LANNUTTI – CARACI, «Vous avez bu l’amour et la mort». Il mito di Tristano e Isotta nella rilettura di Bédier e Martin :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Maria Sofia Lannutti – Maria Caraci Vela

 

«Vous avez bu l’amour et la mort». Il mito di Tristano e Isotta nella rilettura di Bédier e Martin

 

 

Le vin herbé segna, nel percorso ininterrotto di ricerca e di maturazione stilistica di Frank Martin, la tappa più importante, un punto di arrivo ma contestualmente anche un nuovo punto di partenza, come Piguet sintetizzava nel corso degli Entretiens: «Il ne faut pas oublier que Le vin herbé est votre oeuvre fondamentale où nous pouvons trouver tout votre style et le génie de votre expression à l’état pur; toute votre évolution future est comme déjà contenue dans Le vin herbé».[1]

L’opera, cui l’autore faceva sempre riferimento per dare chiarimenti circa il suo modo di lavorare, la sua estetica, le sue tecniche compositive, i suoi rovelli,[2] è stata studiata sotto diverse angolazioni,[3] e costituisce un buon punto di osservazione per valutare il lascito di Martin in modo meno rigido e dogmatico di quanto non si sia fatto nel passato: ciò che André Baltensperger, nel suo importante saggio del 1991 sulla genesi del Concerto per violino, dichiarava dovere urgente della musicologia.[4] All’interno della tavola rotonda sul tema Frank Martin, o la misura della ricerca, che ha inteso accogliere quella sollecitazione, questa doppia relazione su Le vin herbé si è proposta di mettere a fuoco da un lato la natura dell’operazione culturale condotta da Bédier nel Roman de Tristan et Iseut, e dall’altro, gli stimoli che spinsero Martin a scrivere un’opera su quel testo, e a portare a maturazione quella particolare sintesi stilistica, ritenuta esemplare nella sua produzione.

 

 PARTE PRIMA

di Maria Sofia Lannutti

 

Il «Roman de Tristan et Iseut» di Joseph Bédier e il suo impiego nell’oratorio «Le vin herbé»

 

Il Roman de Tristan et Iseut di Joseph Bédier viene stampato nel 1900,[5] ma la sua stesura risale in realtà al 1896, anno in cui nel XXV volume della rivista «Romania» si annuncia che Bédier ha cominciato a lavorare all’edizione del Tristan di Thomas, dopo la rinuncia del filologo tedesco Ferdinand Vetter e contemporaneamente alla stesura di una versione in francese moderno.[6] Il lavoro filologico sul Tristan di Thomas, presumibilmente iniziato nel 1895, si intreccia dunque con la stesura del Roman, che avrà comportato un’assimilazione e una meditazione delle differenti redazioni medievali della leggenda non senza ripercussioni sul lavoro filologico. Durante gli anni che separano la stesura del Roman dall’edizione del Tristan di Thomas, che verrà pubblicata tra il 1902 e il 1905,[7] e dall’edizione delle Folies Tristan, pubblicata nel 1907,[8] si può ritenere che Bédier abbia approfondito lo studio della leggenda, conseguendo dei risultati di tipo storico-metodologico che superano la visione espressa nel Roman e al contempo la approfondiscono e la precisano, cioè dipendono da essa. Nella stesura del Roman viene sviluppata per la prima volta, con ogni probabilità, l’idea di un archetipo della leggenda, di un Urtristan, che sarà centrale in sede scientifica e che era già comparsa in un articolo del 1886, in cui Bédier pubblicava la versione in prosa della parte finale della leggenda tràdita dal manoscritto fr. 103 della Bibliothèque nationale de France. Questa versione sarà riproposta in appendice all’edizione del Tristan di Thomas e costituirà una delle fonti del capitolo finale della riscrittura.[9]

 

Pubblicato con una prefazione di Gaston Paris, maestro di Joseph Bédier, su cui avremo modo di riflettere, il Roman de Tristan et Iseut riscuote immediatamente un successo davvero formidabile, che perdurò per molti anni, tanto da rappresentare un vero e proprio caso editoriale. Si pensi che si contano 576 edizioni francesi, l’ultima delle quali del 1980, e che il romanzo fu tradotto in più di trenta lingue fino almeno al 1988.[10] Qualche anno dopo la pubblicazione del romanzo, nel 1903, Bédier succede a Gaston Paris sulla cattedra di lingua e letteratura francese del Medioevo al Collège de France. Paul Meyer, anch’egli allievo di Paris, scrive in una lettera a Adolf Tobler di essere in disaccordo sulla candidatura di Bédier: Bédier è un «bon diable», scrive Meyer, ma è davvero «peu philologue».[11] Meyer era allora l’esponente più autorevole dell’École des Chartes, espressione della più rigorosa tradizione filologica francese, e non è improbabile che il suo giudizio su Bédier, come ha notato Lino Leonardi in un intervento sui rapporti tra Paris e Bédier,[12] fosse influenzato dal successo del Roman de Tristan et Iseut, in cui i testi medievali sono interpretati e ricreati per offrire a un pubblico non certo di addetti ai lavori un prodotto che agli occhi di Meyer doveva apparire come puramente divulgativo.

 

