Recensione a cura di
Michele Calella
ANNA MARIA BUSSE BERGER, Medieval Music and the
Art of Memory, University of California Press, Berkeley-Los
Angeles-London 2005, 304 pp.
Un titolo poco appariscente quello dell’ultimo
libro di Anna Maria Busse Berger, studiosa tedesca formatasi
prevalentemente negli Stati Uniti, dove attualmente insegna alla
University of California, Davis, e già nota al mondo
musicologico per il suo intelligente studio Mensuration and
Proportion Signs, uscito nel 1993 per la Clarendon Press.
Medieval Music and the Art of Memory rischia però di
scardinare molte delle nozioni date generalmente per scontate
nell’approccio con il repertorio polifonico medievale.
Benché la maggior parte degli studiosi sia cosciente del fatto
che la musicologia sia sempre un po’ arretrata rispetto ad
altre discipline, le incrostazioni romantiche presenti ancora oggi
in molte ricerche sulla musica medievale si rivelano effettivamente
difficili da eliminare. Basti pensare alla monografia su Perotino
pubblicata da Rudolf Flotzinger nel 2000 dove il nome "Perotinus"
menzionato dall’anonimo IV è diventato oggetto di
un’agiografia di stampo positivista, corredata di tanto di
biografia, analisi delle opere e apprezzamenti sullo "stile
individuale" che non stonerebbero per nulla in uno studio su
Beethoven o Brahms. Che Flotzinger abbia pubblicato nel 2003 anche
una monografia su Leonino la dice poi tutta.
All’idea di un autore medievale che trasmette
la sua intenzione direttamente alla scrittura, un’immagine
che in altre discipline è già stata messa in questione da
un paio di decenni, credono oggi in effetti non pochi studiosi di
musica medievale, prevalentemente quelli che si mostrano
particolarmente solleciti a legittimare il loro repertorio sulla
base dei princìpi estetici maturati tra Otto e Novecento, per
poi dimostrare che ‘già a quell’epoca’ si
componevano "opere d’arte". Chiaramente molti esperti di
gregoriano hanno abbandonato quest’idea da un bel pezzo, e a
dimostrarlo basti pensare che qui la disputa si è svolta negli
ultimi anni tra i sostenitori della "memorizzazione" (Levy) e
quelli dell’"improvvisazione" (Treitler); ma in ambito
polifonico, soprattutto a partire dalla cosiddetta ‘scuola di
Notre-Dame’, l’idea della nascita del compositore e
dell’opera d’arte musicale in senso moderno rimane un
topos storiografico visto sì con una certa diffidenza,
ma non sempre facile da sradicare.
L’idea alla base del libro della Busse Berger
è che l’invenzione della scrittura, pur avendo portato
ad un cambiamento nelle modalità di trasmissione, non abbia
però causato la sparizione di quelle tecniche mnemoniche che
costituiscono la base della cultura premoderna. Il libro tenta in
un certo senso di riscrivere la storia della musica medievale da
una nuova prospettiva, forte soprattutto degli studi effettuati in
ambito anglosassone negli anni Ottanta e Novanta da Jack Goody,
Mary Carruthers e altri autori. Dal primo l’autrice assume
l’idea di una cultura che non si trasforma da orale a
scritta, ma mantiene l’oralità, ovviamente praticata su
basi diverse, anche con il sopravvento della scrittura; dalla
seconda invece l’idea della diffusione della scrittura come
sintomo di un incremento dei processi di memorizzazione:
l’atto di scrivere diventa quindi funzionale a
quell’"archivio della memoria" che viene utilizzato come una
sorta di riserva mentale nel processo di composizione testuale.
