ambito letterario e musicale, un testo emblematico della continuità fra certe istanze simboliche e psicologiche dell’epoca romantica e quelle espressioniste del secolo successivo è costituito dal dramma Woyzeck di Georg Büchner. L’allucinata vicenda del soldato Woyzeck, scritta da Büchner nel 1836-1837 e lasciata incompiuta, venne riscoperta e ricostruita, con il deformato titolo Wozzeck, solo alla fine dell’Ottocento, dopo un lungo periodo di oblio. Messa in scena alla vigilia della prima guerra mondiale nei teatri di Monaco e Vienna, iniziò subito a porsi come modello di dramma espressionista suscitando l’entusiasmo di molti artisti e intellettuali, fra i quali Rilke, e infine trovò una veste musicale nelle opere di Alban Berg e Manfred Gurlitt (risalgono al 1925 le prime rappresentazioni di entrambe le opere, rispettivamente a Berlino e Dresda). Il Wozzeck di Berg è in genere considerato l’opera per eccellenza del teatro musicale espressionista pur essendo basato su un testo letterario di un’epoca precedente. Per alcuni aspetti del rapporto fra il dramma di Büchner e l’opera di Berg si vedano, fra i contributi in italiano, GRAZIELLA SEMINARA, Dal «Woyzeck» al «Wozzeck»: percorsi di un capolavoro, e LINA MARIA UGOLINI, La terribile voce del silenzio. Una lettura del «Woyzeck» di Georg Büchner, entrambi in Wozzeck. Atti del convegno «Il Wozzeck di Alban Berg». Catania, 3-4 giugno 1996, a cura di Adriana Licciardello e Graziella Seminara, Lucca, LIM, 1999, rispettivamente pp. 3-24 e pp. 81-94; FAUSTO CERCIGNANI, Il «Woyzeck» di Büchner e il «Wozzeck» di Berg, in Wozzeck, a cura di Francesco Degrada, Milano, Edizioni del Teatro alla Scala, 2000, pp. 99-120.

[17] «E uno è lì e guarda stupito tanta magnificenza. Ed è come se temesse di destarsi. Perché solo nel sonno è dato contemplare un tale sfarzo e un tale tripudio di tali donne: ogni loro gesto è una piega che scivola nel broccato. Da dialoghi argentei tessono le ore e talvolta… come levano le mani… crederesti che in qualche luogo, dove tu non giungi, colgano rose soavi, che tu non vedi. E allora sogni: di esserne adorno e di godere di una diversa felicità e di conquistarti una corona per la tua fronte, spoglia.» (Per la traduzione del Cornet mi avvalgo di quella di Maria Teresa Ferrari contenuta nell’edizione SE (Milano, 2001). Sia questa traduzione sia gli stessi brani di Martin e Ullmann si rifanno al testo nella sua versione definitiva del 1906).

[18] «È [questo] il mattino? Quale sole sorge? Com’è grande il sole. Sono uccelli questi? Le loro voci sono ovunque. / Tutto è luce, ma non è il giorno. / Tutto è rumore ma non sono le voci degli uccelli. / Sono le travi che risplendono. Sono le finestre che urlano. E urlano, rosse, contro i nemici, fuori, nella campagna fiammeggiante, urlano: fuoco».

[19] Il termine Weise è, ad esempio, un termine che, adottato dai Minnesänger medievali, indicava una forma, una canzone da porgere in un determinato ‘modo’ (Weise) e quindi il termine può essere inteso anche come ‘melodia’ e ‘canto’. Lo stesso termine Cornet designa un grado militare di antica tradizione. Per alcuni accenni all’etimo delle parole Weise e Cornet si veda MARIO SPECCHIO, Alle origini del canto, in RILKE, Canzone d’amore e morte dell’Alfiere Christoph Rilke, trad. di Anna Maria Carpi, Roma, Edizioni dell’Altana, 1999, pp. 9-29 e 90 (I luoghi, i tempi, le parole). In lingua tedesca RILKE, Text-Fassungen und Dokumente, cit.