Nel gennaio del 1872 Gaston Paris firma l’articolo introduttivo del primo numero della rivista «Romania». Come è stato riconosciuto ormai da tempo, oltre che da Alain Corbellari nel libro su Bédier, da Giovanni Fiesoli nel suo lavoro sulla genesi del lachmannismo e da Ursula Bahler nel libro su Paris,[13] «Romania» costituisce «la risposta francese a Germania di K. Bartsch».[14] L’articolo di Paris contrappone la cultura romanza a quella germanica, evidenziando la superiorità del mondo neolatino, la cui ampiezza e varietà non impediscono una sostanziale coesione, sull’idea di un’omogeneità razziale, e attribuisce alla rivista un ruolo di grande importanza, il compito di far rivivere, attraverso lo studio delle lingue e delle letterature romanze, lo spirito di civilizzazione, che è insito nella cultura latina e che storicamente, secondo Paris, subisce una battuta d’arresto a causa delle invasioni dei popoli germanici. Siamo nella fase più acuta del revanscismo, all’indomani della sconfitta di Sedan e dell’esperienza della Comune. L’idea dei fondatori di «Romania» era di riappropriarsi della propria letteratura e di reimpostare i metodi filologici per dare una nuova luce scientifica agli studi romanzi in Francia, per dimostrare la superiorità dei filologi romanzi francesi rispetto ai colleghi tedeschi. In effetti si può dire, come sottolinea Leonardi nell’intervento a cui ho già accennato sulla scorta delle osservazioni di Formisano e Ridoux,[15] che questo obiettivo fu perseguito anche attraverso la rivendicazione di un primato francese nell’applicazione del metodo stemmatico ai testi romanzi.[16] Sta di fatto che l’edizione di Paris della Vie de saint Alexis, fondata su un metodo di tipo genealogico, su principi di tipo lachmanniano, finisce per assumere il valore di un modello che apriva la strada a un rinnovamento metodologico. Leonardi ha anche messo in evidenza alcune zone d’ombra nell’atteggiamento di Bédier rispetto al ruolo di caposcuola in ambito ecdotico assunto e all’occorrenza rivendicato dal suo maestro Paris.[17] È noto che nell’edizione del Lai de l’Ombre del 1913 e poi nel contributo del 1928 Bédier attribuisce a Lachmann il metodo della ricostruzione stemmatica attraverso gli errori comuni,[18] con una forzatura che è stata messa in luce nel citato libro di Fiesoli.[19] Leonardi sottolinea inoltre l’assenza di qualsiasi riferimento all’edizione della Vie de saint Alexis di Paris, interpretando la circostanza come espressione della volontà di Bédier di negare al suo maestro un ruolo fondativo, come una testimonianza del rapporto conflittuale, se non antagonistico, che li legava.[20] Credo tuttavia che la scelta di Bédier possa essere spiegata anche con altri argomenti. Penso in particolare al suo antigermanismo, che andava molto al di là dell’antigermanismo espresso da Paris nell’editoriale di «Romania», era un convincimento ben più profondo, duraturo e radicale, come rivelano diverse circostanze della sua biografia, su cui tornerò. La filologia di tipo genealogico, sostenuta e praticata da Paris, era di matrice tedesca, e la scuola tedesca, in particolare berlinese, la cui autorità era sicuramente preminente, riconosceva in Lachmann il proprio indiscusso maestro.[21] Ed è allora probabile che l’attribuzione arbitraria del metodo degli errori comuni a Lachmann da parte di Bédier e la sua contestuale demolizione vadano lette, oltre che come espressione della volontà di ridimensionare il ruolo di Paris ex silentio, anche come manifestazione di un antigermanismo pervasivo. Le obiezioni di Bédier a Paris si coniugano d’altra parte con l’antigermanismo anche per quanto riguarda la critica verso le teorie di stampo romantico sulle origini dei fabliaux, delle chansons de geste, della stessa leggenda di Tristano e Isotta, come vedremo meglio, teorie che erano state sostenute e promosse soprattutto dalla scuola tedesca.[22] E non è da sottovalutare il fatto che proprio l’antigermanismo abbia potuto incoraggiare l’approdo di Bédier in sede strettamente filologica a un metodo che rifugge da ogni ricostruzione ideale, da ogni interpretazione fondata sull’idea romantica di popolo, di cultura popolare, in fin dei conti su ogni dogmatismo, per insistere sulla necessità di attenersi ai documenti, ma anche sulla necessità del dubbio, su uno scetticismo che appare doveroso, inevitabile.[23]

 

Il capitolo del libro di Corbellari dedicato al periodo della Grande Guerra ci rivela con chiarezza l’antigermanismo di Bédier, che negli anni del primo conflitto mondiale si manifestò anche pubblicamente e ufficialmente.[24] Prima di essere antitedesco Bédier era patriota. Divenne ufficiale dell’Académie nel 1893, «officier de l’instruction politique» nel 1902, Officier della Legione d’Onore nel dicembre del 1912. La sua carriera nella Legione d’Onore procederà fino al conferimento della Grande Croix nel 1937.[25] Durante il primo conflitto mondiale Bédier fu incaricato dal ministero della guerra di curare la pubblicazione di un pamphlet intitolato Les Crimes allemands d’après les témoignages allemands, che fu tradotto nelle principali lingue europee e diffuso in tutto il mondo. Alla pubblicazione i tedeschi risposero rifiutando le accuse. Bédier pubblicò allora una seconda brochure dal titolo L’Allemagne essaye de justifier ses crimes, e poi riunì i due pamphlet in un unico volume dal titolo Les Violations des lois de la guerre par l’Allemagne. Siamo nel 1915. A questi scritti ne seguiranno altri dello stesso tenore. In una lettera alla marchesa Arconati-Visconti Bédier considera il libro che riunì i primi due pamphlets migliore dei suoi monumentali studi sulle leggende epiche: «Je n’en suis plus content que de mes Légendes épiques, car il fera crier les Allemands de colère et d’humiliation».[26] In esso è chiara l’idea di un complotto tedesco destinato a distruggere l’umanità, e questa idea non lo abbandonerà fino alla morte, avvenuta proprio nel 1938, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, se è vero, come ci informa più di un necrologio, che a qualcuno che gli domandava, diverso tempo dopo il trattato di Versailles, come mai la Grande Guerra non avesse prodotto poemi epici Bédier rispose «Parce que la Guerre du 14-18 n’est pas finie…».[27]

 

Nell’assunto fondamentale del maggiore tra i suoi lavori scientifici (i quattro volumi delle Legendes épiques, pubblicati dal 1908 al 1913), cioè la dimostrazione della matrice colta e non folclorica dei poemi epici e della loro origine francese, l’antigermanismo di Bédier si percepisce soprattutto come affermazione dell’identità nazionale sin dal medioevo. Lo testimonia anche la ricezione dell’opera, a cui fu attribuito un importante riconoscimento, il Prix Gobert, con la motivazione di aver comprovato «notre génie national à une époque où il était vraiment initiateur dans tous les domaines de l’action, de la pensée et de l’art». Si tratta dunque di un’opera di interesse nazionale, di un’opera di «résurrection», come si legge in un articolo giornalistico del tempo.[28] Ma il nazionalismo di Bédier appare con chiarezza già nella fase precedente della sua attività scientifica, dedicata alla leggenda di Tristano e Isotta.

Come rileva Corbellari nel citato capitolo dedicato agli studi tristaniani di Bédier, nel secondo volume dell’edizione del Tristan di Thomas, Bédier sostiene un argomento fondamentale ai fini del nostro discorso, cioè che si può parlare di leggenda di Tristano solo in relazione al romanzo di Tristano concretamente inteso. Secondo Bédier la storia di Tristano e Isotta non ha origini remote, in una mitologia indoeuropea, non è una leggenda celtica, ma esiste come opera narrativa dal momento in cui è stato creato un roman anglonormanno nel XII sec., un roman francese. Gli elementi celtici, cioè folclorici, ci sono, ma sono, secondo Bédier, tutto sommato irrilevanti per quantità e importanza. Sempre nel secondo volume dell’edizione del Tristan di Thomas, Bédier sostiene che è necessario immaginare un romanzo francese composto verso il 1120 al più tardi, cioè in epoca contemporanea alla Chanson de Roland, e che questo romanzo è opera di un uomo di genio che ha saputo organizzare coerentemente la materia tristaniana. Bédier si spinge anzi oltre, riproponendo e sviluppando l’idea di un Urtristan, di una versione archetipica della leggenda dalla quale dipendono le versioni conosciute e che comunque può essere ricostruita solo a partire dai testi che ci sono pervenuti. In sede scientifica, di questa versione Bédier delinea infatti solo i tratti essenziali, gli episodi, non si spinge a ricostruire il racconto. Lo fa invece proprio con la stesura del romanzo, la cui suddivisione in capitoli non è molto lontana dalla scansione in episodi dell’archetipo, come ha sottolineato Corbellari. Trova quindi conferma in questa analogia l’idea di un legame tra il Roman de Tristan et Iseut e l’elaborazione dell’archetipo della leggenda, l’idea di una sinergia tra la stesura del romanzo e la definizione della valutazione storico-filologica che sarà sviluppata in sede scientifica.

