ELENA MOSCONI, La nuova vita delle antiche cose: l’opera sullo schermo e il Don Giovanni di Peter Sellars :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

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Contributo di Elena Mosconi

 

La nuova vita delle antiche cose: l’opera sullo schermo e il «Don Giovanni» di Peter Sellars

 

 

Abstract

 

Opera on film and opera on video are terms more and more recurrent in recent debate. In this regard, some scholars have stressed the inter-textual and inter-medial relationship between opera and cinema (or video), whereas others have pointed out the transition of opera from high to middle and low culture. But only a few scholars (Citron, Cook) have asserted the necessity to consider opera on screen as an independent genre with its own characteristics, or a genre that allows a particular kind of aesthetic experience.

If we consider the visionary and postmodern mise en scène of Don Giovanni carried out by director Peter Sellars, we might ask if it has lost its connection with the Mozart well-known opera. Sellars maintains Italian language and original music, but he sets the drama in 20th century’s American Bronx. In doing this, he exasperates the violence and struggle for life of the dramma giocoso, shifting from the original meaning into a new significance that he considers more suitable for modern times. According to Citron, I suggest that it is better to consider Sellars’ work in terms of stratification than of faithfulness. Focusing on the ouverture, it is possible to understand the way Sellars articulates his work.

In a more general sense, are we allowed to speak of re-mediation, convergence or re-location? And do these paradigms – often used in media theory – make us understand the opera’s transition from theatre to new technologies and cultures?

 

Nel dibattito recente ricorrono sempre più spesso i termini di cine-opera, opera sullo schermo o opera in video. A questo proposito, alcuni studiosi hanno messo in luce le relazioni intertestuali o intermediali tra opera e cinema (o video), mentre altri hanno sottolineato come l’opera in video passi dai territori della cultura ‘alta’ a quella bassa e popolare. Solo pochi studiosi (Citron, Cook) hanno sostenuto la necessità di considerare la cine-opera come un genere indipendente con caratteristiche proprie, o come una forma discorsiva che dà luogo a un particolare tipo di esperienza estetica.

Se si prende in esame la messa in scena visionaria e postmoderna del Don Giovanni realizzata da Peter Sellars, si può persino dubitare di essere di fronte alla celebre opera mozartiana. Sellars conserva la lingua italiana e la partitura originale, ma ambienta la vicenda in America, nel Bronx, alla fine del XX secolo. Nel far ciò, esaspera la violenza e la lotta per la vita originariamente contenute nel ‘dramma giocoso’ e riarticola il significato originale dell’opera in una nuova direzione che egli pensa più adatta ai tempi nostri. Nella direzione indicata da Citron, penso sia meglio considerare il lavoro di Sellars in termini di stratificazione piuttosto che di fedeltà. L’analisi dell’ouverture esplicita il modo in cui Sellars opera sul testo.

Ma, a livello più generale, è possibile affrontare il rapporto tra cinema e opera in termini di ri-mediazione, convergenza e ri-locazione? E questi paradigmi, spesso usati nella teoria dei media contemporanea, ci consentono di capire la transizione dell’opera dal teatro a nuovi ambienti tecnologici e culturali?

 

***

1.

Al pari di molte altre esperienze, il modo in cui entriamo in contatto con l’opera lirica è oggi sempre più frequentemente mediato da tecnologie riproduttive, siano esse DVD, trasmissioni televisive su canali tematici a pagamento o brani diffusi dalle piattaforme virtuali come YouTube. Tutti questi supporti, nell’atto stesso di dichiarare (e talvolta esibire) la loro disponibilità verso un pubblico potenziale, offrono in realtà un’esperienza surrogata della performance – intesa come evento che si svolge in un contesto spazio-temporale preciso – o più radicalmente, un’esperienza diversa. Ciò ha spinto gli studiosi, soprattutto in passato, a un cauto disinteresse nei confronti dell’opera riprodotta, avvalorato dalla constatazione dei numerosi deficit che essa presenta. Rispetto al teatro, a quest’ultima manca, oltre al presupposto della compresenza tra cantanti, musicisti e spettatori e dell’unicità della performance, la libertà dello spettatore che, a partire dal proprio punto di vista nella sala, può organizzare autonomamente l’esperienza di visione e di ascolto. Anche la durata dello spettacolo è spesso ridefinita nel passaggio dall’opera al video o al film: non solo perché nel caso di registrazioni video lo spettatore può sovvertire il flusso temporale a suo piacimento (fermandosi a riascoltare un’aria, o saltando dei passaggi), ma anche perché il tipo di supporto tende a condizionare il tempo della rappresentazione: difficilmente un film raggiunge le tre ore, o un palinsesto televisivo prevede spazi così ampi nella programmazione. Tutto ciò fa dell’opera sullo schermo una ‘riduzione’ rispetto a un progetto testuale e artistico considerato più elevato, fedele o completo. Ma anche il film o il video sembrano perdere qualcosa della propria specificità linguistica e libertà creativa nel momento in cui si prestano a fare da cassa di risonanza all’opera. Spesso non basta il ricorso a primi piani, campi-controcampi, soggettive o riprese all’aria aperta a vincere l’idea che lo spettacolo non sia niente più che teatro filmato.

Tuttavia nella pratica didattica, come nelle forme di consumo amatoriale, o più semplicemente nella trasmissione e divulgazione del repertorio, il ruolo svolto dai supporti audiovisivi è sempre maggiore e, in forza di ciò, tale da mobilitare una nuova attenzione anche nella riflessione critica. Prima di considerarne alcuni snodi, va posta una piccola precisazione terminologica. La relazione tra opera e supporti audiovisivi (che a livello generale si può denominare, seguendo Marcia Citron, opera sullo schermo, intendendo una varietà di supporti riproduttivi come il cinema, la televisione e il computer) si articola secondo diverse modalità, a seconda della tecnica di registrazione impiegata e del progetto comunicativo sotteso. Dal punto di vista tecnologico, vi è una differenza tra la ripresa in pellicola e in video: la seconda – come è noto – è la più usata dal momento che consente maggiori economie e agilità, sia in sede di ripresa che di montaggio. Se un tempo la distinzione tra pellicola e video era più marcata, oggi l’avvento del digitale ha reso sempre più intrecciate le forme d’uso dei supporti e la relativa terminologia, per cui si usano indifferentemente i termini di film e video. Dal punto di vista comunicativo, invece, vi può essere la ripresa filmata di un’opera (opera filmata), ossia la registrazione di un progetto registico teatrale; oppure – all’opposto – il film-opera, vale a dire la realizzazione di un film che ha come plot un’opera, dunque un progetto registico esplicitamente concepito per lo schermo, che tende solitamente a dilatare i confini della messa in scena teatrale; una posizione intermedia è rappresentata invece dalle riprese in studio (riprese della messa in scena di un’opera), che tendono a mitigare tanto l’eccessiva teatralità della ripresa filmata quanto l’eccessiva libertà del film-opera. Nella prospettiva che qui interessa, si cercherà di adottare un’ottica complessiva, per mettere a fuoco alcuni problemi di ordine generale.

Gli interventi sul rapporto tra cinema e opera hanno puntato tanto a una mappatura del territorio – ossia a enumerare e classificare le riduzioni cinematografiche di opere, oppure, in senso più vasto i ‘debiti’ contratti dai testi audiovisivi nei confronti della tradizione del melodramma[1] – quanto a una problematizzazione degli elementi strutturali costitutivi dei due linguaggi.[2] Alcune analisi hanno poi preso in considerazione aspetti peculiari del loro rapporto: ad esempio Guglielmo Pescatore si è soffermato, in una prospettiva semiotica, sul rapporto tra voce e corpo; ha poi approfondito la difficoltà del cinema di passare da una dimensione aurale a una corporea e ‘materiale’,[3] mentre in un recente contributo Michel Grover Friedlander[4] ha sottolineato come nel transito dal testo cantato al film riviva l’antico dualismo incarnato da Orfeo tra un canto che è sorgente di arte, di incantamento e di vita, e uno sguardo che – pur aderendo a un desiderio, a una necessità umana profonda – diventa causa ultima di morte. Questo tipo di indagine di carattere estetico-culturale sta offrendo ricerche e studi sempre più numerosi, sulla scia di un contributo comparativistico di Jeremy Tambling[5] che ha rappresentato un punto di partenza e di confronto per una generazione di studiosi. Nell’impossibilità di sintetizzare qui un ricco dibattito, vorrei evidenziarne due direttrici fondamentali: da una parte un problema che fa capo al rapporto tra matrici testuali e forme espressive diverse (intertestualità e intermedialità); dall’altra la questione dell’attraversamento tra spazi culturali eterogenei.