[20] JUDITH RYAN, Rilke, Modernism and Poetic Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1999.

[21] «Sind bis jetzt einzelne Arbeiten über musikalische Gesetze in der Dichtung erscheinen, so sollte, wenn einst genügend Material gesammelt ist, einer die Geschichte des musikalischen Stils in der Dichtung schreiben. Es würde dann ersichtlich werden, dass Rilke seine Leitmotive, wie "Sehnen und Sterben, Weib und Schicksal" (Maync), in kühnerer Weise spielt und abwandelt als E.T.A. Hoffmann die seinen im "Goldenen Topf". Man würde erkennen, dass die losere Form seines Werkes der befreiten Struktur moderner Musik gleichkommt, dass sein Metrum den Takt so häufig wechselt wie das zerrissenste Werk Regers, ja dass er Wortakkorde zu sagen vermochte, die dem geistreichen Musiktheoretiker Arnold Schönberg als Klangfarbenharmonien vorschwebten.» (FELIX WITTMER, Rilkes «Cornet», «Publications of the Modern Language Associations», XLIV, 1929, pp. 911-924: 923).

[22] PIETRO CAVALLOTTI, Frank Martin e la dodecafonia, «Philomusica on-line», 6, 2007 (http://philomusica.unipv.it/).

[23] «L’harmonie est née du contrepoint, historiquement, ce qui est tout autre chose. C’est le contrepoint qui l’a engendrée. Mais elle est, dans la musique, un tout autre élément, et un élément d’une tout autre importance; c’est en effet a l’harmonie que nous devons la marque distinctive de notre musique européenne; je veux dire le sens tonale» (MARTIN, Défense de l’harmonie [1943] in Un compositeur médite sur son art, Ecrits et pensées recueillis par Maria Martin, Neuchâtel, Editions de la Baconnière, 1977, pp. 79-82: 80).

[24] «Comme toutes les révolutions, celle de Schönberg érige en système la pensée nouvelle qu’elle apporte, nie tout ce qui n’est pas elle-même et estime tout particulièrement suspects ceux qui s’approchent d’elle sans adopter l’intégralité de ses dogmes. Comme toutes les révolutions, elle croit aussi que l’avenir est à elle, ne comprenant pas que, par son essence, en elle-même, elle est éphémère, et que son apport positif ne peut être fécond que s’il s’intègre dans les valeurs permanentes de la musique. Car il n’est, en art, de valeurs réelles que celles qui unissent l’immédiat et le permanent. […] C’est ainsi que les règles établies par Schönberg peuvent enrichir notre écriture musicale en rendant notre sensibilité plus aiguë. Cette technique parlera alors une autre langage que celle de sono initiateur, chacun la façonnera selon son tempérament. […] Ainsi nous pouvons participer à cette libération de la cadence et de la tonalité classique, a cette libération aussi du mode diatonique, sans renier pour autant notre sens des fonction tonales, de la basse fonctionnelle et de la hiérarchie des rapports dont l’acoustique élémentaire nous assure la réalité physique.» (MARTIN, Schönberg et nous [1947], in Un compositeur médite sur son art, cit., pp. 108-112: 110-111).

[25] MARTIN, Schönberg et les conséquences de son activité [1974], in Un compositeur médite sur son art, cit., pp. 115-120: 119.