Prima di applicare questa nuova prospettiva alla
cultura musicale del Medioevo l’autrice decide di operare una
revisione della tradizionale prospettiva "romantico-positivista"
ancora oggi dilagante, usando l’approccio metastorico. Il
prologo "The First Great Dead White Male Composer" (un titolo che
ammicca furbamente ai gender e race studies) analizza
con grande intuito la visione storiografica della polifonia
medievale di Friedrich Ludwig, uno dei grandi pionieri della
medievistica musicologica. Grazie ad un’intelligente indagine
di biografia e scritti, l’autrice rintraccia le radici della
visione di Ludwig nella scia lasciata dal revival
palestriniano ottocentesco, ricostruendo una
‘genealogia’ di maestri e allievi che da Eduard Grell,
direttore della Berliner Singakademie, passa per Bellerman per poi
arrivare a Jacobsthal, professore di Ludwig a Berlino. È
l’assunzione del modello palestriniano su una griglia
metodologica di stampo positivista a creare quell’approccio
evoluzionista caratteristico di Ludwig, un autore d’altronde
talmente interessato alla ricostruzione ‘obiettiva’ da
non considerare minimamente l’inadeguatezza dei suoi assunti
estetici. Così l’aumento di voci
dell’organum diventa a suo dire il segno di uno stile
‘tardo’ e Leonino e Perotino assurgono, in qualità
di ‘individui’, al rango di autori originali. Si
possono intuire subito le conseguenze metodologiche
nell’approccio di Ludwig con le fonti: messosi alla ricerca
dell’intenzione originale di Perotino, egli ne ricostruisce
non solo un corpus di opere ‘autentiche’ ma gli
attribuisce anche altre composizioni non citate dall’anonimo
IV sulla base di un presunto stile personale.
Che Ludwig non sia da giustificare come
‘specchio dei tempi’ viene dimostrato
dall’autrice sulla base di un confronto con la biografia di
Jacques Handschin, la cui formazione musicologica fu meno
istituzionalizzata (ebbe all’inizio una carriera come
organista e seguì solo alcune lezioni da Riemann e
Hornbostel). Forse grazie all’influsso degli studi
etnomusicologici con Hornbostel, Handschin matura una concezione
storiografica molto diversa da quella di Ludwig, rifiutando ogni
visione evoluzionistica. In questo senso non meraviglia che egli si
sia mostrato molto restìo a considerare il numero di voci
degli organa in senso progressivo-cronologico, ad applicare
il ritmo modale alle melodie dei trovatori e al conductus, e
soprattutto a vedere nella scrittura e nella notazione i
presupposti per una musica ‘colta’. Considerando
però il monumentale output scientifico di Ludwig si capisce
come questi abbia esercitato un influsso duraturo fino ad oggi.
Prendendo come esempio l’analisi di un conductus
pubblicata da Wulf Arlt in un volume dedicato a Perotino nel
2000, dove prevale una concezione del "Komponieren" di stampo
fortemente ottocentesco, la Busse Berger mostra in maniera
inequivocabile la persistenza della lezione di Ludwig anche laddove
la conoscenza delle fonti avrebbe dovuto portare ad una visione
storicamente più adeguata (devo comunque aggiungere che la
severità della Busse Berger nei confronti di Jürg Stenzl,
che nella sua introduzione allo stesso volume del 2000 pecca forse
‘di omissione’ nei confronti di Ludwig, mi sembra un
po’ eccessiva).
La prima parte del corpo centrale del libro, "The
construction of the Memorial Archive", analizza tre tipi di testi
‘musicali’ della cultura medievale: i tonari, i
trattati elementari di teoria e gli scritti che trasmettono le
regole per l’organum, il discanto e il contrappunto
(questi due termini vengono utilizzati dall’autrice come
sinonimi).
La tesi di fondo è già annunciata
all’inizio:
It is a common belief that once something can be
written down accurately, singers no longer need to be burdened with
the cumbersome process of memorization; they can sing directly from
notation. My hypothesis will be exactly the opposite: the ability
to write something down, to visualize it, allowed for exact
memorization and opened up new ways of committing material to
memory. Throughout my book my argument will be that musical