Su quest’ultimo, ambiguo, portato dell’opera come espressione di un’élite culturale, particolarmente per il pubblico americano, è in atto un confronto serrato. Esso ha in primo luogo puntato a sgombrare il campo dal pregiudizio che assegna una presupposta appartenenza dell’opera a un’élite culturale come dato storico di fondo.[6] Al contrario, gli studi di storia culturale hanno voluto evidenziare come l’opera – nata per un pubblico eterogeneo – sia divenuta nel tempo patrimonio di una classe sociale elevata attraverso un processo di creazione consapevole di ambienti, di rituali e di un linguaggio specifici e specialistici, passando da forma di entertainment a veicolo di alta cultura. Più che a trovare una cronologia di questo processo (alcuni lo collocano a metà Ottocento, altri all’inizio del Novecento o addirittura negli anni Trenta) si tende a sottolineare come oggi l’opera goda nuovamente di un favore popolare di cui sono traccia le numerose presenze in film, video e pubblicità. Un consenso che però tende a essere incanalato e mediato dalle élite culturali: da qui un numero cospicuo di guide, manuali, corsi di avvicinamento all’opera, tesi a sottolineare la necessità di coltivare il gusto del pubblico affinché possa fruire di quest’arte anche come semplice divertimento, ma in realtà con il fine di mantenerne inalterato il valore artistico. Il discorso, che a mio parere andrebbe meglio precisato e articolato nelle specifiche situazioni nazionali – per esempio l’Italia, che vanta una differente e ben più diffusa cultura operistica – evidenzia aspetti interessanti anche per il caso che verrà più avanti proposto. Il portato dell’opera come cultura o entertainment non può essere più affrontato nei termini riduttivi secondo cui l’esperienza estetica sarebbe possibile solo nello spazio deputato del teatro, ma andrebbe riformulato tenuto conto delle pratiche sociali di consumo. In altre parole, pur accordando una giusta importanza al luogo e alla tipologia della fruizione, va ricordato che a determinare se sia arte o entertainment vi sono pure il ‘come’ e il ‘chi’ ne fa esperienza. In questo senso, nota Storey, «l’opera è oggi una forma culturale (che si sostanzia di molti, diversi testi e pratiche) al tempo stesso popolare e d’élite».[7]

L’altro approccio, più orientato ai testi, è incentrato sull’intertestualità, coniugata soprattutto come intermedialità, ossia come traduzione intersemiotica tra forme espressive o media diversi. Nel solco di un ricco dibattito teorico – declinatosi con specifica attenzione alla musica e agli audiovisivi[8] a partire da Bachtin, Genette, Kristeva – si tratta di analizzare la vita e le trasformazioni di un testo nel passaggio da una regia a un’altra, o nell’avvicendamento dalla letteratura, all’opera, al cinema, nonché di verificare l’incidenza di un mito, una tradizione culturale in differenti contesti mediali, storici, estetici e sociali.[9]  Questi studi consentono di portare alla luce in primo luogo una continua problematizzazione del testo, delle sue fonti, delle modalità della sua scrittura e interpretazione; insieme, offrono delle chiavi di lettura sulla rappresentazione o sullo statuto del medium in un contesto spazio-temporale preciso. Basti pensare al caso di Carmen, vero e proprio mito non solo della scena, ma pure dello schermo, con le sue numerosissime trasposizioni filmiche censite nel corso del Novecento.[10] L’analisi dei film tratti dall’opera di Bizet porta in luce, insieme al problema delle ‘scritture’ (e riscritture), le vicende della bella gitana aggiornate ai tempi che cambiano (e alle relative questioni che esse mettono in campo come l’alterità, la razza, la sessualità ecc.), un interrogativo circa le condizioni della rappresentazione e il linguaggio del medium stesso in un tempo determinato. In questo senso, nella Carmen della Film D’Art del 1910 è in gioco la ricerca di uno spazio cinematografico che possa essere diverso da quello teatrale, mentre in Carmen Jones di Preminger (1954) è il colore che gioca un ruolo centrale, o ancora nella Carmen di Rosi, Brook e Saura risulta centrale l’estetica autoriale e postmoderna che informa le pellicole.

A un livello più profondo, tuttavia, rimane irrisolto l’interrogativo che riguarda la natura linguistica dell’opera sullo schermo. È inequivocabile la differenza che sussiste tra una performance che avviene dal vivo, con attori che si muovono verso il pubblico, e uno spettacolo di ombre dalle dimensioni colossali, proiettate sullo schermo in sale cinematografiche buie, le quali incrementano la sensazione dello spettatore di trovarsi in un mondo illusorio e affascinante. Nell’inconciliabilità tra le diverse esperienze, Marcia Citron ritiene che sia giunto il momento di considerare in particolare il film-opera come genere autonomo rispetto sia all’opera che allo stesso cinema: «Screen opera is an independent genre with its own properties. It involves cinema, television, and video, and creates its own ways of dealing with narrative, discourse, and representation».[11] In questo senso, continua la Citron, i vari adattamenti vanno analizzati secondo il modo in cui fanno risaltare le potenzialità e le caratteristiche di ciascuno dei mezzi espressivi che li costituiscono: «Each format appeals to different aspects of aesthetic experience. Moreover, their differences create tensions that inject new life into the other and invigorate opera in the lager sense».[12] Da qui la necessità di fare ricorso a competenze analitiche pluridisciplinari, tra cui gli elementi della grammatica e della sintassi audiovisiva (ambientazioni, recitazione, posizioni e movimenti della macchina da presa, ritmo, punto di vista spettatoriale, rapporto tra suono e immagine, costruzioni di gender, cultura dei media ecc.) e, precipuamente, gli aspetti musicologici e operistici.

Si spinge ancor più oltre Nicholas Cook, parlando di musical multimedia per abbracciare tutte le tipologie di testi che fanno assegnamento su più codici comunicativi e nei quali la musica occupa una parte costitutiva. In tal modo evita di istituire una distinzione tra opere mediate tecnologicamente e performance dal vivo, tra prodotti di cultura alta o popolare, antichi o moderni. Lo scopo è quello di fornire un modello a un tempo teorico e di analisi adatto alle diverse forme di interazione tra musica, immagini e parole; allo spot pubblicitario come all’opera lirica. Tralasciando il pur fondamentale problema della primogenitura tra le diverse componenti espressive e dell’origine del senso nelle opere multimediali – sul quale rimando al saggio di Gianmario Borio Riflessioni sul rapporto tra struttura e significato nei testi audiovisivi in questa rivista – si può perlomeno richiamare qui il tipo di suddivisione tra i testi multimediali proposto da Cook sulla base delle relazioni tra i singoli media, e in particolare rispetto al rapporto di similarità o differenza nella costruzione di metafore. I tre modelli presentati da Cook sono quelli di conformance, complementation e contest. Il modello della ‘conformanza’ prevede un rapporto di somiglianza tra i diversi livelli multimediali (Cook parla a proposito di ‘consistenza’) ma senza che ciascuno prevarichi gli altri, dunque al di fuori di una relazione gerarchica tra di essi: in questo senso ciascun medium si sviluppa con un tipo di elaborazione differente e secondo le proprie peculiarità, ma il legame tra i media che costituiscono il testo multimediale è conforme al risultato che si vuole ottenere. Nel caso dell’audiovisivo, si può dire tanto che l’immagine si proietta sulla musica, quanto il contrario (cioè che la musica si proietta sulle immagini). Opposta alla relazione di ‘consistenza’ tra le diverse materie espressive è quella di coerenza, che introduce la presenza di un medium predominante, e che dà luogo ai modelli di complementation e contest. Per stabilire l’appartenenza a uno o all’altro modello occorre sottoporre ciascuna forma espressiva di cui si sostanzia il medium al test della differenza: «contrariety might be glossed as undifferentiated difference: contradiction implies an element of collision or confrontation between the opposed terms».[13]

Il modello ‘contestuale’ prevale laddove si sia di fronte a un confronto aperto tra elementi costituenti (contraddizione), o tra media in cui uno preesiste e quello aggiunto opera autonomamente con una propria, indipendente, sintassi (Cook fa l’esempio del clip della canzone di Madonna Material Girl): è il loro contesto, l’ambiente in cui appaiono che determina il loro reciproco significato. In questo senso il modello contestuale si oppone a quello della conformanza («conformance tends towards the static and essentialized, whereas contest is intrinsically dynamic and contextual»).[14]

A metà strada tra questi due opposti si colloca il modello della ‘complementarietà’ che può essere spiegato in questi termini: alla base dei media che costituiscono l’unità testuale vi è una differenza riconosciuta, ma il conflitto tra di essi è evitato perché ciascuno svolge un ruolo diverso (variante essenzialista); oppure i differenti media occupano lo stesso terreno (nella variante contestuale), ma il conflitto è evitato attraverso dei ‘mutui dislivelli’. «In all such cases, complementation results not from the properties of words, pictures, or music per se, but from the way in which they are manipulated within a specific context».[15]

Se il modello contestuale è quello più diffuso nell’ambito della multimedialità – ed è quello che si può applicare in termini generali al caso dell’opera sullo schermo – per Cook non va trascurato il fatto che i tre modelli possono anche coesistere, benché con una diversa prevalenza, nell’ambito di un’analisi particolareggiata dei ruoli giocati dalle diverse componenti mediali di un testo multimediale.

Come si può evincere da questa rapida sintesi, il dibattito sul rapporto tra opera e cinema si è notevolmente espanso e ramificato, in modo particolare negli ultimi anni:[16] l’iniziale questione della fedeltà o meno dell’opera sullo schermo alla matrice originaria del testo operistico ha lasciato il campo a una pluralità di approcci e a una varietà di direzioni di ricerca che appaiono particolarmente stimolanti nell’attuale paesaggio audiovisivo, in cui gli incroci si sono moltiplicati e i tradizionali confini tra arti e forme espressive risultano allentati.