[26] Schönberg iniziò a scrivere in uno stile dodecafonico «rigoroso» nel 1921, con la Suite per pianoforte op. 25, ultimata nel 1923. Anche la raccolta dei cinque Klavierstücke op. 23 e la Serenade per baritono e sette strumenti op. 24, iniziate entrambe nel 1919 e terminate, come la Suite, nel 1923, presentano parti di dodecafonia «rigorosa» che Schönberg stesso dice risalire al 1922-1923. Dunque, sempre a detta di Schönberg, l’elaborazione dei Klavierstücke e della Serenade fra il 1919 e il 1921 costituisce una fase di preparazione diretta alla nascita della dodecafonia (il ruolo della serie nella Serenade, ad esempio, è testimoniato già da uno schizzo che risale al 1920). In alcune composizioni degli anni ancora precedenti, in particolare nell’oratorio Die Jakobsleiter (1917) e nel frammento di un settimino per archi (1918), si può notare come Schönberg ricercasse in vari modi la serie e stesse progressivamente approntando alcune tecniche che avrebbero caratterizzato il sistema dodecafonico (fra i vari studi inerenti questo argomento, si veda MARTINA SICHARDT, L’origine del metodo dodecafonico in Schönberg, in Schönberg, a cura di Gianmario Borio, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 91-111. Alcune dichiarazioni di Schönberg al riguardo sono riportate in La composizione con dodici note, in ARNOLD SCHÖNBERG, Analisi e pratica musicale. Scritti 1909-1950, a cura di Ivan Vojtech, Torino, Einaudi, 1974, pp. 240-243: 243; si veda anche IDEM, Stile e pensiero. Scritti su musica e società, a cura di Anna Maria Morazzoni, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 217).

[27] VIKTOR ULLMANN, Alban Berg, «Anbruch. Monatsschrift für moderne Musik», XII/2, 1930, pp. 50-51: 50.

[28] «Unter dieser Hand wird das Material der Diskussion entrückt, und wir vergessen, daß es hier "Tonalität", dort "Atonalität" oder Zwölftonsystem heißt. Schönberg hat einmal Tonalität mit Wasser, Atonalität mit Wein verglichen. Berg tut das Wunder der Verwandlung: Die beiden Elemente werden einander ähnlich, sie durchdringen einander.» ‘Sotto questa mano <di Berg> il materiale della discussione diventa sfocato e noi dimentichiamo che esso qui si chiami "tonalità", e lì "atonalità" o sistema dodecafonico. Schönberg ha assimilato una volta la tonalità all’acqua e l’atonalità al vino. Berg fa il prodigio della trasformazione: i due elementi diventano simili l’uno all’altro, si compenetrano a vicenda.’). Ibid.

[29] «Die Brücke über den Abgrund, der scheinbar die vorige Musikepoche von der ars nova trennte, ist geschlagen, und damit die Brücke zum "Publikum". Denn das Werk Bergs wirkt nicht nur in die Tiefe, sondern auch in die Breite.» (‘Il ponte, sull’abisso che in apparenza separava l’ars nova dall’epoca musicale precedente, è gettato, e così il ponte verso il "pubblico". Perché l’opera di Berg non agisce solo in profondità, ma anche in ampiezza’). ULLMANN, Alban Berg, cit., p. 51.

[30] «The reviews of performances of Ullmann’s works begin, almost without exception, with reminding the reader that he was a pupil of Schoenberg. So brilliant was the aura, so much of a favorable [sic] introduction, that it comes almost as an anti-climax when we learn that not a single work of Ullmann’s written in strict twelve-tone style has been preserved. One of the music critics wrote in the early days that Ullmann was a brilliant exponent of the twelve-tone system, but we have nothing to prove this. We may have our doubts when, where and even whether Ullmann had systematic instruction in composition with twelve tones. At the time he studied with Schoenberg, its rules had to wait another five years to be fully developed. Moreover, Schoenberg insisted on every student’s mastery of traditional harmony and counterpoint before he took his first steps beyond. This makes it almost certain that whatever Ullmann absorbed of the system, he did not learn directly from the master himself, only from studying the master’s works and those of his elder disciples, notably Alban Berg. However, a detailed analysis of Ullmann’s works will reveal other stylistic features of Schoenberg.» (MAX BLOCH, Viktor Ullmann. A Brief Biography and Appreciation, «Journal of the Arnold Schoenberg Institute», III/2, 1979, pp. 151-177: 163).

