Recensione di Michele Calella :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Recensione a cura di Michele Calella

 

 

ANNA MARIA BUSSE BERGER, Medieval Music and the Art of Memory, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2005, 304 pp.

 

 

Un titolo poco appariscente quello dell’ultimo libro di Anna Maria Busse Berger, studiosa tedesca formatasi prevalentemente negli Stati Uniti, dove attualmente insegna alla University of California, Davis, e già nota al mondo musicologico per il suo intelligente studio Mensuration and Proportion Signs, uscito nel 1993 per la Clarendon Press. Medieval Music and the Art of Memory rischia però di scardinare molte delle nozioni date generalmente per scontate nell’approccio con il repertorio polifonico medievale. Benché la maggior parte degli studiosi sia cosciente del fatto che la musicologia sia sempre un po’ arretrata rispetto ad altre discipline, le incrostazioni romantiche presenti ancora oggi in molte ricerche sulla musica medievale si rivelano effettivamente difficili da eliminare. Basti pensare alla monografia su Perotino pubblicata da Rudolf Flotzinger nel 2000 dove il nome "Perotinus" menzionato dall’anonimo IV è diventato oggetto di un’agiografia di stampo positivista, corredata di tanto di biografia, analisi delle opere e apprezzamenti sullo "stile individuale" che non stonerebbero per nulla in uno studio su Beethoven o Brahms. Che Flotzinger abbia pubblicato nel 2003 anche una monografia su Leonino la dice poi tutta.

All’idea di un autore medievale che trasmette la sua intenzione direttamente alla scrittura, un’immagine che in altre discipline è già stata messa in questione da un paio di decenni, credono oggi in effetti non pochi studiosi di musica medievale, prevalentemente quelli che si mostrano particolarmente solleciti a legittimare il loro repertorio sulla base dei princìpi estetici maturati tra Otto e Novecento, per poi dimostrare che ‘già a quell’epoca’ si componevano "opere d’arte". Chiaramente molti esperti di gregoriano hanno abbandonato quest’idea da un bel pezzo, e a dimostrarlo basti pensare che qui la disputa si è svolta negli ultimi anni tra i sostenitori della "memorizzazione" (Levy) e quelli dell’"improvvisazione" (Treitler); ma in ambito polifonico, soprattutto a partire dalla cosiddetta ‘scuola di Notre-Dame’, l’idea della nascita del compositore e dell’opera d’arte musicale in senso moderno rimane un topos storiografico visto sì con una certa diffidenza, ma non sempre facile da sradicare.

L’idea alla base del libro della Busse Berger è che l’invenzione della scrittura, pur avendo portato ad un cambiamento nelle modalità di trasmissione, non abbia però causato la sparizione di quelle tecniche mnemoniche che costituiscono la base della cultura premoderna. Il libro tenta in un certo senso di riscrivere la storia della musica medievale da una nuova prospettiva, forte soprattutto degli studi effettuati in ambito anglosassone negli anni Ottanta e Novanta da Jack Goody, Mary Carruthers e altri autori. Dal primo l’autrice assume l’idea di una cultura che non si trasforma da orale a scritta, ma mantiene l’oralità, ovviamente praticata su basi diverse, anche con il sopravvento della scrittura; dalla seconda invece l’idea della diffusione della scrittura come sintomo di un incremento dei processi di memorizzazione: l’atto di scrivere diventa quindi funzionale a quell’"archivio della memoria" che viene utilizzato come una sorta di riserva mentale nel processo di composizione testuale.