Per dare concretezza ad alcune delle questioni accennate, desidero ora soffermarmi brevemente su un caso di studio, vale a dire la regia (teatrale e video) del Don Giovanni di Mozart da parte del drammaturgo americano Peter Sellars, che ha suscitato pareri molto discordanti presso i critici, alcuni dei quali si sono chiesti se l’opera potesse ancora essere apparentata al teatro musicale mozartiano, o se non appartenesse a un altro orizzonte discorsivo.[17] La messa in scena di un Don Giovanni nero, ambientato negli anni Ottanta del Novecento nei quartieri degradati di New York, tossicodipendente e violento, così come la scelta di una condanna finale che, a partire dal protagonista, si riversa sugli altri personaggi, pongono numerosi interrogativi sulla fedeltà all’opera mozartiana e al suo senso.

L’analisi del lavoro compiuto da Sellars sul Don Giovanni, alla luce di alcune questioni che attraversano l’attuale dibattito mediologico, mi consentirà infine di vedere se e in quale misura queste possano apportare un contributo fecondo agli studi interdisciplinari, e ad avvicinare due territori che, nella pratica artistica, si trovano sempre più spesso chiamati in causa nelle loro reciproche interrelazioni.

2.

Precocemente salito alla ribalta come regista inventivo e coraggioso, al limite della spudoratezza, Peter Sellars[18] ha diretto, in 25 anni di carriera, festival, teatri ed eventi tra i più prestigiosi in America e nel mondo: dalla Boston Shakespeare Company al Teatro nazionale americano di Washington (1984-1986) e al Los Angeles Festival, fino alla Biennale di Venezia (sezione teatro, 2003) e al New Crowned Hope Festival a Vienna per il 250° anniversario mozartiano (2006). Cosmopolita per formazione (oltre ad Harvard ha studiato in Cina, Giappone, India), ha al suo attivo numerose regie teatrali e operistiche che spaziano dai classici agli autori contemporanei, interpretati sempre alla luce della funzione sociale e civile della scena.[19]

All’incirca verso la metà degli anni Ottanta, in seguito al fallimento del tentativo di dar vita a un teatro civile nazionale,[20] Sellars si è accostato più direttamente all’opera in musica, avendone constatati gli elementi di maggior libertà rispetto al teatro recitato: all’opera, egli sostiene, «è lecito fare ciò che non è permesso in teatro, vale a dire esplorare un mondo segreto».[21] In particolare, il regista vede attivarsi nell’opera, in modo più chiaro rispetto al teatro, quella sorta di sdoppiamento brechtiano che consente una stratificazione di significati:

The beauty of music is that it is a completely abstract formulation, people are singing notes […] and you don’t confuse the person singing the role with the role. […]. At the same time, the music is about emotional identification. So you get both processes occurring simultaneously: there is constant distancing and constant emotional immediacy.[22]

 

Questa possibilità di agire a diversi livelli si esercita pienamente – osserva sempre Sellars – nell’attuale epoca postmoderna:

in an age in which the interrelatedness of things is increasingly the issue, opera becomes the medium of choice. Multilingual, multicultural, multimedia, diachronic, dialogic, dialectical, and some how strangely delectable, opera is the one form that seems to have a chance of reproducing and invoking the simultaneities, confusions, juxtapositions, bitter tragedy, and just plain malarkey that constitute the texture of recent history.[23]

 

L’opera è in questo senso paradigmatica della complessità sociale, e la sintesi cui perviene – nella composizione dei conflitti, così come nel comune lavoro di tutti coloro che vi prendono parte – è densa di indicazioni per la vita degli spettatori.

Si comprende in questa chiave il lavoro di Peter Sellars sui classici,[24] forzati e stravolti, in alcuni aspetti, al punto da meritare al regista l’accusa di aver fatto loro smarrire un rapporto sostanziale con l’autore. A dispetto di una buona aderenza al testo (cantato in italiano) e alla partitura, il regista opera con libertà nella messa in scena. Questa non è mai per Sellars un semplice aggiornamento (il termine è polemicamente rifiutato dal regista), ma un terreno di scontro tra culture e mondi diversi, a volte antitetici: essa significa

setting up a «visual counterpoint» to the music, in order to stimulate the greatest possible intensity and range of response. To recreate the novelty and shock of the Mozart-Da Ponte operas at their premiere performance, without obliging either modern actors or modern audiences to imagine their way into another century, he recasts them in the «image-language» or «systems of reference» of contemporary America. In this way, he insists, he is trying not to update great works of the past, but to «test the present against them.[25]

 

L’obiettivo di Sellars è dunque quello di suscitare nello spettatore contemporaneo una reazione emotivamente e razionalmente forte, facendo leva su tutte le possibilità espressive dell’opera. Da qui la scelta di conservare l’italiano aulico e certamente incomprensibile per molti spettatori americani, ma per il regista insostituibile perché intimamente connesso alla musica; un linguaggio che può però essere palesemente contraddetto (con riferimento ad ambientazioni, oggetti, situazioni ecc.) dagli interpreti, oppure aggiornato dalle didascalie con un drastico cambiamento di tono in un lessico decisamente più colloquiale. Ciò che il regista sembra soprattutto valorizzare è il dinamismo insito in una doppia temporalità (il passato dell’opera e il presente della sua messa in scena) che ri-problematizza continuamente il senso del testo.

Le versioni della trilogia mozartiana sono state registrate in studio nel 1990-1991, dopo le rappresentazioni teatrali succedutesi per tutta la seconda metà degli anni Ottanta – particolarmente al PepsiCo Summerfare di Purchase (New York) –, quindi trasmesse in televisione nonché edite in DVD.[26] Benché la videoregistrazione abbia ristretto – come è stato osservato – la forza visionaria delle regie teatrali, essa presenta aspetti autoriali di notevole interesse, come si vedrà più avanti, per l’indubbia competenza di Sellars, autore (tra l’altro) di un film muto, The Cabinet of Dr. Ramirez (1991), ispirato al celebre film di Robert Wiene e interpretato da John Cusack, Peter Gallagher e Mokhail Barnyshnikov.

L’aspetto che immediatamente colpisce lo spettatore delle regie mozartiane di Sellars è – come anticipato – la loro collocazione spazio-temporale: sullo sfondo della New York dei tardi anni Ottanta, l’ambientazione spazia dal Sud-Bronx (Don Giovanni), a un grattacielo (Le nozze di Figaro) fino a un postribolo (Così fan tutte). Nella scena americana contemporanea, il seduttore Don Giovanni diviene così un cocainomane violentatore (con preferenze – nota lo stesso Sellars – per ragazzine di 12-13 anni) che esercita nel quartiere la sua supremazia con violenza, sostenuto dall’avido Leporello. I due, abbigliati in modo identico (jeans, giubbotto di pelle e t-shirt nera) e interpretati dai gemelli afroamericani Eugene e Herbert Perry, rappresentano le facce di un unico universo di sopraffazione, volti speculari di un rapporto di desiderio e disimpegno che viene esplicitato nel cambiamento di ruolo del secondo atto. Accanto a loro, gli altri personaggi che appartengono alla tradizione dell’opera buffa, come Masetto e Zerlina, sono di origine afroamericana o asiatica, mentre gli attori bianchi detengono i ruoli dell’opera seria e godono in generale di una posizione sociale più elevata. Tuttavia ciò non rispecchia un possibile giudizio di valore da parte di Sellars, perché tutti, bianchi e non, vittime o persecutori, evidenziano aspetti problematici o apertamente negativi che ne rendono impossibile l’identificazione da parte del pubblico. Così, per esempio, Donna Anna si droga (e ciò giustifica la sua presenza nei quartieri degradati), il suo fidanzato è un poliziotto, e tuttavia pavido; Elvira è una punk e presumibilmente una prostituta; il Commendatore, nel suo riapparire alla fine dell’opera, non preserva nulla di sacrale, ma assomiglia più a un personaggio da film dell’orrore, con il corpo verde e coperto di pustole, che a una terrificante statua. La stessa dolce Zerlina sottolinea con un compiacimento quasi masochista nel celebre Batti, batti o bel Masetto l’atteggiamento violento del fidanzato, e a sua volta lega alla sedia Leporello, credendolo Don Giovanni, e lo minaccia con un coltello affilato. Nessuno sembra potersi sottrarre a questa dilatazione della violenza e del male. Perciò, nelle intenzioni di Sellars, nessuno può essere risparmiato dal giudizio finale: Don Giovanni è condannato «con Proserpina e Pluton», ma i suoi oppositori (Masetto, Zerlina, Donna Anna, Don Ottavio ed Elvira) si trovano a loro volta in una sorta di purgatorio, immersi fino alla cinta in botole aperte nel pavimento. Qui Sellars evidenzia la maggior distanza dal libretto di Da Ponte, coinvolgendo in una punizione collettiva tutti i personaggi. «Such an ending problematizes the entire ontology: we are asked to see everyone as damned, if not into the Hell, at least into the hell of urban barbarity».[27] Solo Leporello si sottrae al giudizio finale, forse perché ha già avuto la sua evidente punizione terrena (è stato infatti ‘battuto’ sonoramente). Oppure perché, rappresentando fin dal suo primo ingresso in scena il possibile punto di vista dello spettatore,[28] mantiene aperta per questo una possibilità di salvezza. Ma il tono è volutamente vago, aperto a possibili diverse interpretazioni. Attraverso alcune scelte registiche, Sellars conferisce ai personaggi nuove caratteristiche. Per esempio all’inizio dell’opera Leporello pronuncia il suo sfogo nei confronti del padrone brandendo un finto microfono, e schioccando le dita, in una parola muovendosi come una rockstar: nel far ciò dà alla sua interpretazione un tono ironico, quasi canzonatorio, che rende più sfaccettata la gelosa sottomissione al padrone. La gestualità messa in campo da Sellars – dovuta anche alla necessità di ripensare i movimenti per renderli credibili rispetto alla nuova ambientazione – ridefinisce anche i rapporti tra i personaggi, come nota Citron.[29] Ciò accade, per esempio, alla fine del primo atto, quando i diversi gruppi sociali dei protagonisti sono richiamati (musicalmente) attraverso un particolare tipo di danza: il minuetto per i nobili, la controdanza per le classi medie, fino alla più popolare teitsch. A Sellars non importa tanto la partizione sociale quanto la possibilità di esprimere, attraverso il movimento, i diversi gradi di frustrazione, di rabbia sociale e la relativa capacità di controllo da parte dei personaggi. Così il gruppo più elevato si muove con gesti ampi e cadenzati, regolari; Don Giovanni sfoga la sua ansia libertaria letteralmente spogliandosi e con movimenti sensuali rivolti a Zerlina, mentre Masetto esprime la sua rabbia con gesti eccessivi e incontrollati, che risultano fuori tempo rispetto alla musica.