Nel Roman de Tristan et Iseut, Bédier affida a una breve nota preliminare la descrizione sommaria delle fonti dei diversi capitoli. Dalla nota apprendiamo che lo scrupolo primario di Bédier consiste nell’evitare ogni anacronismo, per cercare di ottenere da se stesso di non mescolare la mentalità moderna alle antiche forme di pensiero e di sentire:

Comme M. G. Paris l’a trop bienveillamment exposé, j’ai tâché tout mélange de l’ancien et du moderne. Écarter les disparates, les anachronismes, le clinquant, vérifier sur soi-même le Vetusta scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus, ne jamais mêler nos conceptions moderne aux antiques formes de penser et de sentir, tel a été mon dessein, mon effort, et sans doute, hélas!, ma chimère.[29]

 

La certezza di aver fallito nell’obiettivo di rimanere fedele alla mentalità medievale non può dirsi smentita dai risultati della riscrittura, se è vero che il Roman di Bédier può essere considerato per molti aspetti, come vedremo meglio, un romanzo simbolista.

I diciannove capitoli sono introdotti da un’epigrafe, e le epigrafi appaiono come un distillato della narrazione, dalla grande forza evocativa. Le riporto di seguito, secondo la lezione del romanzo di Bédier, con il numero e il titolo del capitolo che introducono.

 

I

Les enfances de Tristan: Da woerest zwáre baz genant: / Juvente bele et la riant.

(Gottfried von Strassbourg)

II

Le Morholt d’Irlande : Tristrem seyd: «Ywis, / Y wil defende it as knizt».

(Sir Tristrem)

III

La quête de la Belle aux cheveux d’or : En po d’ore vos oi paiée / O la parole do chevol / Dont je n’ai puis eü grant dol.

(Lai de la Folie Tristan)

IV

Le philtre : Nein, ezn was nith mit wine, / doch ez im glich woere, / ez was diu werbde swaere, / diu ende lôse herzenôt / von der si beide lâgen tôt.

(Gottfried von Strassbourg)

V

Brangien livrée aux serfs : Sobre totz avrai gran valor, / s’ailtals camisa m’es dada, / Cum Iseus det a l’amador, / Que mais non era portada.

(Rambait, comte d’Orange)

VI

Le grand pin : Isot ma drue, Isot m’amie, / En vos ma mort, en vos ma vie!

(Gottfried von Strassbourg)

VII

Le nain Frocin : Wé dem selbin getwerge, / Daz er den edelin man vorrit!

(Eilart d’Oberg)

VIII

Le saut de la chapelle : Qui voit son cors et sa façon, / Trop par avroit le cuer felon / Qui nen avroit d’Iseut pitié.

(Béroul)

IX

La forêt du Morois : Nous avons perdu le monde, et le monde nous; que vous en samble, Tristan, ami? – Amie, quand je vous ai avec moi, que je fault-il dont? Se tous li monds estoit orendroit avec nous, je ne verroie fors vous seule.

(Roman en prose de Tristan)

X

L’ermite Ogrin : Aspre vie meinent et dure: / Tant s’entraiment de bone amor / L’uns por l’autre ne sent dolor.

(Béroul)

XI

Le gué aventureux : Oyes, vous tous qui passez pa la voie, / Venez ça, chascun de vous voie / S’il est douleur fors que la moie. / C’est Tristan que la mort mestroie.

(Le Lai mortel)

XII

Le jugement par le fer rouge : Dieu i a fait vertuz. (Béroul)

XIII

La voix du Rossignol : Tristan defors e chant e gient / Cum russinol que prent congé / Em fin d’esté od grant pitié.

(Le Domnei des amanz)

XIV

Le grelot merveilleux : Ne membre vus, ma bele amie, / D’une petite druerie?

(La Folie Tristan)

XV

Iseut aux Blanches Mains : Ire de femme est a duter, / Mult s’en deit bien chascun garder / Cum de leger vient lur amur, / De leger revient lur haïr.

(Thomas de Bretagne)

XVI

Kaherdin : La dame chante dulcement, / Sa voiz acorde a l’estrument. / Les mains sont bellese, li lais bons, / Dulce la voix et bas li tons.

(Thomas)

XVII

Dinas de Lidan : «Bele amie, si est de nus: Ne vus sans mei, ne jo sans vus».

(Marie de France)

XVIII

Tristan fou : El beivre fu la nostre mort.

(Thomas)

XIX

La mort: Amor condusse noi ad una morte.

(Dante, Inf. Ch. V)

 

Solo sette epigrafi sono tradotte nei corrispondenti capitoli. Le altre dodici stabiliscono invece un gioco di rimandi talvolta molto complesso, sia interni, cioè ad altri capitoli del romanzo, sia esterni, ad altri testi, anche di materia non tristaniana. Nei capitoli che saranno ripresi da Frank Martin in diversa misura, come vedremo, cioè il IV nella prima parte, il IX-X nella seconda, e il XV-XIX nella terza, sono rappresentate tutt’e tre le tipologie di epigrafe. Nei capitoli IV e X l’epigrafe si trova tradotta nella narrazione. Nel XV, dedicato all’esilio di Tristano e alla sua unione con Isotta dalle Bianche Mani, l’epigrafe anticipa quello che accadrà alla fine della storia, nell’ultimo capitolo, cioè il tradimento di Isotta dalle Bianche Mani, che mente a Tristano per gelosia, provocandone la morte. E nell’ultimo capitolo, la citazione del quinto canto dell’Inferno apre a una prospettiva universale, il triste destino degli amanti di tutti i tempi, e tra questi anche Tristano.

Il prologo all’inizio del primo capitolo («Seigneurs, vous plaît-il d’entendre un beau conte d’amour et de mort? C’est de Tristan et Iseut la reine. Ecoutez comment à grand’ joie, a grand deuil ils s’aimèrent, puis en moururent un même jour, lui par elle, elle par lui»)[30] riprende quasi alla lettera l’inizio del Lai du Chevrefoil (vv. 7-10: «de Tristan e de la reïne / de lur amur ki tant fu fine, / dunt il ourent meinte dolur; / puis en morurent en un jur»), esempio di racconto succinto e evocativo, il più breve, con i suoi 118 versi, dei lais di Maria di Francia. E si conclude con la traduzione di due versi di Eilhart von Oberg (vv. 44-45: «und wie sie dorch in irstarp, / her dorch sie und sie dorch in» ‘e come ne morirono, lui per lei e lei per lui’), il primo dei quali si sovrappone all’ultimo di Maria di Francia, a cui si deve tuttavia la specificazione «en même jour», mentre il secondo corrisponde alla chiusa «lui par elle, elle par lui».[31] Il prologo può essere dunque considerato un’ulteriore epigrafe, ha la stessa funzione delle epigrafi, anche se è realizzato con una tecnica più raffinata, che stempera il sofisticato sincretismo nella traduzione in francese moderno.