[31] «Characteristic of my new endeavors [sic] is, in my opinion, especially the new piano sonata (new harmonic functions within the framework of a tonality which perhaps could be called polytonality. The principle subject is in three tonalities, but this is not essential. What apparently is happening is the linking of the twelve tonalities and their related minor keys. It seems that I was always striving for a twelve note system on a tonal basis, similar to the merging of major and minor keys.) – What may be involved is the exploration of the limitless areas of total-functional harmony, or the bridging of the gap between romantic and "atonal" harmony. – I am indebted the Schoenberg school for strict, i.e. logical structures and to the Hába school for a refinement of melodic sensitivity, the vision of new formal values and the liberation from the canons of Beethoven and Brahms. […] In my opinion Hába ventures the first step beyond the epoch of Beethoven whose ideas relative to form still dominate the Schoenberg school.» (BLOCH, Viktor Ullmann, cit., p. 165). Questa lettera di Ullmann non è stata finora pubblicata. Bloch la riporta parzialmente nel proprio articolo definendola «note about his studies» (‘nota sui suoi studi’ [di Ullmann] custodita privatamente a Praga). L’identificazione di questo scritto come inedita lettera a Karel Rainer e la sua precisa datazione (25 agosto 1938) sono invece fornite da Konrad Richter nella prefazione all’edizione Schott delle sonate per pianoforte di Ullmann (vol. I, 1999, nota 3).

[32] Uno dei più evidenti esempi di ricezione creativa da parte di Ullmann nei confronti dell’atonalità non ancora dodecafonica di Schönberg è costituito dalle sue Variationen und Doppelfuge über ein Thema von Arnold Schönberg für Klavier op. 3a (composte nel 1925 e riviste nel 1934). Il tema di Schönberg è tratto dal quarto dei Sechs Klavierstücke op. 19.

[33] Martin assegna ad ogni brano un titolo, che è spesso desunto dai versi iniziali del capitolo musicato ogni volta. Questi i titoli: 1. Reiten; 2. Der kleine Marquis; 3. Jemand erzählt von seiner Mutter; 4. Wachtfeuer; 5. Das Heer; 6. Ein Tag durch den Troß; 7. Spork; 8. Der Schrei; 9. Der Brief; 10. Das Schloß; 11. Rast; 12. Das Fest; 13. Und Einer steht; 14. Bist du die Nacht?; 15. Hast Du vergessen?; 16. Die Turmstube; 17. Im Vorsaal; 18. War ein Fenster offen?; 19 Ist das der Morgen?; 20. Aber die Fahne ist nicht dabei; 22. Der Tod; 23. Im nächsten Frühjahr.

[34] «Cavalcare, cavalcare, cavalcare, attraverso il giorno, attraverso la notte, attraverso il giorno. / Cavalcare, cavalcare, cavalcare. / [E] L’animo si è fatto così stanco e la nostalgia così grande. Non si vedono più monti, a malapena un albero. Nulla che osi levarsi. Capanne sconosciute siedono assetate accanto a fonti paludose. Non una torre. E sempre lo stesso scenario. Si hanno due occhi di troppo. Solo la notte si crede talvolta di conoscere la via. Forse di notte [sempre] ripercorriamo a ritroso quello stesso tratto conquistato con pena sotto un sole straniero? Può essere. Il sole è opprimente, come da noi al colmo dell’estate. Ma in estate partimmo. Gli abiti delle donne splendettero a lungo sul verde. E cavalchiamo ormai da gran tempo. Deve dunque essere autunno. Almeno là dove donne tristi sanno di noi».

[35] Riprendo in questo esempio e nell’esempio 7 alcune indicazioni già date da THOMAS SEEDORF, «Porträt der literarischen Form». Rilkes «Cornet» in der Vertonungen von Frank Martin, «Die Musikforschung», XLVI/3, 1993, pp. 254-267: 262.

[36] È ad esempio il caso della pronuncia di Gert Westphal, che si può ascoltare negli estratti audio del presente articolo. Un’incisione del Cornet di Ullmann che invece non rivela tale caratteristica di pronuncia è quella effettuata da Elisabeth Verhoeven e dal pianista Hartmut Höll (Capriccio, Delta Music GmbH, 2001, CAP10897. Il CD contiene anche alcuni lieder di Ullmann cantati da Mitsuko Shirai: Fünf Libeslieder von Richard Huch op. 26; Gesänge nach Gedichten von Friedrich Hölderlin [1943]; Little Cakewalk [1943]).