Oltre ai gesti, anche gli oggetti scenici diventano luoghi di addensamento semantico: si pensi all’uso frequente di armi e coltelli o all’esibizione di sangue per indicare il clima di violenza e di sopraffazione in cui tutta la vicenda è ambientata; oppure alle frequenti sostituzioni (il registratore portatile al posto dell’orchestra; il cibo da fast food invece del fagiano ecc.) che suonano più familiari allo spettatore contemporaneo, ma al tempo stesso fortemente stranianti rispetto a Mozart; infine agli innesti, per esempio la droga, che forgiano nuovi significati per il plot. Attraverso questi «talismani della società moderna»,[30] Sellars non intende tanto accentuare la verosimiglianza della rappresentazione, quanto attingere a un patrimonio simbolico operante nella società contemporanea.

Dal punto di vista spaziale, va sottolineato come le diverse ambientazioni proposte da Mozart (palazzi, saloni, giardini, sale da ballo, strade ecc.) siano riconfigurate a misura dell’unico e omnicomprensivo spazio della strada. «La rue est par essence l’espace du mouvement et de l’anonymat: elle se fera boite de nuit, chambre, salle de banquet, cimetière d’un monde sur le déclin, où tous les signes du crime s’amasseront sur la scène, impunément».[31] La strada è il luogo in cui Don Giovanni esercita la sua violenta supremazia, e dove consuma la sua avventura esistenziale; un ambiente che ridisegna leggi e gerarchie sulla base del primato della forza, e che espone alla pubblica attenzione quella fitta rete di trame, seduzioni e manipolazioni solitamente consumati nella più quieta e accomodante privacy di palazzi e salotti. A tale conclusione giunge anche l’analisi cronotopica proposta da Terry Donovan Smith. Nel libretto di Da Ponte, «while there is considerable movement in the setting, the dominant chronotope is that of the parlor. That is, most of the action is in places where private, often sexual matters are engaged. […] Sellars has taken this salon chronotope and transformed it into that of the road».[32] Dei quattro cronotopi bachtiniani individuati nel libretto dapontiano – la strada, il castello, il salone (o, per estensione, il palazzo) e la soglia – la studiosa mette in luce il modo in cui Sellars passa sistematicamente da uno spazio privato nel quale si svolgono affari pubblici (il salone), a un luogo ‘oggettivato’, ossia la strada, dove si incontrano le diverse tipologie di personaggi con le loro differenze di ceto, età, etnie, credenze, religioni, stili di vita.[33]

Non sorprende allora che il Don Giovanni di Peter Sellars spenga gli sprazzi di luminosità dell’opera di Mozart-Da Ponte in funzione simbolica; un buio perenne che corrisponde a un incupimento del sostrato valoriale, illuminato soltanto da una luce livida, artificiale, postmoderna. L’assenza di luce sembra espungere qualsiasi possibilità di salvezza, e porsi come correlato simbolico dell’ineluttabilità della strada, luogo della violenza e del fatale incontrarsi di tutti i personaggi: un crocevia che non lascia vie di scampo.[34]

Per quanto riguarda i procedimenti più propriamente filmici, la scelta di Sellars in Don Giovanni, così come nelle altre riprese delle opere mozartiane, è ambivalente. Il set teatrale lascia pochi margini di manovra all’immaginazione cinematografica, peraltro concentrati nell’ouverture; ma ciò non significa statica teatralità nei procedimenti di messa in quadro e montaggio. Le inquadrature sono per lo più ravvicinate e angolate nell’intento di cogliere non solo il canto degli interpreti, ma pure i loro movimenti sul set, i gesti o gli oggetti emblematici o ancora il riflesso emotivo di ciò che sta accadendo sui volti dei protagonisti e dei testimoni. Il montaggio poi amplifica dinamicamente questi continui transiti attraverso stacchi veloci, concitati, che insistono sull’incessante movimento più che gratificare le aspettative dello spettatore con visioni di insieme o piani di ambientazione. Un linguaggio che tradisce così l’appartenenza a un contesto stilistico postmoderno,[35] e che evidenzia – come ha sottolineato Marcia Citron – parentele con fenomeni mediali contemporanei eterogenei che vanno da Mtv alla soap opera, fino al cinema degli anni Settanta e Ottanta. Nel mondo di Sellars la mancata saturazione visiva rinvia all’instabilità psicologica dei personaggi e mantiene una elevata tensione emotiva con la quale lo spettatore può facilmente immedesimarsi, come nelle pratiche dello zapping televisivo. Persino il tempo soggiace a questa logica, attraverso contrazioni evidenti ma anche pause particolarmente sensibili: un tempo innaturale, apparentemente soggetto ai fenomeni di accelerazione e mescolanza dei linguaggi audiovisivi contemporanei, ma capace di prenderne pure le distanze, per esempio attraverso queste stesse pause.

Per analizzare più da vicino i procedimenti filmici adottati, e il livello di integrazione tra le immagini e la musica, è utile prendere in esame l’ouverture, descrivendone l’articolazione in inquadrature, per poi trarre considerazioni di carattere più generale.

 

Schema formale dell'ouverture del Don Giovanni

 

Da un punto di vista registico, l’ouverture costituisce un luogo di libertà creativa non soggetto alle costrizioni dello spazio scenico né alla presenza dei personaggi, e tuttavia strettamente collegato ad essi. Questa relazione si esplicita, a livello generale, lungo due direttrici che corrispondono alle due sezioni. La prima è l’adagio, tradizionalmente interpretato dalla critica[36] come il luogo del manifestarsi della cupa necessità del destino e della sua sovrumana potenza, qui contrassegnato dalla preminenza dell’ambiente e dalla sua aspra inospitalità: si tratta di una squallida e degradata periferia, probabilmente metropolitana, colta durante la stagione invernale, prenatalizia, priva dell’elemento umano e segnata da simboli di disfacimento (sagome di palazzi spettrali, finestre sventrate o mai completate o aperte sul nulla), e presagi di morte, di cui è emblema l’inquadratura insistita di una carcassa di topo. Il ritmo visivo segue quello musicale: 16 inquadrature in tre minuti e mezzo, con una progressione abbastanza regolare.

Esso viene però sovvertito dalla seconda parte (Molto allegro) pervasa dall’inquieto vitalismo di Don Giovanni: il montaggio si fa più rapido (35 inquadrature in poco più di quattro minuti, con un ritmo che è quasi il doppio del precedente), mentre le inquadrature introducono progressivamente l’elemento umano, dapprima come presenza singola, poi attraverso la molteplicità dei soggetti – per lo più immigrati ispanoamericani – che popolano la periferia. I luoghi rappresentati sono quelli del vivere e del lavorare, resi attraverso una selva di insegne di negozi di alimentari; oppure i ‘traffici’, simbolicamente richiamati da un quadrivio lungo il quale transitano incessantemente automobili.

La rappresentazione persegue dunque un fine realistico e vale ad ambientare la vicenda di Don Giovanni in modo coerente rispetto alle coordinate spazio-temporali sellersiane: il Bronx dell’inizio degli anni Ottanta, segnato da un degrado socioeconomico che spiega la lotta per la sopravvivenza, e la conseguente logica di violenza e sopraffazione che connotano l’agire del protagonista. La ‘grana’ dell’immagine – tipica del video digitale, più che del cinema – sostiene questa scelta: la macchina da presa, leggera e mobile nel corso dell’Allegro, propone una diretta immersione nel fluire della difficile vita del quartiere. Tuttavia, a uno sguardo più approfondito, il punto di vista rivela la posizione ‘ideologica’ del regista e la sua complessità: uno sguardo vicino a una materia bassa e problematica, ma che non si confonde mai con essa, perché ne è separato da una strada oltre la quale è posta la macchina da presa. L’effetto è a un tempo voyeuristico e mediato, a sottolineare la stratificazione della messa in scena che, come si è visto, appartiene all’orizzonte operistico di Sellars.

La suddivisione tematica dei due tempi è chiarita e sostenuta dai movimenti di macchina: nel primo predominano piani fissi e panoramiche verticali, mentre nel secondo le inquadrature, più brevi, sono fisse oppure accompagnate da panoramiche orizzontali: alla profondità della sfera religiosa ed eterna si sostituisce il fluire, tutto orizzontale, della dimensione umana.