Il distillato rappresentato dalle epigrafi e dal prologo è associato a un testo in cui appare già costante la ricerca della sintesi, della concisione, come frutto sia di una scelta, dei modelli e nei modelli, sia di un processo di semplificazione, che si può annoverare tra le principali caratteristiche della scrittura di Bédier.[32] Questa tendenza alla condensazione va vista a mio avviso alla luce del simbolismo inteso come arte di raffinamento, di riduzione della materia verbale a quintessenza, che vede la sua massima espressione nella poesia simbolista francese e in particolare in Mallarmé.

L’idea che il romanzo di Bédier sia un romanzo simbolista non è nuova. Già Ferdinand Lot, allievo e biografo di Bédier, ne sottolineava la modernità,[33] ma è ad Alain Corbellari che si deve una compiuta interpretazione in chiave simbolista. Corbellari ritiene tuttavia che il romanzo, nonostante l’inevitabile connotazione antiwagneriana data dal forte sentimento antitedesco di Bédier, sia in realtà costruito come un’opera di Wagner.[34] Lo dimostrerebbe in primo luogo la ricorrenza di elementi altamente simbolici, ad esempio l’anello di quarzo verde che Isotta dona a Tristano e che diventa il suo segno di riconoscimento. Secondo Corbellari la ricorrenza di elementi simbolici equivarrebbe al Leitmotiv wagneriano, ne costituirebbe un corrispettivo letterario. Credo invece che l’interpretazione delle ripetizioni, che indubbiamente caratterizzano la scrittura di Bédier, possa essere precisata prendendo le distanze da Wagner e dal Leitmotiv wagneriano e sottolineando il carattere marcatamente formulare della scrittura di Bédier.

In Wagner il Leitmotiv è funzionale ad esaltare la rappresentazione mitica ed eroica e a potenziare la componente drammatica. Nel romanzo di Bédier, al ripetersi di situazioni e stati d’animo mi sembra piuttosto corrispondere un’ideale di semplicità, anche se si tratta di una semplicità che rimane di fatto inattingibile, il tentativo, destinato a fallire, di fissare delle coordinate, le linee-guida di una realtà che rimane sfuggente. D’altra parte l’ambiguità che traspare dal racconto è già insita nelle opere medievali, e Bédier non fa altro che esaltarla. Significativa è la conclusione dell’episodio, nel cap. VIII, in cui Tristano sottrae Isotta al lebbroso Yvain al quale re Marco l’aveva consegnata nell’intento di infliggerle una pena più dura della morte. Il personaggio Tristano di Bédier non può mai essere spietato, neppure quando gli autori medievali lo descrivono come tale, e per questo è incapace di colpire Yvain: «les conteurs prétendent que Tristan tua Yvain: c’est dire vilenie», scrive Bédier (p. 93). Ma la pietà di Tristano è solo apparente, perché Yvain viene ugualmente ucciso dal fedele Governal, alter ego di Tristano, che gli assesta un colpo in testa, facendo colare il sangue fino ai suoi piedi deformi. Un’analoga contraddittorietà riguarda il personaggio del re Marco. Da un lato si sottolinea la purezza dei sentimenti del re Marco, che sono ispirati non dalla stessa pozione magica che incanta Tristano e Isotta (come vuole parte della tradizione che Bédier stigmatizza nel racconto: «Le conteurs prétendent ici que Brangien […] versa dans une coupe ce qui restait du philtre et la présenta aux époux; que Marc y but largement […]. Mais sachez, seigneurs, que ce conteurs ont corrumpu l’histoire et l’ont faussée», pp. 52-53), ma dalla tenera nobiltà del suo cuore: «Ni poison, ni sortilège; seule la tendre noblesse de son coeur» (p. 53); dall’altro si dimostra la sua efferata spietatezza nella condanna senza appello dei due amanti, che risalta dal confronto con la pietà della gente comune:

«Jugement, roi! le jugement d’abord, l’escondit et le plaid! Les tuer sans jugement, c’est honte et crime. Roi, répit et merci pour eux!». Marc répondit en sa colère: «Non, ni répit, ni merci, ni plaid, ni jugement! Par ce Seigneur qui créa le monde, si nul m’ose encore requérir de telle chose, il brûlera le premier sur ce brasier!» (p. 84);

Or, écoutez comme le Seigneur Dieu est plein de pitié. Lui qui ne veut pas la mort du pécheur, il reçut en gré les larmes et la clameur des pauvres qui le suppliaient pour les amants torturés (pp. 85-86).

 

Emerge dunque anche un tipo di coralità che può dirsi estraneo all’interpretazione wagneriana, in cui al coro è affidata una funzione celebrativa, di esaltazione dell’eroicità. Anche nelle illustrazioni del tedesco Robert Engels pubblicate nell’edizione di lusso del romanzo di Bédier, se è vero che le figure sono imponenti, più germaniche che latine, il loro atteggiamento è tutt’altro che eroico, è piuttosto di umiltà, di rassegnazione nei confronti di un destino spietato.[35]

In Wagner il Leitmotiv è un elemento pervasivo e magmatico, che pertiene al livello più profondo dell’espressione musicale.[36] Nel romanzo di Bédier, la ricorrenza di elementi simbolici è invece a mio avviso da collegarsi soprattutto alla ricerca della formularità. Si tratta dunque di ripetizioni di carattere formulare che non sono diffuse capillarmente, non sono parte integrante di una narrazione ritmata dalla reminiscenza memoriale, come è stato rilevato ad esempio per i romanzi di D’Annunzio, ma corrispondono piuttosto a un procedimento che è stato riscontrato nella scrittura prosastica di tutti i tempi, dalla Vita nova dantesca ai Contes cruels di Villiers de l’Isle Adam.[37] Nel racconto di Bédier, al ricorrere di elementi simbolici corrisponde in genere il ricorrere di uno stesso elemento formulare. Il motivo dell’anello, ad esempio, è costantemente associato al discorso che Isotta pronuncia nell’atto di donare l’anello a Tristano:

Mais dès que je l’aurai vu, nul pouvoir, nulle défense royale ne m’empêcheront de faire ce que tu m’auras mandé, que ce soit sagesse ou folie (p. 122);

Ami Tristan, dès que j’aurai revu l’anneau de jasp vert, ni tour, ni mur, ni fort château ne m’empêcheront de faire la volonté de mon ami (p. 125);

Si jamais je revois l’anneau de jasp vert, ni tour, ni mur, ni fort château ne m’empêcheront de faire la volonté de mon ami, que ce soit sagesse ou folie… (p. 177);

Je me rend pourtant, à la vue de l’anneau: n’ai-je pas juré, sitôt que je le reverrais, dusse-je me perdre, je ferais toujours ce que tu me manderais, que ce fût sagesse ou folie? (p. 202).