notation, like writing, does not replace performance from memory,
but, on the contrary, may be used to aid it. (p. 45)
Per i tonari l’autrice prende in considerazione
l’enorme repertorio di melodie liturgiche che i chierici,
già da fanciulli, dovevano memorizzare. È effettivamente
legittimo chiedersi non solo come essi potessero
‘immagazzinare’ un così alto numero di melodie (in
un monastero benedettino l’esecuzione musicale giornaliera
poteva ammontare fino a sei ore!), ma anche come riuscissero
mnemonicamente a sapere quali melodie cantare. È chiaro che in
questo caso la scrittura avrà avuto un peso determinante, ma
l’autrice tiene a sottolineare che la scrittura non
sostituisce la memoria, ma le dà sostegno. La tecnica della
divisio, consigliata da Quintiliano e applicata da Ugo di
San Vittore all’apprendimento dei salmi, presuppone in ogni
caso una base scritta, sulla quale viene operata una sorta di
segmentazione delle componenti testuali con il fine di facilitare
la comprensione. Utili a questo tipo di metodo didattico, nel quale
memoria e comprensione sembrano essere un tutt’uno, si
rivelano i florilegi medievali. Queste raccolte contengono un
repertorio di estratti testuali funzionali alla trasmissione
mnemonica del sapere, un fine particolarmente evidente nei diversi
criteri dispositivi (per autore, secondo l’alfabeto, per
materia) nonché nelle scelte redazionali adottate (scrittura,
divisione in paragrafi etc.). I tonari, nei quali sono elencate tra
l’altro le antifone da usare per i rispettivi toni salmodici
e nei quali il principio dell’ordine liturgico è
sostituito da quello ‘modale’ (inteso in senso
descrittivo-classificatorio), funzionerebbero per l’autrice
in un modo analogo. La ricerca dell’antifona adatta ad un
certo tono presupporrebbe infatti non solo una conoscenza mnemonica
del repertorio, ma verrebbe effettuata secondo il modello della
divisio. La catalogazione delle melodie viene qui operata
secondo principi che ricordano la segmentazione effettuata nei
florilegi. Le antifone appartenenti allo stesso modo vengono
raggruppate dapprima secondo le diffinitiones (chiamate tra
l’altro anche differentiae), le frasi finali del tono
salmodico (contrassegnate dalle lettere "EUOUAE" da "seculorum
amen") da raccordare all’inizio dell’antifona, e in
seguito secondo criteri che possono variare a seconda dei tonari
(incipit musicale, alfabeto, ordine liturgico). Questa suddivisione
in gruppi e sottogruppi avrebbe facilitato quindi la memorizzazione
delle melodie, presupponendo che il cantore avesse già
memorizzato gli otto modi tramite altri espedienti come le formule
salmodiche, le spiegazioni etimologiche o l’uso di
rappresentazioni grafiche. L’analogia tra tonari e florilegi
è per l’autrice piuttosto evidente: in entrambi i casi
il redattore ‘memorizzerebbe’ estraendo e organizzando
il materiale da mettere per iscritto, mentre il lettore
‘manterrebbe’ nella sua memoria una melodia già
conosciuta. Sulla base di questo confronto l’autrice si
riallaccia alle teorie di Jack Goody, secondo il quale la scrittura
non sostituirebbe la memoria ma creerebbe un nuovo tipo di
memorizzazione analitica finalizzata alla riproduzione esatta.
Sulla base di un’ipotesi piuttosto audace di Kenneth Levy,
secondo il quale già intorno all’800 d.C. vi sarebbe
stata un’‘edizione’ neumatica del canto
liturgico, l’autrice si chiede poi se i tonari non siano da
considerarsi come una diretta conseguenza dell’invenzione
della scrittura musicale, una rivoluzione tecnologica che avrebbe
permesso un approccio analitico alle melodie liturgiche
paragonabile alla divisio dei testi verbali.
Nel capitolo 3 "Basic Theory Treatises" vengono
riassunti gli espedienti mnemonici contenuti nella tradizione della
teoria di base: la mano guidoniana, che l’autrice mette in
relazione alle metafore ‘spaziali’ consigliate in molti
scritti medievali per imparare i testi a memoria, le melodie e i
versi concepiti per imparare le nozioni base della teoria musicale,
nonché i trattati in versi e le realizzazioni grafiche usate
per esemplificare questioni complesse come la notazione
mensurale.