I due accordi iniziali, chiusi dalle relative pause, vengono sottolineati da inquadrature speculari: in entrambe il movimento di macchina (una panoramica, prima orizzontale, poi verticale e ascendente, l’unica dal basso verso l’alto, quasi a richiamare l’ingresso della dimensione ultraterrena nella sfera mondana) parte subito dopo il primo quarto, per arrestarsi con la pausa, forse per sottolineare la vastità dell’eco prodotta dall’accordo, e la sua dilatazione spaziale. Più avanti, nelle battute 11-15 della partitura, altre panoramiche (questa volta orizzontali e da sinistra a destra) accompagnano le lamentazioni dei violini, fino a movimenti più larghi e quasi funerei sostenuti da immagini di degrado, abbandono e miseria. Alle battute 20 e 21 gli accordi del destino diventano sempre più espliciti, questa volta sostenuti dall’immagine ripugnante di un topo morto, inquadrato a lungo. Poi iniziano le fiammeggianti scale cromatiche dei primi violini e dei flauti: le ‘scale della disperazione’ – che musicalmente presentano una fase ascendente e una discendente – sono visualizzate attraverso l’inquadratura delle scale di servizio di un edificio visibilmente degradato, accompagnata ancora una volta da una panoramica verticale discendente. Questa volta pare che la dimensione umana sia trascinata in un vortice discendente senza ritorno. Ma nelle battute finali, mentre si affievoliscono gli echi tormentosi delle note, l’immagine cede all’insegna di una croce (l’ingresso di una chiesa) illuminata al neon: un’icona ambigua, che apre solo in apparenza alla dimensione del divino, in quanto essa è controllata (e forse ricreata?) dall’uomo.

Nel secondo tempo (Molto allegro), Sellars mette in relazione i diversi tratti della personalità di Don Giovanni – così come, secondo le più accreditate letture critiche, sono introdotti dalla musica – con un’umanità ampia ed eterogenea, quasi per dilatare su scala più vasta la vicenda raccontata, a sottolinearne l’emblematicità, o a introdurre il tema della corresponsabilità della violenza e sopraffazione che sarà ripreso nel finale. Inizialmente un leggero cromatismo sembra alludere alla sensualità quasi demoniaca del protagonista (mentre il video sostituisce alla ‘corsa di Don Giovanni’ il veloce passaggio di un’automobile lungo una strada); poi la sua natura ‘famelica’ e ‘ferina’ è trasposta nell’immagine di cani lupi che frugano tra i rifiuti fino ad addentare della carne (bb. 38-55). Dalla battuta 56 alla 120, nelle quali si assiste al secondo tema e si annuncia il terzo, predomina l’immagine del fuoco, la cui simbologia rinvia ambiguamente tanto alla passionalità dell’eros e della vita terrena, quanto alla morte e alla condanna eterna. Il montaggio delle immagini segue attentamente la partitura, evidenziando la successione dei temi con il variare delle riprese, ora di gente che parla o passeggia e di insegne di negozi di alimentari, ora di palazzi, abbastanza fatiscenti, nei quali si trascina la vita della periferia. Nel finale (bb. 223-281) l’esplosione della cavalleria è resa attraverso un intensificarsi di automobili che sfrecciano nel traffico urbano. In modo speculare alla chiusura del primo movimento, le ultime battute (bb. 282-292) sono dedicate alle immagini delle finestre di una chiesa ornate con le decorazioni di lucine intermittenti natalizie: un segnale di festosità che si addice alla ricomposizione finale della melodia, laddove l’umano sembra fare pace, stemperando la propria ansia, con il divino. Ma l’ingresso di Leporello in scena, che segue immediatamente, mostra la precarietà di un equilibrio che è costantemente minacciato.

Alla luce delle considerazioni svolte, la visualizzazione della musica operata liberamente nell’ouverture mi pare confermi il tipo di lavoro che Peter Sellars compie sull’intera opera mozartiana. Si tratta di un testo che, per il tipo di ambientazione e ancor più di linguaggio, risente certamente della cultura postmoderna, ma che non si appiattisce su questa: evita infatti di nascondere la distanza che ci separa da Mozart, e in qualche modo la rappresenta problematicamente. Anziché chiudere l’opera in un passato ricostruito o in un presente a-storico, Sellars mette in scena lo scarto temporale. Allo stesso modo non cancella ma esibisce la sovrapposizione di piani discorsivi diversi, con un continuo gioco di ‘teatralizzazione’. Il palcoscenico in questo modo si amplifica: la strada, nella quale – secondo l’analisi delle cronotopie – tutte le classi sociali si incontrano, diventa essa stessa palcoscenico. Pure il dispositivo teatrale non si disperde né si annulla nel video; al contrario si ricolloca (più avanti si dirà che si ‘ri-loca’) all’interno di altre tecnologie e culture, come quella cinematografica e televisiva. Esibire e ‘teatralizzare’ la cultura odierna in rapporto a quella del passato senza nasconderne le tracce; promuovere il confronto (anche violento) che è dato dalla loro stratificazione, senza neutralizzarne nessuna componente, ma ponendole l’una dentro l’altra: tale è il compito che Sellars affida all’opera on screen contemporanea, facendola diventare luogo (teatrale) di un confronto anziché fuga (magari più gratificante) in un passato definitivamente tramontato.

3.

A partire dal lavoro compiuto da Sellars è possibile formulare qualche osservazione di carattere generale relativa allo statuto dell’opera on screen nell’attuale paesaggio audiovisivo. Interessato da una vorticosa accelerazione tecnologica, il sistema dei media vive una stagione di grande dinamismo, tuttora in corso, che ha scardinato alcune delle loro caratteristiche tradizionali. Il concetto di medium come insieme di contenuti che muove da un centro produttivo e si indirizza a un’utenza il più possibile vasta e indifferenziata è stato abbattuto dall’avvento dei personal media, e con esso è caduto anche il presupposto della loro onnipotenza rispetto ai consumatori: oggi l’utente deve mettere in atto una serie di operazioni per relazionarsi con i media, effettua numerose scelte ed è parte attiva del rapporto con essi; nel caso di videogiochi, computer o telefonia mobile il consumatore è a tutti gli effetti co-autore della comunicazione.

Inoltre l’incrocio tecnologico ha favorito la mobilità dei contenuti a discapito della differenziazione che caratterizzava in passato i media: non più destinato a una sola funzione, ogni supporto tende a esercitare una pluralità di ruoli, per cui è oggi sempre più facile trovarsi a leggere giornali online o guardare film sullo schermo di iPod e telefoni cellulari. Ciò non ha però decretato la morte delle tecnologie obsolete; esse sopravvivono accanto alle nuove come ventaglio di possibilità e di esperienze accessibili: la scelta dell’una o dell’altra varia secondo fattori soggettivi e ambientali.

Tali aspetti hanno favorito l’adozione di una definizione complessa di media, considerati non solo come dispositivi comunicativi, ma anche sociali. È ormai accettato il fatto che, accanto a un risvolto tecnologico ed economico, ciascun medium si caratterizzi per una serie di «"protocolli" o di pratiche sociali e culturali che sono cresciute intorno a quella tecnologia».[37] Di conseguenza possono nel tempo variare i contenuti, i pubblici, «ma una volta che il medium soddisfa una domanda fondamentale per qualche essere umano, continua ad assolvere la sua funzione all’interno di un sistema di opzioni più ampio». Per questo «vecchi e nuovi media sono stati costeretti a coesistere. […] Lungi dall’essere sostituiti, i vecchi media vedono trasformare la loro funzione e il loro status, per effetto dell’introduzione di nuove tecnologie».[38]

Il discorso può essere esteso e applicato al rapporto tra media e forme di rappresentazione artistica o di spettacolo: per quanto ci riguarda, si può provare a ricondurre a questo quadro l’ampio confronto e l’insieme di scambi sempre più numerosi tra teatro e cinema, o tra musica dal vivo e musica registrata che l’avvento delle tecnologie ha di volta in volta sussunto ma non represso. Ne è prova il fatto che la disponibilità di opere su DVD non ha decretato la chiusura dei teatri, ma promosso un’offerta più stratificata e trasversale. D’altra parte, come dimostra l’esempio del Don Giovanni di Peter Sellars, pure la cultura audiovisiva e massmediale contemporanea ha determinato una certa influenza sulla messa in scena teatrale.

Ma come convivono le vecchie e le nuove tecnologie, come influenzano reciprocamente i loro contenuti, e a quali modelli più generali si rifanno? A questo proposito sono stati avanzati dagli studiosi diversi paradigmi che vorrei brevemente richiamare in quanto – pur elaborati in ambiti più generali – presentano elementi utili anche alla riflessione sul rapporto tra opera e audiovisivo.

Un modello utile a interpretare il rapporto tra media – o forme di rappresentazione – è quello della rimediazione, messo a tema da Bolter e Grusin a partire da un sostrato mcluhaniano. La rimediazione spiega l’avvicendamento tra vecchi e nuovi media come processo non competitivo ma di continua e successiva rielaborazione. Rimediazione, secondo una caratteristica costante dei media digitali, è la rappresentazione di un medium all’interno di un altro medium, o l’incorporazione della tecnologia preesistente.