 

In altri casi situazioni e personaggi diversi sono accomunati da uno stesso costrutto: «Non, ce n’était pas du vin: c’était la passion, c’était l’âpre joie et l’angoisse sans fin, et la mort» (si tratta della traduzione dell’epigrafe del IV capitolo, che nella narrazione segue il grido emesso dalla serva nel momento in cui trova il vino che i due amanti berranno per calmare la loro sete: «“J’ai trouvé du vin!” leur criat-t-elle», p. 46); «Non, ce n’est pas de Brangien la fidèle, c’est de son propre coeur que vient son tourment» (ci si riferisce alla circostanza in cui Isotta, nel V capitolo, decide di far uccidere Brangania, p. 54); «Ce ne pas Brangien la fidèle, c’est eux-mêmes que les amants doivent redouter» (incipit del VI capitolo, p. 59, che mette in scena l’incontro presso il grande pino: l’affinità con il luogo precedente si estende al sintagma Brangain la fidèle); «Non, ce n’est point par craint que le roi nous a épargnés […] Non, il n’a point pardonné, mais il a compris» (il costrutto è in questo caso un po’ variato: siamo all’inizio del X capitolo, quando Tristano riflette sul comportamento di re Marco, p. 110). In altri termini, credo che nel romanzo di Bédier la ripetizione diventi uno strumento retorico inserito in una narrazione di stampo tradizionale allo scopo di tradurre modernamente l’essenza della letteratura narrativa del medioevo, che è al contempo simbolica e formulare. Funzionale a questa finalità di traduzione moderna della narrativa medievale è anche il largo uso di un lessico e di una sintassi arcaizzanti, in una sorta di mimesi linguistica, in cui è anche possibile talvolta riconoscere la struttura dei versi della poesia, come ha ben analizzato Corbellari.[38]

Il capitolo IV, sul filtro, mette in scena il momento cruciale della vicenda e rappresenta il cuore del romanzo di Bédier, che dichiara nella nota iniziale di aver attinto soprattutto dal poema di Eilhart von Oberg e secondariamente da Gottfried von Strassburg, vale a dire da due opere che sono riconducibili al filone della versione cosiddetta comune, rappresentata anche dal roman di Béroul. Il richiamo di Bédier ai due autori va tuttavia interpretato, a mio avviso, in relazione al dettato narrativo delle opere, in senso, per così dire, quantitativo, ma non riguarda l’organizzazione concettuale complessiva. Soffermiamoci, a questo proposito, sull’interpretazione del romanzo di Bédier offerta da Gaston Paris nella prefazione.

La prefazione di Paris si mantiene su toni molto accattivanti, si potrebbe dire promozionali (e d’altra parte dalla nota dell’editore che precede la prefazione si apprende l’esistenza di una committenza: «Ce travail […] a été entrepris par Joseph Bédier, sur l’initiative de Henri Piazza»), ma in essa è comunque possibile percepire l’eco della contrastante visione epistemologica che i due studiosi espressero nei loro studi scientifici. Secondo Paris, pur tenendo conto di tutti i testi tristaniani del medioevo a sua disposizione, Bédier avrebbe cercato in primo luogo di dare ai frammenti della leggenda di Tristano «la forme et la couleur que leur aurait données Béroul» (p. V), in quanto in Béroul più che in Thomas si conservano gli elementi della cultura celtica da cui deriva la leggenda di Tristano e Isotta:

Il y avait deux partis à prendre: s’attacher à Thomas, ou s’attacher a Béroul. Le premier parti avait l’avantage d’aboutir sûrement, grâce aux traductions étrangères, à la restitution d’un récit complet et homogène. Il avait l’inconvénient de ne restituer que le moins ancien des poèmes de Tristan, celui dans lequel le vieil élément barbare a été complètement assimilé à l’esprit et aux oeuvres de la société chevaleresque anglo-française. M. Bédier à préféré le second parti; (p. III)

En combinant les indications souvent bien fugitives des conteurs français, on arrive à entrevoir ce qu’a pu être chez les Celtes ce poème sauvage, tout entier bercé par la mer et enveloppé dans la forêt, dont le héros, demi-dieu plutôt qu’homme, était présenté comme maître ou même l’inventeur de tous les artes barbares. (p. VII)

 

Paris enfatizza dunque l’origine celtica della leggenda, coerentemente con l’interpretazione offerta in sede scientifica sin dal 1894 (un anno prima che Bédier cominciasse a lavorare all’edizione del Tristan di Thomas, due anni prima della stesura del romanzo), in un articolo pubblicato sulla «Revue de Paris» che ha molti punti di contatto con la prefazione al romanzo,[39] interpretazione che Bédier ridimensionerà drasticamente, come si è visto. Insomma Paris attribuisce a Bédier un’intenzione che sicuramente Bédier non ha, l’intenzione di raccogliere gli elementi celtici, folclorici, per completare l’opera di Béroul, l’intenzione di comunicare ai lettori che la storia raccontata dai poeti francesi del XII secolo era estranea al loro ambiente, e che Béroul e Thomas si sforzarono invano di adeguarla:

Je ne veux pas non plus insister sur les traits de moeurs et de sentiments barbares […]. M. Bédier, naturellement, les a recueillies avec prédilection en faisant, pour compléter l’oeuvre de Béroul, son travail d’industrieuse mosaïque. Les lecteurs les remarqueront sans peine, et sentiront combien l’histoire que nos poètes français du douzième siècle racontaient à leurs contemporains était étrangère au milieu dans lequel ils la propageaient, et avec lequel ils s’efforçaient en vain de la faire cadrer. (p. VIII)
 

Ci si può chiedere se e quanto Paris ignorasse il punto di vista di Bédier, se e quanto non fosse in grado di prevedere la svolta interpretativa che di lì a poco Bèdier avrebbe espresso negli studi scientifici su Tristano.[40] Ed è forse indicativo della complessità di rapporto tra i due studiosi il fatto che la prefazione di Paris sia stata ristampata integralmente nelle edizioni anche di gran lunga successive, cioè che Bédier non l’abbia mai messa in discussione.[41]