Il capitolo 4 "The memorization of Organum, Discount
and Counterpoint Treatises" si pone in linea con le indagini
musicologiche degli ultimi decenni che, con buona pace del
‘Werkcharakter’ che ha ossessionato la musicologica
germanofona, hanno sempre messo più in evidenza
un’intensa prassi della polifonia ‘alla mente’
accanto alla realizzazione scritta. Anche qui l’autrice opera
un’analogia con altre discipline e prende come riferimento
l’insegnamento della grammatica e quello dell’abaco,
entrambi basati non tanto sull’applicazione di regole
astratte, ma sull’apprendimento mnemonico di una serie di
casi concreti singoli. Questo tipo di metodo si riflette in una
spiccata tendenza alla ridondanza: i diversi problemi esposti in
questi scritti non sono altro che variazioni dello stesso nucleo
logico-formale. Ed in effetti, molti trattati di polifonia mostrano
un’analoga tendenza all’accumulo di esempi
‘pratici’ che indicherebbe un apprendimento mnemonico
(talvolta viene dato anche apertamente il consiglio di conservare
il testo scritto "in arca pectoris"). Il trattato
d’organum vaticano, copiato nella prima metà del
sec. XIII ne è un tipico esempio. Dopo una spiegazione sulle
consonanze e le dissonanze vengono elencate qui 31 regole che
contengono 343 ornamentazioni melismatiche del duplum su un
tenor di due suoni. Gli esempi vengono raggruppati a seconda
del movimento melodico del tenor (sul movimento melodico
"do-re" il lettore può ad esempio scegliere tra tredici
melismi diversi). Questo modo di presentare la materia dimostra non
solo che il trattato concepisce l’organum come
ornamentazione di una polifonia ‘nota contro nota’ (in
questo caso di due consonanze), ma che il musicista
dell’epoca imparava tutta una casistica di formule melodiche
che lo mettevano in grado di gestire il duplum tra una
consonanza e l’altra. È significativo che questo tipo di
struttura compositiva si ritrovi, anche se in notazione modale, nel
cosiddetto repertorio di Notre-Dame, ma è ancora più
significativo, come sottolinea la Busse Berger, che a
quest’ultimo, soprattutto sulla base dell’autorità
storica di Leonino e Perotino, sia stato attribuito dagli studiosi
un forte statuto di ‘opera d’arte’. In
realtà un giudizio spassionato, come quello dello studioso S.
Immel, permette però di vedere nel trattato
d’organum vaticano una sorta di grammatica della
polifonia di Notre-Dame. L’autrice confuta l’idea di
Immel che il trattato riguardi esclusivamente la composizione
scritta, e vi vede invece l’equivalente delle grammatiche
medievali, le quali fornivano una serie di combinazioni verbali da
imparare a memoria ("The Vatican treatise only makes sense as a
text that is meant to be memorized", p. 127) e da mettere in
pratica sia nella polifonia estemporanea che in quella scritta. Per
quest’ipotesi l’autrice cerca il sostegno di
antropologi e studiosi di letteratura come M. Parry e A. Loyd, i
quali sono del parere che l’uso ripetitivo di formule sia
caratteristico della trasmissione orale. E come W. Ong sostiene che
le culture agli albori della scrittura tendono a pensare come le
culture orali, la Busse Berger riscontra una tendenza analoga nella
prassi polifonica dell’organum, una cultura che, pur
scritta, mantiene alto il ruolo della memoria e ne conserva il
carattere formulare.
Nel caso dei trattati di contrappunto l’autrice
riscontra non solo dirette testimonianze dell’apprendimento
mnemonico fino al primo Cinquecento, ma interpreta in questo senso
anche numerosi espedienti pedagogici dei trattati, come ad esempio
le ridondanti liste di consonanze e le combinazioni intervallari
che si trovano fino al Cinquecento. Tipiche in questo senso
sarebbero sia la cosiddetta ‘regola del grado’,
trattata da alcuni scritti del Tre- Quattrocento, con la quale era
possibile memorizzare le combinazioni intervallari senza notazione
e con l’ausilio della mano guidoniana, sia le numerose regole
del contrappunto di Ugolino d’Orvieto e di Johannes
Tinctoris. Anche qui le combinazioni intervallari vengono
esemplificate non in maniera generale, presupponendo
l’applicazione caso per caso da parte del lettore, ma
elencando con esempi musicali tutte le possibilità
realizzabili nel sistema musicale, cosa che notoriamente rende una
lettura ‘moderna’ di questi testi piuttosto
estenuante.