Due dinamiche sono sottostanti a questo processo: la logica della trasparenza e quella, opposta, dell’opacità. La prima, detta anche dell’immediacy, ha come obiettivo quello di rendere agevole, attraverso una nuova tecnologia, il contenuto di una precedente, o la realtà stessa, senza mostrarne il processo di incorporazione. Si tratta di interfacce che nascondono la ‘mediazione’ operata rispetto a ciò che rappresentano, o che cercano di dissimulare lo scarto tecnologico sopraggiunto o di renderlo assai poco problematico, o ancora di promettere un’esperienza diretta, persino potenziata (si pensi alla realtà virtuale immersiva) della vita reale. L’immediacy «si pone l’obiettivo di mantenere "un punto di contatto tra il medium e ciò che rappresenta" e di rendere trasparente il dispositivo di interfacciamento».[39] Essa interviene laddove la presenza di un medium fa leva su usi e funzioni sociali ratificate, senza imporre una loro modificazione: si può citare a riguardo l’animazione computerizzata, nella quale si ha spesso l’illusione di trovarsi di fronte a un film.[40]

Al contrario la logica dell’ipermediazione si basa sulla visibilità della tecnologia, sulla presenza di finestre che la esibiscono, anziché azzerarla. Lo spazio risulta frammentato e disperso, ma non è più unificato secondo un solo punto di vista. Nello stesso tempo, se pure l’esibizione del processo creativo è anteposta al risultato estetico, l’utente guadagna in consapevolezza, dal momento che può decidere se guardare gli oggetti o guardare attraverso di essi per dar senso alla propria esperienza. Come nella navigazione in rete, o negli split screen televisivi, la logica dell’ipermediazione «moltiplica i segni della mediazione e in questo modo cerca di riprodurre la ricchezza sensoriale dell’esperienza umana».[41]

Nel caso della ripresa del Don Giovanni di Mozart da parte di Peter Sellars, siamo di fronte a un caso evidente di rimediazione a più livelli: dal contenuto (la messa in scena dell’opera mozartiana) alla forma (dal teatro alla ripresa video), all’autore (Mozart-Da Ponte versus Sellars). Riguardo alle due modalità descritte, l’immediatezza e l’ipermediazione, mi pare che Sellars operi su entrambi i fronti, in un gioco di continuo ammiccamento e spiazzamento nei confronti dello spettatore. Da un lato, infatti, il regista sembra azzerare la mediazione della macchina da presa attraverso riprese che suggeriscono una certa padronanza dello spazio teatrale nella sua ampiezza, o che, all’opposto, delineano una forte vicinanza ai personaggi; dall’altro affida agli stacchi di montaggio, veloci e insistiti, il compito di ricordare la presenza della macchina da presa. L’immersività dello spettatore in questo modo non è mai disgiunta da una presa di distanza e l’esperienza di visione e ascolto dell’opera non risulta esente da un atteggiamento di tipo riflessivo – indotto dalle scelte registiche di Sellars – sulle modalità del rappresentare e sulla visione.

Un secondo modello volto a spiegare le modalità di coabitazione tra diverse tecnologie è quello della convergenza mediale, di recente proposto da Henry Jenkins, direttore del Comparative Media Studies Program presso il MIT. La convergenza è in primo luogo una funzione tecnologica, vale a dire la capacità dei dispositivi di incorporare operazioni svolte da più media, convogliandole in un’unica macchina (basti pensare al computer, al cellulare, alla stessa PlayStation, che possono essere usati come televisione o giornale, macchina fotografia, archivio di testi ecc.). Ma Jenkins tiene però a sottolineare come la convergenza riguardi in modo sostanziale anche la cultura transmediale che è ad essa sottesa. Convergenza è dunque «un cambiamento culturale, dal momento che i consumatori sono stimolati a ricercare nuove informazioni e ad attivare connessioni tra contenuti mediatici differenti».[42] La logica della convergenza spinge pertanto gli spettatori a compiere un’elevata gamma di operazioni di decodifica, quanto non di intervento e manipolazione vera e propria del testo (come è per esempio richiesto per caricare una sequenza di un film su YouTube), e insieme spinge gli autori, i creativi, a tener conto – e anzi ad ampliare – la mappa dei riferimenti e degli usi possibili.

Non è del tutto estraneo a questa logica di convergenza il Don Giovanni di Peter Sellars: è una lettura all’insegna della convergenza quella di Marcia Citron, che vi ravvisa il debito del regista con la cultura pop e segnatamente con quella televisiva della soap opera. Ma è possibile attivare anche altre convergenze di lettura, scorgendo per esempio le citazioni di West Side Story nei movimenti di Don Giovanni e Leporello. Lo stesso Sellars dichiara il debito contratto dalla cultura televisiva, e parla della propria messinscena della trilogia mozartiana come di una ‘saga’, di un macrotesto le cui unità si illuminano l’una in riferimento all’altra. Il lavoro del regista americano calza pure a proposito di un’importante conseguenza della cultura convergente sottolineata da Jenkins: in un’accezione ottimistica, la convergenza promuove una cultura partecipativa e risveglia l’intelligenza collettiva. Quando lo spettatore attribuisce senso al testo, lo rielabora, lo rimette in circolo nella propria vita, lo condivide con altri partecipando a comunità virtuali; in una parola, diventa un soggetto attivo, e in questo modo si attrezza alla cultura della partecipazione e della cittadinanza. Analogamente la ‘stratificazione’ operata da Sellars con i diversi materiali espressivi, e l’effetto straniante che produce il loro accostamento (ad esempio la musica di Mozart e le scene di esplicita violenza), obbliga lo spettatore a formulare una sintesi personale, ad andare oltre una ricezione gratificante per trovare un significato per la vita personale e comunitaria nel presente. Ciò è frutto di una ‘negoziazione’ tra le provocazioni del testo e le interpretazioni possibili, tra il lavoro di regia e le letture socialmente condivisibili. Il teatro operistico di Sellars, come si è visto, ha come fine ultimo proprio la costruzione della cittadinanza.

Un terzo modello di interpretazione delle trasformazioni dei media contemporanei è quello della rilocazione, messo a tema a proposito del cinema da Francesco Casetti. «Al centro della ri-locazione c’è una migrazione e una appropriazione: il cinema si trasferisce in nuovi ambiti, tecnologici o spaziali, e nello stesso tempo li fa propri».[43] L’analisi assume i precedenti paradigmi della rimediazione e della convergenza e li colloca in una prospettiva ambientale nella quale lo spazio non ha una mera funzione di localizzazione, ma serve a ridefinire le condizioni di accesso al medium, e a tratteggiare un particolare tipo di esperienza. La riflessione di Casetti prende avvio dalla proliferazione degli schermi nel paesaggio urbano contemporaneo per domandarsi a quale tipo di visione essi diano luogo, e in quale senso permangano dei legami con la fruizione filmica. L’ambiente arredato dagli schermi comporta in primo luogo una serie di procedure: una ridefinizione dello spazio; una sua riarticolazione (con la designazione dei confini dei diversi oggetti culturali); l’invito, rivolto allo spettatore, ad adottare determinati comportamenti di consumo; infine un’integrazione tra elementi di tradizionale pertinenza del medium e aspetti nuovi. Ne consegue che gli schermi urbani «hanno un legame ambiguo con il cinema: per un verso sembrano raccoglierne l’eredità, anche attraverso vie del tutto imprevedibili; per un altro verso portano questa eredità come al suo compimento – la rivitalizzano e insieme la trasformano».[44]

Mi pare che questa analisi possa essere estesa, in quanto utile a comprendere il dinamismo di quelle forme espressive e di comunicazione, anche pre e postmediali, in cui lo spazio, da un lato, e la presenza di un dispositivo, dall’altro, rivestono un ruolo cruciale.[45] Nel momento in cui il dispositivo che incarna la forma comunicativa emblematica di un certo periodo storico (o che viene rivestito di un particolare valore sociale) esce da uno spazio deputato, che aveva per così dire ‘arredato’, e si espande in un territorio nuovo, quest’ultimo si riconfigura nel senso descritto da Casetti. A titolo di esempio si possono citare tanto la pittura religiosa, nata per la decorazione delle chiese, poi ri-ubicata presso i musei, quanto le videoinstallazioni che utilizzano immagini preesistenti.[46] Ma in generale tutte le eterotopie descritte da Foucault – luoghi effettivamente reali e organizzati in una società che però «rappresentano qualche cosa di assolutamente diverso da tutti gli spazi che riflettono e di cui parlano»,[47] luoghi aperti ma al tempo stesso fortemente ritualizzati in cui le coordinate geo-temporali precipitano e sono messe en abîme – sono gli spazi in cui avviene la rilocazione. In questo senso si può leggere a mio parere anche l’evoluzione dell’opera che, dallo spazio deputato del teatro, conservato per tutto l’Ottocento, nel secolo successivo arriva a conquistare altri luoghi: basti pensare alle forme di teatro fuori dal teatro, come i carri di Tespi durante il fascismo italiano o al teatro all’aperto, o anche ai mezzi di riproduzione meccanica che, dal cinema alla radio, dalla tv al disco e al videodisco, ospitano in vari modi e formati il teatro lirico. Non si tratta di una semplice migrazione dei dispositivi del teatro musicale (il palco, l’orchestra, i cantanti), da un luogo a un altro: nel transito, spazi e dispositivi manifestano una inedita porosità, e vengono reciprocamente spinti a esplorare nuove possibilità. Come abbiamo visto, è ampiamente documentato l’interesse del cinema nei confronti del melodramma, non soltanto – e fin dai primi anni – a livello testuale nella ripresa di opere liriche, ma pure in modo più sotterraneo nella ripresa di modelli narrativi, e nella designazione di un particolare contratto spettatoriale. Tuttavia va osservato come la rilocazione cinematografica sia più evidente, perché avviene attraverso una tecnologia che si dà a vedere (lo schermo), mentre la rilocazione della scena, dal momento che avviene attraverso un dispositivo non necessariamente tecnologico (si pensi allo spazio scenico, e alla sua portata simbolica), non appare quantitativamente misurabile, ma è al punto incorporata dagli uomini da impregnare le forme e gli spazi del vivere civile.[48]