L’incongruenza tra la valutazione che Paris offre nella premessa e l’interpretazione della leggenda nel romanzo (e nella ricostruzione storico-culturale) di Bédier è confermata da un altro fattore di grande importanza. Mentre nella versione di Béroul l’azione del filtro è limitata, dura tre anni, tanto che allo scadere dei tre anni Tristano e Isotta rinsaviscono e, grazie all’aiuto dell’eremita Ogrin, si riconciliano con il re Marco, nella riscrittura di Bédier il filtro, e quindi l’amore-passione, ha una durata illimitata, come nel romanzo cortese di Thomas. La distinzione riguardante la durata del filtro sembra estranea alla visione di Paris, come dimostra sia la prefazione («Je rappellerais seulement que l’idée de symboliser l’amour involontaire, irrésistible et éternel, par ce breuvage dont l’action […] se prolonge pendant toute la vie […] a évidemment son origine dans les pratiques de la vieille magie celtique», pp. VII-VIII) sia l’articolo del 1894 («une conception […] de l’amour illégitime, de l’amour souverain, de l’amour plu fort que la mort […] est née et s’est réalisée chez les Celtes dans le poème de Tristan et Iseut, et forme une des gloires de leur race»).[42] Essa occuperà invece un posto di rilievo negli studi scientifici di Bédier, e in particolare nella ricostruzione dell’Urtristan. Bédier ritiene infatti che le versioni di Béroul e di Eilhart von Oberg, che attribuiscono all’azione del filtro una durata limitata, siano in realtà interpolate, cioè non risalgano all’Urtristan, abbiano assorbito una connotazione magica estranea alla leggenda originaria (il ragionamento sarà invertito di lì a poco, come è stato più volte notato, da Gertrude Schöpperle).[43] Quindi, se è vero che Béroul, e con Béroul la versione comune, occupa un posto di rilievo nella riscrittura di Bédier, anche per motivi oggettivi (si tratta del romanzo più completo e più in sintonia con lo stile asciutto, minimalista di Bédier, come nota Corbellari),[44] riguardo al principale elemento di differenziazione tra i due romanzi francesi, Bédier sceglie Thomas, interpreta cioè il tratto più marcatamente folclorico, sfumandolo, depurandolo da ciò che accresce la sua valenza magica e sottolineando la sua funzione simbolica, di simbolo dell’amore-passione e dell’amore-morte, come dimostra anche l’epigrafe del IV capitolo tratta dal testo di Gottfried von Strassburg, che viene tradotta, lo si è visto, nella narrazione: «Non, ce n’était pas du vin: c’était la passion, c’était l’âpre joie et l’angoisse sans fin, et la mort» (p. 46).

 

L’interpretazione del filtro come simbolo assume una grande importanza nell’economia del romanzo di Bédier e determina in gran parte la sua valenza letteraria, perché, innestato in una narrazione che può dirsi in sintonia con la letteratura contemporanea, gli conferisce un carattere simbolista in senso moderno. Questo punto di vista permette di mettere a fuoco il tratto dell’opera di Bédier che è forse di maggiore originalità, grazie al quale il simbolismo medievale si attualizza, evidenzia i suoi aspetti di modernità, una specifica modernità, tutta francese, lontana, lo vedremo meglio, dalla rilettura wagneriana.

Quasi in conclusione della sua prefazione, Paris allude all’opera di Wagner, quando scrive che l’idea dell’amore indissolubile e implacabile, oltre che essere

une des plus séduisante e des plus émouvantes, elle est aussi une des plus dangereuses: l’histoire de Tristan a versé jadis, on ne saurait douter, dans plus d’une âme un poison subtil, et aujourd’hui encore, préparé par le magicien moderne qui y a joint la puissance de l’incantation musicale, le breuvage d’amour à certainement troublé, peut-être égaré plus d’un cœur. (pp. XI-XII)

 

Il discorso di Paris è influenzato, mi pare, da un celebre testo di Mallarmé, pubblicato nel 1885 su «La revue wagnérienne», in cui il poeta, profondamente affascinato dal teatro di Wagner, ne prende tuttavia le distanze, rivendicando una diversità francese, un autonomo impiego del mito nella letteratura. Concetti ed espressioni di Paris appaiono anzi direttamente mutuati dal testo di Mallarmé:

Vous avez à subir un sortilège, pour l’accomplissement de quoi ce n’est trop d’aucun moyen d’enchantement impliqué par la magie musicale, afin de violenter votre raison aux prises avec un simulacre, et d’emblée on proclame: «Supposez que cela a lieu véritablement et que vous y êtes!». Le Moderne dédaigne d’imaginer; mais expert à se servir des arts, il attend que chacun l’entraîne jusqu’où éclate sa puissance spéciale d’illusion, puis consent; Tout se retrempe au ruisseau primitif: pas jusqu’à la source. Si l’esprit français, strictement imaginatif et abstrait, donc poétique, jette un éclat, ce ne sera pas ainsi: il répugne, en cela d’accord avec l’Art dans son intégrité, qui est inventeur, à toute Légende.[45] (il corsivo è aggiunto)
 

Nel dicembre del 1894 si ha la prima esecuzione del Prélude à l’après-midi d’un faune, che Debussy compose sull’omonima egloga di Mallarmé. Mallarmé restituirà al compositore un esemplare della partitura con le illustrazioni di Manet annotandovi sopra alcuni versi, che evocano con una sinestesia il motivo della luminosità: «Sylvain d’haleine première / Si ta flûte a réussi / Ouïs toute la lumière / Qu’y soufflera Debussy».[46] Nel 1902 il Pélleas et Mélisande di Debussy, anch’esso dramma di amore e di morte, si dimostra finalmente, per molti aspetti, espressione matura e altissima di un teatro musicale francese di segno opposto al teatro di Wagner.[47] In questo contesto culturale, certamente condizionato da forme di nazionalismo e di antagonismo franco-tedesco, in cui Bédier non poteva non riconoscersi, si inscrive dunque anche il Roman de Tristan et Iseut.

La riscrittura di Bédier orienta la vicenda dei due amanti in senso minimalista, antieroico. I personaggi appaiono soggiogati dal mistero, dal dubbio, dall’impotenza, dall’imprevedibilità e dall’indecifrabilità dei sentimenti e degli accadimenti; sono esaltati dalla dedizione, dalla pietà, dall’umiltà, addirittura dalla miseria. Ma soprattutto Bédier fa della leggenda di Tristano e Isotta un romanzo luminoso. Persino nelle scene notturne, persino nella vita di stenti condotta nella foresta del Morois trovano posto momenti di luce che rischiarano l’oscurità. Durante la notte dell’incontro segreto di Tristano e Isotta presso il grande pino «la lune brillait, claire et belle» (p. 68). Se è vero, come nota Corbellari, che nel capitolo del grande pino prevale l’ambientazione notturna,[48] è anche vero che si tratta di una notte rischiarata da molti elementi di luce, ad esempio il marmo bianco del castello situato nel paese meraviglioso da cui nessuno può fare ritorno che Tristano descrive a Isotta, un castello che non è illuminato dalla luce del sole, ma da mille candele, da una luce che impedisce di rimpiangere il sole:

Mais un jour, amie, nous irons ensemble au pays fortuné dont nul ne retourne. Là s’élève un château de marbre blanc; à chacune de ses mille fenêtres, brille un cierge allumé; à chacune, un jongleur joue et chante une mélodie sans fin; le soleil n’y brille pas, et pourtant nul ne regrette sa lumière: c’est l’heureux pays des vivants» (p. 66).