Prima di applicare questa nuova prospettiva alla cultura musicale del Medioevo l’autrice decide di operare una revisione della tradizionale prospettiva "romantico-positivista" ancora oggi dilagante, usando l’approccio metastorico. Il prologo "The First Great Dead White Male Composer" (un titolo che ammicca furbamente ai gender e race studies) analizza con grande intuito la visione storiografica della polifonia medievale di Friedrich Ludwig, uno dei grandi pionieri della medievistica musicologica. Grazie ad un’intelligente indagine di biografia e scritti, l’autrice rintraccia le radici della visione di Ludwig nella scia lasciata dal revival palestriniano ottocentesco, ricostruendo una ‘genealogia’ di maestri e allievi che da Eduard Grell, direttore della Berliner Singakademie, passa per Bellerman per poi arrivare a Jacobsthal, professore di Ludwig a Berlino. È l’assunzione del modello palestriniano su una griglia metodologica di stampo positivista a creare quell’approccio evoluzionista caratteristico di Ludwig, un autore d’altronde talmente interessato alla ricostruzione ‘obiettiva’ da non considerare minimamente l’inadeguatezza dei suoi assunti estetici. Così l’aumento di voci dell’organum diventa a suo dire il segno di uno stile ‘tardo’ e Leonino e Perotino assurgono, in qualità di ‘individui’, al rango di autori originali. Si possono intuire subito le conseguenze metodologiche nell’approccio di Ludwig con le fonti: messosi alla ricerca dell’intenzione originale di Perotino, egli ne ricostruisce non solo un corpus di opere ‘autentiche’ ma gli attribuisce anche altre composizioni non citate dall’anonimo IV sulla base di un presunto stile personale.

Che Ludwig non sia da giustificare come ‘specchio dei tempi’ viene dimostrato dall’autrice sulla base di un confronto con la biografia di Jacques Handschin, la cui formazione musicologica fu meno istituzionalizzata (ebbe all’inizio una carriera come organista e seguì solo alcune lezioni da Riemann e Hornbostel). Forse grazie all’influsso degli studi etnomusicologici con Hornbostel, Handschin matura una concezione storiografica molto diversa da quella di Ludwig, rifiutando ogni visione evoluzionistica. In questo senso non meraviglia che egli si sia mostrato molto restìo a considerare il numero di voci degli organa in senso progressivo-cronologico, ad applicare il ritmo modale alle melodie dei trovatori e al conductus, e soprattutto a vedere nella scrittura e nella notazione i presupposti per una musica ‘colta’. Considerando però il monumentale output scientifico di Ludwig si capisce come questi abbia esercitato un influsso duraturo fino ad oggi. Prendendo come esempio l’analisi di un conductus pubblicata da Wulf Arlt in un volume dedicato a Perotino nel 2000, dove prevale una concezione del "Komponieren" di stampo fortemente ottocentesco, la Busse Berger mostra in maniera inequivocabile la persistenza della lezione di Ludwig anche laddove la conoscenza delle fonti avrebbe dovuto portare ad una visione storicamente più adeguata (devo comunque aggiungere che la severità della Busse Berger nei confronti di Jürg Stenzl, che nella sua introduzione allo stesso volume del 2000 pecca forse ‘di omissione’ nei confronti di Ludwig, mi sembra un po’ eccessiva).

La prima parte del corpo centrale del libro, "The construction of the Memorial Archive", analizza tre tipi di testi ‘musicali’ della cultura medievale: i tonari, i trattati elementari di teoria e gli scritti che trasmettono le regole per l’organum, il discanto e il contrappunto (questi due termini vengono utilizzati dall’autrice come sinonimi).

La tesi di fondo è già annunciata all’inizio:

It is a common belief that once something can be written down accurately, singers no longer need to be burdened with the cumbersome process of memorization; they can sing directly from notation. My hypothesis will be exactly the opposite: the ability to write something down, to visualize it, allowed for exact memorization and opened up new ways of committing material to memory. Throughout my book my argument will be that musical notation, like writing, does not replace performance from memory, but, on the contrary, may be used to aid it. (p. 45)
 