L’autrice riscontra in ogni caso due tendenze
diverse nell’apprendimento del contrappunto tra Quattro e
Cinquecento: da una parte l’approccio pedagogico nel quale
l’apprendimento concreto delle diverse progressioni
intervallari precede la generalizzazione delle regole sulle
consonanze e le dissonanze, dall’altra quello, evidente in
molti dei trattati privi di esempi musicali, dove si presuppone
l’apprendimento mnemonico delle regole sulle consonanze e le
dissonanze prima dell’applicazione concreta. In ogni caso la
memorizzazione delle combinazioni intervallari sarebbe secondo
l’autrice simile a quella delle tavole dell’abaco. Non
diversamente dai calcoli matematici effettuati dai mercanti sulla
base dell’abaco, i musicisti avrebbero immagazzinato un
enorme repertorio di soluzioni musicali da usare concretamente
nella prassi polifonica. Per quest’ipotesi l’autrice
cerca un sostegno nelle ultime ricerche della scienza
neurologica:
"Psychologists have thus found confirmation for
something that was known to specialists of the art of memory since
Antiquity: proper training and memorization, especially if done at
an early age, allows one to become an expert who can work out
complex calculations and planning in the mind. Thus, musicians
could store chant, consonance tables, and interval progressions in
their long-term memory just as a mathematician would store tables
of multiplication, roots, squares, and cubes." (p. 151)
Prima di accingersi ad affrontare nella seconda parte
l’influsso della memoria musicale sulla prassi compositiva
scritta, l’autrice discute l’aspetto specifico del
contrappunto diminutus. Un’indagine dei trattati di Petrus
dictus Palma Ociosa e di Tinctoris porta alla conclusione che in
questo campo gli esempi musicali, a differenza delle progressioni
intervallari ‘nota contro nota’ non erano
funzionalizzati all’apprendimento mnemonico, ma erano (come
ad esempio nel caso di Tinctoris) presi dalla prassi
‘scritta’. In un certo senso il contrapunctus
diminutus sembra rappresentare il passaggio a quel tipo di
composizione individuale che fornisce la base di una teoria del
contrappunto in senso più moderno. Così, mentre il
repertorio di Notre-Dame sarebbe basato sulla rielaborazione di
progressioni intervallari e formule melismatiche apprese a memoria
e porterebbe quindi ancora le tracce di una cultura orale, il
repertorio polifonico del Quattrocento rappresenterebbe una prassi
compositiva la cui artificialità non sarebbe stata possibile
senza l’invenzione della scrittura (p. 157).
Nel primo capitolo della seconda parte
("Compositional Process and the Transformation of Notre-Dame
Polyphony") l’autrice si riallaccia al prologo e cerca di
ripulire la visione del repertorio di Notre-Dame dalla prospettiva
romantica di Ludwig. Sostenuta dalle ricerche di C. Wright e R.
Baltzer, l’autrice sottolinea l’assenza o quantomeno la
poca rilevanza della scrittura nella formazione di questo
repertorio. Confrontando l’organum Operibus sanctis
con le combinazioni intervallari e le formule melismatiche
presentate dal già citato trattato d’organum
vaticano, l’autrice conferma la sua idea di
‘composizione mnemonica’ basata
sull’assemblamento variato di combinazioni polifoniche
apprese a mente. In questo senso l’idea
dell’organum di Notre-Dame come ‘svolta’
storica nella prassi polifonica medievale, un’idea
soprattutto sostenuta da Ludwig ma ancora oggi dilagante in ogni
storia della musica, viene messa seriamente in questione. Uno
sguardo alla prassi del discanto permette all’autrice di
formulare una delle ipotesi più forti del libro, e cioè
l’idea che la notazione modale abbia assolto una funzione
essenzialmente mnemonica. Diversi sono gli indizi che ella prende a
sostegno di quest’idea, ma fondamentale rimane il fatto che
tale tipo di notazione, nel quale non la singola nota, ma la
combinazione di ligature segnala il modo come formula ritmica
fondamentale, sia stato usato dagli scribi anche quando i teorici
già parlavano di sistemi notazionali più chiari, nei
quali la nota singola era portatrice di un valore ritmico autonomo.
È proprio la poca flessibilità del ritmo modale, basato
su formule fisse e non sulla libera combinazione di diversi valori,
a renderlo ideale per l’apprendimento mnemonico delle
melodie, secondo un principio non molto diverso dalla metrica
quantitativa. Suggestivo appare in questo senso il paragone che
l’autrice fa tra organum e prosimetrum. Come
quest’ultimo sarebbe basato sull’alternanza di prosa e
versi, così l’organum sarebbe costituito da parti
libere (l’organum purum) e parti costruite secondo
modelli ritmici (le sezioni in discanto scritte in notazione
modale). In questo senso anche la struttura fraseologica degli
ordines avrebbe contribuito, non diversamente dal
procedimento letterario della divisio, ad agevolare quel
processo di archiviazione mentale proprio del musicista. Tirando le
somme, l’autrice conferma la sua idea di una notazione modale
non necessariamente funzionale all’esecuzione diretta, ma
pensata da una parte come modo di preservazione scritta del
repertorio polifonico, dall’altra come sostegno per la
memoria.