E di seguito, l’alba rischiara le torri del castello di Tintagel: «Mais au sommet des tours de Tintagel, l’aube éclaire les grands blocs alternés de sinople et d’azur» (loc. cit.). Nel Tristan di Wagner, questo stesso luogo non è certo l’heureux pays des vivants, ma è il paese dei morti, inesorabilmente oscuro, è il prodigioso regno della notte da cui Tristano proviene e dove desidera tornare:

Dem Land, das Tristan meint, / der Sonne Licht nicht scheint, / es ist das dunkel nächt’ge Land, / daraus die Mutter mich entsandt, / als, den im Todes sie empfangen, / im Tod sie ließ an das Licht gelangen / Was, da sie mich gebar, / ihr Liebesberge war, / das Wunderreich der Nacht, / aus der ich einst erwacht, / das bietet dir Tristan, / dahin geht er voran.

(RICHARD WAGNER, Tristan und Isolde, II, 3)

 

Nel capitolo del Morois, nel fitto della foresta, il viso di Isotta La Bionda è invaso dalla luce del sole attraverso i rami che ricoprono la capanna nel momento in cui re Marco li sorprende addormentati: «Le soleil, traversant la hutte, brûlait la face blanche d’Iseut» (p. 108). In luogo dell’oscurità del Tristano wagneriano, nel romanzo di Bédier troviamo una luminosità diffusa. Il mistero emana dalla luce e non dall’oscurità. Nel XVIII capitolo, il luogo senza ritorno in cui Tristano, travestito da folle, dichiara al re Marco di voler condurre Isotta, è una maison claire, di cristallo, fiorita di rose, luminosa al mattino quando il sole riluce: «Là-haut, entre le ciel et la nue, dans ma belle maison de verre. Le soleil la traverse de ses rayons, le vents ne peuvent l’ébranler; j’y porterai la reine en une chambre de cristal, toute fleurie de roses, toute lumineuse au matin quand le soleil la frappe» (p. 193). È il luogo descritto nelle due Folies Tristan,[49] che Bédier ripropone anche a conclusione del capitolo, enfatizzandone la valenza: «Je n’ai plus que faire céans, puisque ma dame m’envoie au loin préparer la maison claire que je lui ai promise, la maison de cristal, fleurie de roses, lumineuse au matin quand reluit le soleil» (pp. 204-205).

Ma Bédier fa della storia di Tristano e Isotta anche un romanzo corale. Nell’opera di Wagner, lo si è già accennato, la dominanza dei personaggi protagonisti è assoluta, il coro ha la funzione di esaltare la dimensione eroica dei protagonisti e l’azione drammatica. Nel romanzo di Bédier, la voce della gente comune affiora per esprimere la propria solidarietà, ad esempio, come si è visto, nei confronti dei due amanti al momento della loro condanna. Un altro esempio è contenuto nel capitolo V (Brangien livrée aux serfs), dove Isotta, assillata da infondati timori di tradimento, ordina di uccidere Brangania ai suoi servi, che impietositi la risparmieranno: «Le serfs eurent pitié. Ils tinrent conseil, et jugeant que peut-être un tel méfait ne valait point la mort, ils le lièrent à un arbre» (p. 56). Sempre nel capitolo V, la centralità del sentimento di pietà è dimostrata anche dalle parole del narratore, che sprona i lettori alla compassione per il gesto insensato di Isotta: «Non, ce n’est pas de Brangien la fidéle, c’est de son propre coeur que vient son tourment. Écoutez, seigneurs, la grande traîtrise qu’elle médita; mais Dieu, comme vous l’entendrez, la prit en pitié; vous aussi, soyez-lui compatissants» (p. 54). Nel romanzo di Bédier, dunque, è lo stesso narratore che si fa portavoce di una coralità solidale, in primo luogo verso i due innamorati, ma in generale verso i personaggi che sono vittime di un destino avverso. Una coralità solidale che assume valenza universale nell’epilogo finale, dove il narratore, rivolgendosi direttamente al pubblico, si fa portavoce degli autori medievali e dichiara che il racconto è destinato a coloro che amano, perché vi possano trovare consolazione:

Seigneurs, les bon trouvères d’antan, Béroul, et Thomas, et monseigneur Eilhart, et maître Gottfried, ont conté ce conte pour tous ceux qui aiment, non pour les autres. Ils vous mandent par moi leur salut. Ils saluent ceux qui sont pensifs et ceux qui sont heureux, les mécontents et les désireux, ceux qui sont joyeux et ceux qui sont troublés, tous les amants. Puissent-ils trouver ici consolation contre l’inconstance, contre l’injustice, contre le dépit, contre la peine, contre tous les maux d’amour! (p. 220)
 

Ma gli stati d’animo e le contrarietà che Bédier elenca sono della vita, non solo dell’amore, secondo l’eterna sineddoche che sorregge la letteratura erotica del medioevo e di tutti i tempi.
 

 

***


Senza dubbio Frank Martin ha amato molto il romanzo di Bédier, tanto da dichiarare in un suo scritto su Le vin herbé di averne potuto riprendere il testo integralmente, a riprova della sua estrema perfezione («Je pus le prendre intégralement, sans changement, ce qui est une preuve non équivoque de son extrême perfection»).[50] Credo che la principale attrattiva sia stata per Martin proprio la portata universale e attuale del romanzo, di cui è emblematico l’epilogo, che appare nella trascrizione manuale di Martin in conclusione dello stesso scritto su Le vin herbé. Ma Martin dichiara anche di essere rimasto impressionato dalla lettura del romanzo di Charles Morgan Sparkenbroke, pubblicato con successo nel 1936,[51] dove il protagonista attende alla stesura di un romanzo di Tristano e Isotta, interpretando la vicenda dei due amanti come trasposizione al contempo mitica e estetizzante della sua relazione sentimentale con la giovane Mary.[52] Il romanzo è preceduto da due epigrafi, la prima tratta dal Fedro di Platone, l’altra da una lettera di Keats a Bayley. Le epigrafi esprimono da un lato la difficoltà di evocare «the realities of that other world […] by means of the things of this world», dall’altro una visione immaginifica della vita, «the truth of Imagination». Al momento della sua immedesimazione nel personaggio di Tristano, per Lord Sparkenbroke «To imagine was to live, to live was to imagine».[53] Si tratta, com’è evidente, di tematiche pienamente simboliste, centrali anche nel resto della produzione di Morgan.