Per i tonari l’autrice prende in considerazione l’enorme repertorio di melodie liturgiche che i chierici, già da fanciulli, dovevano memorizzare. È effettivamente legittimo chiedersi non solo come essi potessero ‘immagazzinare’ un così alto numero di melodie (in un monastero benedettino l’esecuzione musicale giornaliera poteva ammontare fino a sei ore!), ma anche come riuscissero mnemonicamente a sapere quali melodie cantare. È chiaro che in questo caso la scrittura avrà avuto un peso determinante, ma l’autrice tiene a sottolineare che la scrittura non sostituisce la memoria, ma le dà sostegno. La tecnica della divisio, consigliata da Quintiliano e applicata da Ugo di San Vittore all’apprendimento dei salmi, presuppone in ogni caso una base scritta, sulla quale viene operata una sorta di segmentazione delle componenti testuali con il fine di facilitare la comprensione. Utili a questo tipo di metodo didattico, nel quale memoria e comprensione sembrano essere un tutt’uno, si rivelano i florilegi medievali. Queste raccolte contengono un repertorio di estratti testuali funzionali alla trasmissione mnemonica del sapere, un fine particolarmente evidente nei diversi criteri dispositivi (per autore, secondo l’alfabeto, per materia) nonché nelle scelte redazionali adottate (scrittura, divisione in paragrafi etc.). I tonari, nei quali sono elencate tra l’altro le antifone da usare per i rispettivi toni salmodici e nei quali il principio dell’ordine liturgico è sostituito da quello ‘modale’ (inteso in senso descrittivo-classificatorio), funzionerebbero per l’autrice in un modo analogo. La ricerca dell’antifona adatta ad un certo tono presupporrebbe infatti non solo una conoscenza mnemonica del repertorio, ma verrebbe effettuata secondo il modello della divisio. La catalogazione delle melodie viene qui operata secondo principi che ricordano la segmentazione effettuata nei florilegi. Le antifone appartenenti allo stesso modo vengono raggruppate dapprima secondo le diffinitiones (chiamate tra l’altro anche differentiae), le frasi finali del tono salmodico (contrassegnate dalle lettere "EUOUAE" da "seculorum amen") da raccordare all’inizio dell’antifona, e in seguito secondo criteri che possono variare a seconda dei tonari (incipit musicale, alfabeto, ordine liturgico). Questa suddivisione in gruppi e sottogruppi avrebbe facilitato quindi la memorizzazione delle melodie, presupponendo che il cantore avesse già memorizzato gli otto modi tramite altri espedienti come le formule salmodiche, le spiegazioni etimologiche o l’uso di rappresentazioni grafiche. L’analogia tra tonari e florilegi è per l’autrice piuttosto evidente: in entrambi i casi il redattore ‘memorizzerebbe’ estraendo e organizzando il materiale da mettere per iscritto, mentre il lettore ‘manterrebbe’ nella sua memoria una melodia già conosciuta. Sulla base di questo confronto l’autrice si riallaccia alle teorie di Jack Goody, secondo il quale la scrittura non sostituirebbe la memoria ma creerebbe un nuovo tipo di memorizzazione analitica finalizzata alla riproduzione esatta. Sulla base di un’ipotesi piuttosto audace di Kenneth Levy, secondo il quale già intorno all’800 d.C. vi sarebbe stata un’‘edizione’ neumatica del canto liturgico, l’autrice si chiede poi se i tonari non siano da considerarsi come una diretta conseguenza dell’invenzione della scrittura musicale, una rivoluzione tecnologica che avrebbe permesso un approccio analitico alle melodie liturgiche paragonabile alla divisio dei testi verbali.

Nel capitolo 3 "Basic Theory Treatises" vengono riassunti gli espedienti mnemonici contenuti nella tradizione della teoria di base: la mano guidoniana, che l’autrice mette in relazione alle metafore ‘spaziali’ consigliate in molti scritti medievali per imparare i testi a memoria, le melodie e i versi concepiti per imparare le nozioni base della teoria musicale, nonché i trattati in versi e le realizzazioni grafiche usate per esemplificare questioni complesse come la notazione mensurale.