Nell’ultimo capitolo viene affrontata la
questione della memoria visiva e del suo impatto sulla composizione
messa per iscritto. Sempre in linea con il suo discorso
interdisciplinare l’autrice si rifà all’idea del
"chunking" della psicologia cognitiva, un termine con il quale
viene definito il processo di apprendimento mnemonico attraverso la
combinazione e/o il raggruppamento di unità percettive.
Presupponendo il fatto che la notazione sul rigo abbia agevolato la
memorizzazione e che la polifonia medievale, anche quella più
complessa, fosse cantata a memoria, l’autrice trova nelle
ricerche più recenti (soprattutto Leech-Wilkinson e Owens) un
appoggio per sottolineare l’importanza
dell’organizzazione visivo-mentale nel processo compositivo
tra Tre e Cinquecento, un fenomeno particolarmente evidente nei
trattati di sight e faburden. Ma l’ipotesi (e
in fondo anche la tesi) di fondo è qui ancora più ardita:
infatti, sulla base di numerose fonti che tematizzano il processo
di composizione ‘a mente’ di testi letterari, la Busse
Berger non esclude che anche processi compositivi complessi come
quello del mottetto isoritmico fossero basati sulla memoria. Questo
presuppone un uso combinato di scrittura e memoria che
contraddirebbe in pieno l’assunto di Rob Wegman, secondo il
quale la scrittura avrebbe avuto poca o nessuna rilevanza
nell’apprendimento del contrappunto. L’autrice traccia
un paragone piuttosto suggestivo tra la memorizzazione di strutture
spaziali nel processo di composizione letteraria e l’uso
della memoria nei trattati di contrappunto del Due- Trecento e
mostra soprattutto come nell’esposizione delle regole del
contrappunto a più di due voci sia evidente una concezione
verticale del tessuto polifonico basato – tra l’altro a
causa del mancato allineamento dei suoni – sulla
memorizzazione delle concordanze. Non è un caso che, come
l’autrice osserva argutamente, i trattati musicali usino
spesso verbi come "respicere" o "imaginare", che in molti scritti
non musicali del periodo si riferiscono alla visualizzazione
mnemonica. Inoltre, teorici come Johannes Boen e Egidio de Murino
indicherebbero in maniera piuttosto chiara che la divisione in
colores e taleae del mottetto isoritmico funzionava
come una sorta di divisio compositiva. Alcuni mottetti
analizzati dall’autrice, come per es. Douce playsence
/ Garison selon nature / Neuma quinti toni,
dimostrerebbero come l’uso di strutture regolari,
riscontrabili anche nella distribuzione delle rime nel testo
letterario, avrebbero la funzione di regolare e agevolare la
creazione e l’apprendimento di strutture musicali
complesse.
Medieval Music and the Art of Memory offre
tutt’altro che uno studio documentario. Chi si aspetta da un
libro del genere esclusivamente informazioni inedite ne stia alla
larga, ma chi vi cerca uno stimolo intellettuale di stampo
interdisciplinare vi troverà sicuramente una delle più
interessanti riletture storico-musicali degli ultimi anni. Certo,
in una cultura musicologica superinformatizzata e ancora aggrappata
a categorie moderniste, l’idea di una prassi musicale basata
su processi talmente immateriali e misteriosi come quelli della
memoria, rischia di trovare non poca opposizione. E i detrattori
(soprattutto quelli che non riescono vedere la notazione modale
‘scadere’ a mero ausilio mnemonico) non avranno
difficoltà a ribattere, giacché molte delle
interpretazioni dell’autrice si basano su supposizioni e
analogie con la teoria letteraria e non sono sempre facili da
dimostrare in maniera inequivocabile (le differenze tra i diversi
ambiti non sono di poco conto: alla memoria letteraria manca per
esempio la dimensione ‘polifonica’ specifica della
memoria musicale, nella quale sono tuttavia assenti gli appigli
semantici di un testo verbale).
Il punto forte del libro sta però non tanto
nell’erigere la ‘memoria’ a principio assoluto,
quanto nel metterla in rapporto dialettico con la scrittura, e in
questo senso offre numerosissimi punti di discussione, aprendo non
poche prospettive per gli studi sulla musica dell’età
Moderna.
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