[37] «il 24 novembre 1663 Otto von Rilke / [signore] di Langenau / Gränitz e Ziegra / fu investito a Linda della parte di proprietà di Linda lasciata in eredità dal fratello Christoph caduto in Ungheria; dovette però sottoscrivere un atto / che aveva facoltà di render nulla l’investitura / qualora il fratello Christoph (che in base al certificato di morte era caduto col grado di Alfiere nella compagnia del barone von Pirovano dell’imperial reggimento austriaco a cavallo di Heyster…) / fosse ritornato».

[38] A tale proposito si veda BIANCHI, L’Andante della Sonata per pianoforte n. 5, cit., fig. 1, es. 1.

[39] MARTIN, Schönberg et nous, cit., p. 111.

[40] Così lo indica NORBERT BOLIN, Triumph und Tod des Helden, in Frank Martin. Das kompositorische Werk (III), hrsg. von Dietrich Kamper, Mainz, Schott, 1993, pp. 37-58: 45.

[41] «Scavalcano un contadino trucidato. Ha gli occhi sbarrati e qualcosa vi si rispecchia; non è il cielo.» (nella traduzione di Maria Teresa Ferrari il verbo reiten über è reso con ‘oltrepassano’).

[42] «Non dover esser sempre soldati. Per una volta almeno portare i riccioli sciolti e il colletto largo e sedere in poltrone rivestite di seta e sentirsi in ogni parte del corpo come dopo un bagno».

[43] «Scavalcano un contadino trucidato. Ha gli occhi sbarrati e qualcosa vi si rispecchia; non è il cielo. Cani ululano, più tardi. Un villaggio dunque finalmente. E sopra le casupole s’innalza un castello, di pietra. Il ponte si tende verso di loro, largo. Il portone ingigantisce. Dall’alto dà il benvenuto il corno. Ascolta: strepitio, cigolio e abbaiar di cani! Nitriti nel cortile, calpestio di zoccoli e richiamo».

[44] «La primavera successiva (giunse fredda e triste) un corriere del barone von Pirovano fece il suo ingresso a cavallo a Langenau, lentamente. Lì vide piangere una vecchia».

[45] CAVALOTTI, Frank Martin e la dodecafonia, cit., es. 10. La coerenza seriale dell’incipit di questo brano si trova argomentata anche in SEEDORF, «Porträt der literarischen Form», cit., p. 263. In simili casi, più che di una dodecafonia orientata in senso tonale, o ‘poliarmonico’, sarebbe opportuno, al contrario, parlare di una tonalità ‘poliarmonica’ orientata in senso seriale.

[46] «La compagnia è oltre il Raab. Quel di Langenau vi cavalca, solo. Pianura. Sera. Le borchie della sella splendono tra la nube di polvere. E poi sale la luna. Lo vede dalle proprie mani. / Sogna / Ma ecco che un grido gli si leva contro. / Un grido, un grido, / gli lacera il sogno. / Non è una civetta. Misericordia: / l’unico albero / grida contro di lui: / uomo! / E lui guarda: qualcosa si tende lungo il tronco. Un corpo e una giovane donna, / sanguinante e nuda, / lo investe: liberami! / E lui salta giù nell’erba nera / e taglia le corde cocenti: / e vede lo sguardo di lei ardere / e i denti mordere. / Ride? / Inorridisce. / Ed è già in sella / e si lancia nella notte. Lacci insanguinati stretti in pugno».

[47] L’aderenza fra testo e musica che si verifica in Der Schrei richiama con forza quanto dichiarato da Martin a proposito del modo in cui nel suo Cornet la musica si rapporta ai versi di Rilke: «Que dire de la musique, sinon que j’ai cherché, pour chaque tableau, une forme musicale aussi adéquate que possible à sa forme littéraire, que j’ai cherché aussi conserver le caractére propre à chaque fragment, qu’il soit simple récit, description, explosion lyrique ou approfondissement tout intérieur des sentiments. En bref, j’ai tenté de rester aussi fidèle qu’il m’était possible à ce texte, aussi fidèle que me le dictait ma profonde admiration.» (MARTIN, Le Cornette (1942-1943), cit., p. 50).