Il capitolo 4 "The memorization of Organum, Discount and Counterpoint Treatises" si pone in linea con le indagini musicologiche degli ultimi decenni che, con buona pace del ‘Werkcharakter’ che ha ossessionato la musicologica germanofona, hanno sempre messo più in evidenza un’intensa prassi della polifonia ‘alla mente’ accanto alla realizzazione scritta. Anche qui l’autrice opera un’analogia con altre discipline e prende come riferimento l’insegnamento della grammatica e quello dell’abaco, entrambi basati non tanto sull’applicazione di regole astratte, ma sull’apprendimento mnemonico di una serie di casi concreti singoli. Questo tipo di metodo si riflette in una spiccata tendenza alla ridondanza: i diversi problemi esposti in questi scritti non sono altro che variazioni dello stesso nucleo logico-formale. Ed in effetti, molti trattati di polifonia mostrano un’analoga tendenza all’accumulo di esempi ‘pratici’ che indicherebbe un apprendimento mnemonico (talvolta viene dato anche apertamente il consiglio di conservare il testo scritto "in arca pectoris"). Il trattato d’organum vaticano, copiato nella prima metà del sec. XIII ne è un tipico esempio. Dopo una spiegazione sulle consonanze e le dissonanze vengono elencate qui 31 regole che contengono 343 ornamentazioni melismatiche del duplum su un tenor di due suoni. Gli esempi vengono raggruppati a seconda del movimento melodico del tenor (sul movimento melodico "do-re" il lettore può ad esempio scegliere tra tredici melismi diversi). Questo modo di presentare la materia dimostra non solo che il trattato concepisce l’organum come ornamentazione di una polifonia ‘nota contro nota’ (in questo caso di due consonanze), ma che il musicista dell’epoca imparava tutta una casistica di formule melodiche che lo mettevano in grado di gestire il duplum tra una consonanza e l’altra. È significativo che questo tipo di struttura compositiva si ritrovi, anche se in notazione modale, nel cosiddetto repertorio di Notre-Dame, ma è ancora più significativo, come sottolinea la Busse Berger, che a quest’ultimo, soprattutto sulla base dell’autorità storica di Leonino e Perotino, sia stato attribuito dagli studiosi un forte statuto di ‘opera d’arte’. In realtà un giudizio spassionato, come quello dello studioso S. Immel, permette però di vedere nel trattato d’organum vaticano una sorta di grammatica della polifonia di Notre-Dame. L’autrice confuta l’idea di Immel che il trattato riguardi esclusivamente la composizione scritta, e vi vede invece l’equivalente delle grammatiche medievali, le quali fornivano una serie di combinazioni verbali da imparare a memoria ("The Vatican treatise only makes sense as a text that is meant to be memorized", p. 127) e da mettere in pratica sia nella polifonia estemporanea che in quella scritta. Per quest’ipotesi l’autrice cerca il sostegno di antropologi e studiosi di letteratura come M. Parry e A. Loyd, i quali sono del parere che l’uso ripetitivo di formule sia caratteristico della trasmissione orale. E come W. Ong sostiene che le culture agli albori della scrittura tendono a pensare come le culture orali, la Busse Berger riscontra una tendenza analoga nella prassi polifonica dell’organum, una cultura che, pur scritta, mantiene alto il ruolo della memoria e ne conserva il carattere formulare.

Nel caso dei trattati di contrappunto l’autrice riscontra non solo dirette testimonianze dell’apprendimento mnemonico fino al primo Cinquecento, ma interpreta in questo senso anche numerosi espedienti pedagogici dei trattati, come ad esempio le ridondanti liste di consonanze e le combinazioni intervallari che si trovano fino al Cinquecento. Tipiche in questo senso sarebbero sia la cosiddetta ‘regola del grado’, trattata da alcuni scritti del Tre- Quattrocento, con la quale era possibile memorizzare le combinazioni intervallari senza notazione e con l’ausilio della mano guidoniana, sia le numerose regole del contrappunto di Ugolino d’Orvieto e di Johannes Tinctoris. Anche qui le combinazioni intervallari vengono esemplificate non in maniera generale, presupponendo l’applicazione caso per caso da parte del lettore, ma elencando con esempi musicali tutte le possibilità realizzabili nel sistema musicale, cosa che notoriamente rende una lettura ‘moderna’ di questi testi piuttosto estenuante.

L’autrice riscontra in ogni caso due tendenze diverse nell’apprendimento del contrappunto tra Quattro e Cinquecento: da una parte l’approccio pedagogico nel quale l’apprendimento concreto delle diverse progressioni intervallari precede la generalizzazione delle regole sulle consonanze e le dissonanze, dall’altra quello, evidente in molti dei trattati privi di esempi musicali, dove si presuppone l’apprendimento mnemonico delle regole sulle consonanze e le dissonanze prima dell’applicazione concreta. In ogni caso la memorizzazione delle combinazioni intervallari sarebbe secondo l’autrice simile a quella delle tavole dell’abaco. Non diversamente dai calcoli matematici effettuati dai mercanti sulla base dell’abaco, i musicisti avrebbero immagazzinato un enorme repertorio di soluzioni musicali da usare concretamente nella prassi polifonica. Per quest’ipotesi l’autrice cerca un sostegno nelle ultime ricerche della scienza neurologica:

"Psychologists have thus found confirmation for something that was known to specialists of the art of memory since Antiquity: proper training and memorization, especially if done at an early age, allows one to become an expert who can work out complex calculations and planning in the mind. Thus, musicians could store chant, consonance tables, and interval progressions in their long-term memory just as a mathematician would store tables of multiplication, roots, squares, and cubes." (p. 151)
 

Prima di accingersi ad affrontare nella seconda parte l’influsso della memoria musicale sulla prassi compositiva scritta, l’autrice discute l’aspetto specifico del contrappunto diminutus. Un’indagine dei trattati di Petrus dictus Palma Ociosa e di Tinctoris porta alla conclusione che in questo campo gli esempi musicali, a differenza delle progressioni intervallari ‘nota contro nota’ non erano funzionalizzati all’apprendimento mnemonico, ma erano (come ad esempio nel caso di Tinctoris) presi dalla prassi ‘scritta’. In un certo senso il contrapunctus diminutus sembra rappresentare il passaggio a quel tipo di composizione individuale che fornisce la base di una teoria del contrappunto in senso più moderno. Così, mentre il repertorio di Notre-Dame sarebbe basato sulla rielaborazione di progressioni intervallari e formule melismatiche apprese a memoria e porterebbe quindi ancora le tracce di una cultura orale, il repertorio polifonico del Quattrocento rappresenterebbe una prassi compositiva la cui artificialità non sarebbe stata possibile senza l’invenzione della scrittura (p. 157).

Nel primo capitolo della seconda parte ("Compositional Process and the Transformation of Notre-Dame Polyphony") l’autrice si riallaccia al prologo e cerca di ripulire la visione del repertorio di Notre-Dame dalla prospettiva romantica di Ludwig. Sostenuta dalle ricerche di C. Wright e R. Baltzer, l’autrice sottolinea l’assenza o quantomeno la poca rilevanza della scrittura nella formazione di questo repertorio. Confrontando l’organum Operibus sanctis con le combinazioni intervallari e le formule melismatiche presentate dal già citato trattato d’organum vaticano, l’autrice conferma la sua idea di ‘composizione mnemonica’ basata sull’assemblamento variato di combinazioni polifoniche apprese a mente. In questo senso l’idea dell’organum di Notre-Dame come ‘svolta’ storica nella prassi polifonica medievale, un’idea soprattutto sostenuta da Ludwig ma ancora oggi dilagante in ogni storia della musica, viene messa seriamente in questione. Uno sguardo alla prassi del discanto permette all’autrice di formulare una delle ipotesi più forti del libro, e cioè l’idea che la notazione modale abbia assolto una funzione essenzialmente mnemonica. Diversi sono gli indizi che ella prende a sostegno di quest’idea, ma fondamentale rimane il fatto che tale tipo di notazione, nel quale non la singola nota, ma la combinazione di ligature segnala il modo come formula ritmica fondamentale, sia stato usato dagli scribi anche quando i teorici già parlavano di sistemi notazionali più chiari, nei quali la nota singola era portatrice di un valore ritmico autonomo. È proprio la poca flessibilità del ritmo modale, basato su formule fisse e non sulla libera combinazione di diversi valori, a renderlo ideale per l’apprendimento mnemonico delle melodie, secondo un principio non molto diverso dalla metrica quantitativa. Suggestivo appare in questo senso il paragone che l’autrice fa tra organum e prosimetrum. Come quest’ultimo sarebbe basato sull’alternanza di prosa e versi, così l’organum sarebbe costituito da parti libere (l’organum purum) e parti costruite secondo modelli ritmici (le sezioni in discanto scritte in notazione modale). In questo senso anche la struttura fraseologica degli ordines avrebbe contribuito, non diversamente dal procedimento letterario della divisio, ad agevolare quel processo di archiviazione mentale proprio del musicista. Tirando le somme, l’autrice conferma la sua idea di una notazione modale non necessariamente funzionale all’esecuzione diretta, ma pensata da una parte come modo di preservazione scritta del repertorio polifonico, dall’altra come sostegno per la memoria.