Ancora una volta il caso di Don Giovanni, nella regia di Peter Sellars, offre un ottimo esempio di rilocazione a più livelli. Il mito di Don Giovanni – ormai pienamente riconosciuto nel suo valore archetipico – dal punto di vista tematico e spaziale è ricollocato, come abbiamo visto, dai palazzi nobiliari dell’Europa mozartiana alle strade del Bronx di due secoli dopo: un cambiamento che sottende non solo l’urgenza di parlare al ‘presente’ degli spettatori, ma pure la capacità di parlare del loro presente (e dei loro problemi), nei luoghi dove la loro stessa vita si svolge. Da qui la predominanza del cronotopo della strada, opposto a quello del palazzo: una nuova collocazione che, in termini metalinguistici, può rinviare alla perdita di centralità dello spazio teatrale deputato, a favore di una diffusione (e quasi dispersione) della ‘scena’ nei luoghi della vita quotidiana. A livello stilistico, questa rilocazione simula un forte debito nei confronti della cultura audiovisiva contemporanea, e al cosiddetto pastiche che – come ha ben messo in luce Marcia Citron – la caratterizza. Tuttavia ciò non si traduce in un semplice ‘appiattimento’ di componenti eterogenee l’una sull’altra: come più volte sottolineato, l’abilità di Sellars è quella di esibire (e non occultare, come spesso avviene nella cultura contemporanea) il processo di stratificazione, obbligando lo spettatore a un confronto e a una ricerca di senso in prima persona. In questo senso mi pare che sia la cultura drammaturgica a trovare una sua ri-locazione in quella audiovisiva, e non viceversa; quest’ultima, a sua volta, è rivitalizzata dall’incontro con il teatro. Se Peter Sellars ricolloca il portato culturale e simbolico del teatro mozartiano nel solco della drammaturgia civile e della cultura audiovisiva degli anni Ottanta, a livello più generale si può affermare che l’opera in video ridefinisce il tradizionale ‘contratto spettatoriale’, facendogli perdere necessariamente alcune componenti tradizionali per assumerne di nuove.

Dunque i paradigmi che affrontano l’avvicendamento e l’evoluzione delle forme espressive e simboliche integrando l’approccio testuale e/o tecnologico con un interesse esteso alle modalità di funzionamento, alle funzioni sociali svolte, alle modalità di coinvolgimento spettatoriale, offrono degli stimoli rilevanti in ordine allo studio del rapporto tra opera e audiovisivo. Tanto il modello della rimediazione, come modello formale/genealogico (nell’idea foucauldiana di affiliazioni e risonanze, più che di stretta successione storica), quanto il modello della convergenza, come quadro essenzialmente relazionale; quanto infine il modello della rilocazione, come paradigma ambientale ed esperienziale, rilanciano quesiti ineludibili per orientare la cultura del presente e l’eredità del passato alla luce di un possibile sviluppo futuro; per capire, cioè, accanto alle nuove, inedite, forme artistiche, quale grana e consistenza rivesta la nuova vita delle antiche cose.

 

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[Bio] Elena Mosconi è ricercatrice presso l’Università Cattolica di Milano, dove insegna “Storia e critica del cinema”. Svolge ricerca prevalentemente in ambito storico e storiografico, interessandosi tra l’altro ai processi di istituzionalizzazione del cinema e ai suoi rapporti con le altre arti e le altre forme di spettacolo. È autrice di L’impressione del film. Contributi per una storia del cinema italiano 1895-1945 (Milano, Vita e Pensiero, 2006); e di recente ha curato Nero su bianco. Le politiche per il cinema negli ottant’anni della «Rivista del cinematografo» (Roma, Eds, 2008); Moltiplicare l’istante. Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e cinema (Milano, Il Castoro, 2007 con Elena Dagrada e Silvia Paoli); Spettatori italiani. Riti e ambienti del consumo cinematografico 1900-1950 (Roma, Carocci, 2006 con Francesco Casetti). Collabora con riviste scientifiche nazionali e internazionali.

E-mail:  elena@mosconi.com

Elena Mosconi is a tenured researcher at the Catholic University of Milan, where she teaches “Film History and Crtiticism”. Her broader research addresses the institutionalisation of film and the historical relationship between film and the other arts. She has written L’impressione del film. Contributi per una storia del cinema italiano 1895-1945 (Milano, Vita e Pensiero, 2006); and recently edited Nero su bianco. Le politiche per il cinema negli ottant’anni della «Rivista del cinematografo» (Roma, Eds, 2008); and co-edited Moltiplicare l’istante. Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e cinema (Milano, Il Castoro, 2007); Spettatori italiani. Riti e ambienti del consumo cinematografico 1900-1950 (Roma, Carocci, 2006). She is also a contributor to Italian and International reviews.

[1] Si possono citare a titolo di esempio i volumi di Gianfranco Casadio, Opera e cinema: la musica lirica nel cinema italiano dall’avvento del sonoro ad oggi, Ravenna, Longo, 1995; Cinéma et opera, Paris, Premières Loges, 1987; David Schroeder, Cinema’s Illusions, Opera’s Allure: The Operatic Impulse in Film, New York-London, Continuum, 2003; Se quello schermo io fossi: Verdi e il cinema, a cura di Massimo Marchelli e Renato Venturelli, Recco, Le Mani, 2001; Guglielmo Pescatore, La voce e il corpo: l’opera lirica al cinema, Pasian di Prato, Campanotto, 2001; Ken Wlaschin, Encyclopedia of Opera on Screen: a Guide to More than 100 Years of Opera Films, Videos and DVDs, New Haven, Yale Univerity Press, 2004.

[2] Una sintesi al riguardo è fornita da Michel Veilleux, L’opera dal teatro allo schermo televisivo, in Enciclopedia della musica. Il Novecento, a cura di Jean-Jacques Nattiez, Torino, Einaudi, 2001, vol. II, pp. 849-870; l’Istituto di ricerca per il teatro musicale (I.R.Te.M.) ha svolto su questo tema numerosi convegni e seminari, confluiti nei quaderni: Oper 1985: Scritti sui mezzi di comunicazione di massa e l’opera, n. 2, 1985; L’opera in film, n. 5, 1987; Opera e cinema, n. 6, 1988; Opera e televisione, n. 8, 1989; Opera e televisione 2, n. 10, 1990; Tempo e spazio: problemi di un rapporto tra opera e televisione, n. 11, 1991; Don Giovanni in video, n. 12, 1992; Opera e televisione: un problema di linguaggi, n. 20, 1997; Creazione e riproduzione dell’opera in video: riflessioni su Opera on Screen 1993, n. 22, 2001; Modi di riproduzione in televisione della musica dal vivo e in studio, n. 25, 2000; Modi di riproduzione in televisione dell’opera lirica: problemi teatrali, problemi musicali, n. 26, 2002.

[3] Pescatore, La voce e il corpo: l’opera lirica al cinema, cit.

[4] Michel Grover-Friedlander, Vocal Apparitions: The Attraction of Cinema to Opera, Princeton, Princeton University Press, 2005.

[5] Jeremy Tambling, Opera, Ideology and Film , Manchester, Manchester University Press, 1987; e A Night In at the Opera: Media Representations of Opera, ed. by Jeremy Tambling, London, John Libbey, 1994.

[6] Sintetizza questo dibattito John Storey, «Expecting Rain»: Opera as Popular Culture?, in High Pop: Making Culture into Popular Entertainment, ed. by Jim Collins, s.l., Blackwell Publishing, 2003, pp. 32-55.

[7] Ibid., p. 44. Rientra in questo vasto ambito di problematiche anche il tipo di operazione compiuta sul testo (o sul musicista) da parte del regista. Ha per esempio evidenziato Horowitz (cfr. Joseph Horowitz, Mozart as Midcult: Mass Snob Appeal, «The Musical Quarterly », 76/1, Spring 1992, pp. 1-16) come sia possibile operare uno spostamento del patrimonio della musica classica nell’ambito del Midcult o del Camp.

[8] Tra la ricca bibliografia mi limito qui a citare Werner Wolf, The Musicalization of Fiction: A Study in the Theory and History of Intermediality, Amsterdam, Rodopi, 1999 e l’utile sintesi con raccolta di saggi e bibliografia di Giovanni Guagnelini – Valentina Re, Visioni di altre visioni: intertestualità e cinema, Bologna, Archetipolibri, 2007.

[9] Between Opera and Cinema, ed. by Jeongwon Joe and Rose Theresa, London-New York, Routledge, 2002.