[48] CAVALOTTI, Frank Martin e la dodecafonia, cit.

[49] Il carattere ‘misto’ della dodecafonia di Dallapiccola risiede anche nelle possibilità lineari e armoniche offerte da collezioni ottatoniche. Si veda MICHAEL ECKERT, Octatonic elements in the Music of Luigi Dallapiccola, «The Music Review», XLVI/1, 1985, pp. 35-48). Fra le composizioni scritte negli anni Quaranta tali potenzialità sono sfruttate, ad esempio, nell’opera Il prigioniero.

[50] In particolare nell’articolo Wagners «Tristan» und die «Zwölftönemusik»" («Die Musik», XXVIII/10, 1935, pp. 727-731) Klenau aveva parlato di «dodecafonia tonale» (Tonartbestimmte Zwölftonmusik) a proposito della sua opera Michael Kohlhaas, illustrando come le note di una serie dodecafonica, se opportunamente disposte, possano essere ricondotte a scale maggiori e minori di tonalità diverse (Ibid., p. 732).

[51] La permanenza di residui tonali nelle ultime composizioni di Schönberg è talmente evidente che, oltre ad essere al giorno d’oggi argomentata da un vasto panorama di studi, non sfuggì nemmeno ai contemporanei di quel periodo. Infatti, già subito dopo la scomparsa del compositore apparvero a tale riguardo due articoli su «The Score» VI, 1952: PIERRE BOULEZ, Schönberg is dead (pp. 18-22) e ROBERTO GERHARD, Tonality in Twelve-note Music (pp. 23-35). In particolare Boulez, al di là dei noti toni sprezzanti che accompagnavano la sua analisi, rimarcava con efficacia l’interazione fra tradizione e modernità nella dodecafonia di queste composizioni: «Ma cosa pensare del periodo americano di Schönberg […]? Come potremo giudicare […] questa rivalutazione di funzioni polarizzanti e persino di funzioni tonali? Il rigore nella struttura viene allora abbandonato. Vediamo risorgere gli intervalli di ottava, le false cadenze, i canoni esatti all’ottava […]. Si sarebbe dunque arrivati a una nuova metodologia musicale soltanto per ricomporre l’antica?» (riportato in BOULEZ, Note di apprendistato, a cura di Paule Thévenin, Torino, Einaudi, 1968, pp. 233-239 [Schönberg è morto]: 237).

[52] SCHÖNBERG, My Evolution, «The Musical Quarterly», XXXVIII/4, 1952, pp. 517-527 (prima versione in «Nuestra Musica», 1949), riportato in SCHÖNBERG, Analisi e pratica musicale, cit., La mia evoluzione, pp. 318-331: 331.

[53] «Indem er [Schönberg] zunächst alle Bade der musikalischen Sippe löste, nach dem revolutionären Prinzip: "Alle Töne werden Brüder", sah er alsbald die Gefahr der Anarchie in dieser Tongemeinschaft lauern, welche zur "Urhorde" zurückführen konnte. Er bannte diese Gefahr durch ein großes Tabu, das Zwölftonsystem. Andere Gesetze fehlten der jungen Tongemeinschaft. Ob ihre Neuordnung, ob die "lex – Zwölfton" die Basis zu einem gewaltigen Staatengebilde gelegt hat oder ob bloß eine provisorische Regierung geschaffen wurde, läßt sich schon deswegen nicht voraussagen, weil Schönberg selbst eine neue Tonalität – im weitesten Sinne – erwartet, deren Wesen uns unbekannt ist.» (ULLMANN, Alban Berg, cit., p. 50. Questo passo dell’articolo è riportato anche nella prefazione all’edizione Schott delle Sonate per pianoforte di Ullmann curata da Konrad Richter, vol. I, 1999, nota 2).

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