Nell’ultimo capitolo viene affrontata la questione della memoria visiva e del suo impatto sulla composizione messa per iscritto. Sempre in linea con il suo discorso interdisciplinare l’autrice si rifà all’idea del "chunking" della psicologia cognitiva, un termine con il quale viene definito il processo di apprendimento mnemonico attraverso la combinazione e/o il raggruppamento di unità percettive. Presupponendo il fatto che la notazione sul rigo abbia agevolato la memorizzazione e che la polifonia medievale, anche quella più complessa, fosse cantata a memoria, l’autrice trova nelle ricerche più recenti (soprattutto Leech-Wilkinson e Owens) un appoggio per sottolineare l’importanza dell’organizzazione visivo-mentale nel processo compositivo tra Tre e Cinquecento, un fenomeno particolarmente evidente nei trattati di sight e faburden. Ma l’ipotesi (e in fondo anche la tesi) di fondo è qui ancora più ardita: infatti, sulla base di numerose fonti che tematizzano il processo di composizione ‘a mente’ di testi letterari, la Busse Berger non esclude che anche processi compositivi complessi come quello del mottetto isoritmico fossero basati sulla memoria. Questo presuppone un uso combinato di scrittura e memoria che contraddirebbe in pieno l’assunto di Rob Wegman, secondo il quale la scrittura avrebbe avuto poca o nessuna rilevanza nell’apprendimento del contrappunto. L’autrice traccia un paragone piuttosto suggestivo tra la memorizzazione di strutture spaziali nel processo di composizione letteraria e l’uso della memoria nei trattati di contrappunto del Due- Trecento e mostra soprattutto come nell’esposizione delle regole del contrappunto a più di due voci sia evidente una concezione verticale del tessuto polifonico basato – tra l’altro a causa del mancato allineamento dei suoni – sulla memorizzazione delle concordanze. Non è un caso che, come l’autrice osserva argutamente, i trattati musicali usino spesso verbi come "respicere" o "imaginare", che in molti scritti non musicali del periodo si riferiscono alla visualizzazione mnemonica. Inoltre, teorici come Johannes Boen e Egidio de Murino indicherebbero in maniera piuttosto chiara che la divisione in colores e taleae del mottetto isoritmico funzionava come una sorta di divisio compositiva. Alcuni mottetti analizzati dall’autrice, come per es. Douce playsence / Garison selon nature / Neuma quinti toni, dimostrerebbero come l’uso di strutture regolari, riscontrabili anche nella distribuzione delle rime nel testo letterario, avrebbero la funzione di regolare e agevolare la creazione e l’apprendimento di strutture musicali complesse.

Medieval Music and the Art of Memory offre tutt’altro che uno studio documentario. Chi si aspetta da un libro del genere esclusivamente informazioni inedite ne stia alla larga, ma chi vi cerca uno stimolo intellettuale di stampo interdisciplinare vi troverà sicuramente una delle più interessanti riletture storico-musicali degli ultimi anni. Certo, in una cultura musicologica superinformatizzata e ancora aggrappata a categorie moderniste, l’idea di una prassi musicale basata su processi talmente immateriali e misteriosi come quelli della memoria, rischia di trovare non poca opposizione. E i detrattori (soprattutto quelli che non riescono vedere la notazione modale ‘scadere’ a mero ausilio mnemonico) non avranno difficoltà a ribattere, giacché molte delle interpretazioni dell’autrice si basano su supposizioni e analogie con la teoria letteraria e non sono sempre facili da dimostrare in maniera inequivocabile (le differenze tra i diversi ambiti non sono di poco conto: alla memoria letteraria manca per esempio la dimensione ‘polifonica’ specifica della memoria musicale, nella quale sono tuttavia assenti gli appigli semantici di un testo verbale).

Il punto forte del libro sta però non tanto nell’erigere la ‘memoria’ a principio assoluto, quanto nel metterla in rapporto dialettico con la scrittura, e in questo senso offre numerosissimi punti di discussione, aprendo non poche prospettive per gli studi sulla musica dell’età Moderna.

 

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[Bio] Michele Calella, diplomato in pianoforte e laureato in Musicologia, si è addottorato presso l’Università di Münster con una tesi sugli ensemble nella tragédie-lyrique. È stato assistente presso le Università di Marburg e di Zurigo. Nel 2004 ha vinto il premio «Hermann Abert» della Gesellschaft für Musikforschung. Dal 2005 è professore ordinario presso la Universität für Musik und Darstellende Kunst di Vienna. Ha scritto numerosi saggi su problemi di storia e di analisi dell’opera del Settecento..

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