[10] Carmen on Film: A Cultural History, ed. by Phil Powrie, Bruce Babington, Ann Davies, Chris Perriam, Bloomington, Indiana University Press, 2007; Carmen: from Silent Film to MTV, ed. by Chris Perriam and Ann Davies, Amsterdam, Rodopi, 2005.

[11] Marcia J. Citron, Opera on Screen, New Haven-London, Yale University Press, 2000, p. 9; «If opera is accorded priority it means that media treatments are derivative works and the aesthetic of the stage limit what can be done interpretatively ». Sullo stesso tema: Id., A Night at the Cinema: Zeffirelli’s «Otello» and the Genre of Film-Opera, «The Musical Quarterly», 78/4, Winter 1994, pp. 700-703.

[12] Loc. cit.

[13] Nicholas Cook, Analysing Musical Multimedia, New York, Oxford University Press, 1998, p. 102.

[14] Ibid., p. 103.

[15] Ibid., p. 105.

[16] Cfr. Das Musiktheater in den audiovisuellen Medien: «…Ersichtlich gewordenen Taten der Musik» , hrsg. von Peter Csobádi, Gernot Gruber, Jürgen Kühnel, Ulrich Müller, Oswald Panagl und Franz Viktor Spechtler, Vorträge und Gespräche des Salzburger Symposions, 1999, Anif-Müller-Speiser, Salzburg, 2001.

[17] Stralci del dibattito critico sollevato da Peter Sellars sono presenti in Andrew Porter, Mozart on the Modern Stage, «Early Music», 20/1, febbraio 1992, Performing Mozart’s Music II, pp. 132-138; e in Richard Trousdell, Peter Sellars Rehearses «Figaro», «The Drama Review», 35/1, Spring 1991, pp. 68-69.

[18] Per un inquadramento generale sull’autore rimando a Peter Sellars, a cura di Maria Delgado e Valentina Valentini, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999; Peter Sellars, a cura di Frédéric Maurin, Paris, CNRS, 2003.

[19] Si può ricordare a questo proposito come la messa in scena dell’opera Zaide al Festival mozartiano presso il Lincoln Center (New York) nel 2006 sia stata preceduta da un dibattito sulla schiavitù contemporanea, ispirato ai contenuti dell’opera di Mozart.

[20] Una delle ragioni del fallimento sarebbe proprio il fatto che «the American regional theatre is usually not very capable of supporting a certain centrist entry into civic life. For most Americans theatre is a side issue, theatre is over there, it doesn’t concern them ». La citazione è tratta da un’intervista concessa da Peter Sellars a Richard Trousdell, riportata in Peter Sellars Rehearses «Figaro», cit., p. 70.

[21] Ibid., p. 67.

[22] Ibid., pp. 69-70. Osserva inoltre Marcia Citron: «The basic idea is that because we cannot recoup the reactions of eighteenth-century audiences to the shock value and avant-garde aspects of these works, we have to recast them in the "image-language" of today. That means the contemporary United States, which provides the means to access the core of the work. Furthermore, he believes that the modern setting does not exist for its own sake or to critique American culture but to serve dramatic ends » (Citron, Opera on Screen, cit., p. 215).

[23] Peter Sellars, Exits and Entrances: On Opera, «Artforum», 28/4, December 1989, p. 23.

[24] A titolo di esempio, si veda l’attenta analisi della regia di Sellars svolta da Maria Martino, Un’interpretazione registica di Peter Sellars: «Theodora» di Händel, tesi di laurea triennale in Musicologia, Università degli Studi di Pavia, a.a. 2004-2005, relatore prof. Michele Girardi, consultabile all’indirizzo: http://musicologia.unipv.it/girardi/MM-Sellars.pdf.

[25] David Littlejohn, Reflections on Peter Sellar’s Mozart , «Opera Quarterly», 7/2, Summer 1990, p. 20.

[26] In particolare Don Giovanni è stato rappresentato per la prima volta a Manchester (Vermont) e quindi a Pepsico nel 1987; l’edizione del DVD della Decca, cui si fa qui riferimento, è del 1991.

[27] Terry Donovan Smith, Shifting Through Space-Time: A Chronotopic Analysis of Peter Sellar’s «Don Giovanni», «Modern Drama», 39/4, Winter 1996, p. 676.

[28] Leporello «is the representative of the reality principle, […] he is our own representative, who, while waiting before the house in which his master attempts his seduction, introduces the opera, thereby setting our perspective » (Mladen Dolar, Don Giovanni, in Slavoj Zizek – Mladen Dolar, Opera second Death , London-New York, Routledge, 2002, p. 46).

[29] Citron, Opera on Screen, cit., pp. 240-242.

[30] La definizione è di Charles Coffin, Why are they singing?, «Boston Observer», 1/0, Avril 1981, p. 19.

[31] Isabelle Moindrot, Ténèbres et lumières. Peter Sellars, metteur en scène de Haendel et de Mozart, in Peter Sellars, a cura di F. Maurin, cit., p. 37.

[32] Donovan Smith, Shifting Through Space-Time , cit., p. 673.

[33] Ibid., p. 669. Per la verità spesso la strada svolge anche la funzione simbolica di soglia, dal momento che rappresenta un’interfaccia tra i luoghi chiusi e quelli aperti, tra l’interiorità e l’esteriorità.

[34] Sintomatico il fatto, osservato da David Littlejohn e Terry Donovan Smith, che Donna Anna cerchi riparo non fuori da un palazzo ma al suo interno. Parallelamente le botole da cui fuoriescono, nel finale, tutti i condannati, rimandano all’estensione della strada in superficie e finanche in profondità, fino a una dimensione ‘infraumana’.

[35] Sullo statuto dell’immagine cinematografica nel panorama postmoderno rimando almeno a: Norman Kent Denzin, Images of Postmodern Society: Social Theory and Contemporary Cinema, London, Sage Publications, 1991; Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Milano, Bompiani, 2000; Antonio Negri, Ludici disincanti. Forme e strategie del cinema postmoderno, Roma, Bulzoni, 1996.

[36] Seguo a questo riguardo l’interpretazione di Massimo Mila, Lettura del «Don Giovanni», Torino, Einaudi, 2000 (1^ ed. 1988), pp. 45-54 e le sue fonti: Pierre-Jean Jouve, «Il Don Giovanni di Mozart», Milano, Adelphi, 2001 e Hermann Abert, W.A. Mozart. La maturità 1783-1791, Milano, Il Saggiatore, 1985. Brevi considerazioni sono svolte anche da Loredana Lipperini, Don Giovanni. Il potere della seduzione, la musica, il mito, Roma, Castelvecchi, 2006 (1^ ed. 1987), pp. 126-129.

[37] Hernry Jenkins, Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007, p. xxxvii (tit. orig. Convergence Culture, New York, New York University, 2006). L’idea è condivisa da numerosi studiosi; basti citare al riguardo Lisa Gitelman, Always Already New: Media, History and the Data of Culture, Cambridge (Mass.), MIT, 2006 e Francesco Casetti, Communicative Negotiation in Cinema and Television, Milano, Vita e Pensiero, 2002.

[38] Casetti, Communicative Negotiation in Cinema and Television , cit.

[39] Alberto Marinelli, Prefazione. Dallo «spazio dello scrivere» alla «rimediazione», in Jay David Bolter – Richard Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini e Associati, 2002, p. 17.

[40] «È importante sottolineare che la logica dell’immediatezza trasparente non convince necessariamente lo spettatore, in modo ingenuo e quasi magico, che la rappresentazione è esattamente ciò che essa rappresenta» (Bolter – Grusin, Remediation, cit., p. 55). Bolter e Grusin citano come esempio le prime proiezioni cinematografiche durante le quali gli spettatori, pur sapendo di non essere di fronte alla realtà – ma a una sua rappresentazione – manifestava sentimenti di paura o di stupore, per la ‘credenza’ instaurata nei confronti delle immagini (e il loro effetto di realtà).

[41] Ibid., p. 59.

[42] Ibid., p. xxv.

[43] Francesco Casetti, L’esperienza filmica e la ri-locazione del cinema, «FataMorgana», 4, gennaio-aprile 2008, pp. 23-40. L’esperienza filmica e la rilocazione del cinema: una traccia di lavoro, mimeo, dispensa del corso di Pragmatica della Comunicazione mediale, Università Cattolica, a.a. 2007-2008, p. 7.

[44] Ibid., pp. 12-13.

[45] In merito rinvio a Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Roma, Nottetempo, 2006.

[46] Il problema è ampiamente posto in Georges Didi-Huberman, Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, Paris, Minuit, 2000 (per la traduzione in italiano ringrazio Alice Cati e Miriam De Rosa, che stanno lavorando su questi temi, per le suggestioni offertemi (cfr. Alice Cati, Dedali e spiriti erranti. Il museo-labirinto in «Arca Russa» di A. Sokurov; e Miriam De Rosa, To Look to Wander: Cinema in Installations, di prossima pubblicazione).

[47] Michel Foucault, Des spaces autres (conferenza al Centre d’études architecturales , 14 marzo 1967), «Architectures, Mouvement, Continuité», 5, octobre 1984, tr. it. Eterotopie, ora in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, vol. 3 1978-1985, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 310.

[48] Basti pensare, a questo riguardo, al frequente ricorso alla metafora teatrale in ambiti di ricerca eterogenei, dalla prospettiva drammaturgica adottata da Erving Goffman all’antropologia della performance di Victor Turner.

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