Nonostante la profonda diversità, il romanzo di Morgan rimanda per alcuni aspetti al romanzo di Bédier, oltre che per il mito di Tristano e Isotta, per il ricorrere di immagini di luminosità, immagini in cui l’oscurità è rischiarata dalla luce:

Now the rain was over. Across his patient’s had lain a steel panel of sun; the roofs and chimney-stacks were lightening and on the window-panes were thin streaks of gold; (p. 170)

White pansies would open their eyes, fir-needles sparkle on crystal threads, mossy paths gleam at the edge of the ticket; (p. 171)

Staring into the darkness whence came the muffled hiss of leaves, he saw that close to the wall of the house a glittering line was traced across the rain. From a window of the room in which they had been setting a vertical beam was projected outward between drawn curtains. (p. 292)

 

Nel passo in cui lord Sparkenbroke immagina il viaggio di Tristano e Isotta verso la Cornovaglia, il viso di Isotta, come nel romanzo di Bédier, è ancora associato alla luce: «he saw her in the forepart of the vessel, her back to him, her cheek engraved in light upon the eastern sky» (p. 184). Nella descrizione della nave di Tristano e Isotta si legge «Under the ship, the water clucked and whispered; the deck was washed in that airy translucence which, on the open sea, shines in calm weather between dusk and darkness» (p. 185). Lo stile di Morgan ha poco a che vedere con l’asciuttezza della riscrittura di Bédier, ma un comune gusto per le immagini di luce credo sia innegabile. In comune con Bédier Morgan aveva anche l’antigermanismo. Ufficiale della marina militare britannica, cadde prigioniero dei tedeschi durante la Grande Guerra e nel secondo conflitto mondiale entrò nei servizi segreti. Dopo la guerra fu a lungo critico teatrale del Times, rappresentando una delle voci ufficiali e moderate della cultura inglese.[54]

Torniamo al simbolismo. È forse superfluo sottolineare quanto in Wagner, e nel Tristan und Isolde in particolare, siano importanti le immagini crepuscolari e notturne, che segnano il passaggio dal regno della luce a quello dell’ombra, in una direzione inversa rispetto all’oscurità rischiarata dalla luce che è tratto proprio sia del romanzo di Bédier sia di Sparkenbroke. Ho già ricordato la terza scena del secondo atto del Tristano wagneriano, dove Tristano si rivolge a Isotta in presenza di re Marco e le chiede di seguirlo in una terra oscura, di segno opposto alla maison claire del Tristano di Bédier. Credo che nel romanzo di Bédier, come anche in Sparkenbroke, si senta invece l’eco di un simbolismo in cui prevale una tendenza alla clarté, di un simbolismo di matrice parnassiana, che può dirsi incarnato dal bianco glaciale e dall’Azur di Mallarmé.

Negli Entretiens sur la musique, serie di interviste rilasciate a Radio Ginevra, Frank Martin dichiara di non sentirsi né francese né tedesco, ma di sentirsi fondamentalmente svizzero: «Oui, je me sens Suisse. Au fond, je suis très heureux, et assez fier, d’être Suisse».[55] Gli Entretiens risalgono alla metà degli anni Sessanta, a un’epoca che è ormai lontana dalla guerra e dai furori nazionalistici che l’accompagnarono. Ma l’adozione del romanzo di Bédier per Le vin herbé, avvenuta alla vigilia del secondo conflitto mondiale, mi sembra invece denunciare una scelta di parte, la volontà di riferirsi all’universo del simbolismo francese. Si può anzi dire che nell’oratorio di Martin si assista a un ulteriore processo di semplificazione del testo, già semplificato da Bédier, a un’accentuazione del minimalismo, della componente antieroica e corale (la voce del narratore è costantemente affidata al coro), e al contempo a un’esaltazione della clarté, rivelata anche e soprattutto dalla scrittura musicale, come si vedrà nella seconda parte del contributo.

Le vin herbé nasce nel 1938 come oratorio in un’unica parte, tratta dal IV capitolo (Le philtre) del romanzo di Bédier, il cui testo rimane pressoché invariato. Tra il 1940 e il 1941, cioè durante il secondo conflitto mondiale, quando la politica nazista aveva ormai reso pienamente espliciti i suoi obiettivi, Martin completa l’oratorio con altre due parti. In queste parti il testo di Bédier viene in realtà parzialmente manipolato. La seconda parte riprende la conclusione del capitolo IX (La forêt du Morrois) e l’inizio del capitolo X (L’ermite Ogrin). Il primo quadro è tuttavia costituito da un mosaico di frasi riprese da più luoghi dei capitoli V (Brangien livrée au serfs), VI (Le grand pin) e VIII (Le saut de la chapelle), mosaico in cui Martin inserisce una parte originale, funzionale alla comprensione della vicenda. Anche il secondo quadro si apre con una parte di testo originale, in cui Martin sintetizza la premessa dell’episodio in cui re Marco sorprende i due amanti addormentati nella foresta, incastonandovi un’immagine di luminosità tratta dal romanzo, che riprende sia l’idea di clarté sia l’idea della casa fiorita della Folie Tristan di Oxford: «Un jour, guidé par un forestier, le roi Marc les a trouvés dormant. Dans une clairière ensoleillée, il vit la hutte fleurie»; nel romanzo: «Ils approchèrent encore, et soudain, dans une clairière ensoleillée, virent la hutte fleurie» (p. 107). Il primo quadro della terza parte è anch’esso costituito da un collage di frasi, questa volta prese dal capitolo XV (Iseut aux blanches mains). Per il resto, il testo di Bédier è privato di passaggi estranei alla rappresentazione della passione amorosa tra i due protagonisti. D’altra parte, rispetto al romanzo nella sua globalità, Martin dimostra di non essere interessato ai capitoli sull’infanzia di Tristano, sulle sue prodezze eroiche e i suoi viaggi, sui sotterfugi e gli espedienti dei due amanti, sulla malvagità dei loro avversari. Come Wagner, Martin mette in scena solo l’amore-passione, ma a differenza di Wagner, l’amore-passione di Martin non si nutre della certezza dei sentimenti, della condanna delle convenzioni, della vecchiaia, della debolezza; l’amore-passione di Martin esalta, attraverso la riduzione, gli aspetti portanti dell’interpretazione di Bédier e della tradizione narrativa medievale, insistendo sulla contraddittorietà dei sentimenti, sull’inafferrabilità del reale, sull’inspiegabilità della sofferenza e sulla sua inevitabilità. Si può anche aggiungere che con la seconda e con la terza parte l’opera di Martin finisce per corrispondere nelle sue grandi linee al Tristan di Wagner (innamoramento, relazione amorosa, morte). Ma si tratta in realtà della negazione di ogni corrispondenza.

Concludo tornando sull’epilogo, dove il narratore offre la sua storia esemplare perché vi si possa trovare consolazione, per sottolineare che nel testo di Bédier, ripreso alla lettera da Martin, esso fa seguito alla descrizione delle tombe dei due amanti, unite dall’arbusto verde e fiorito che rinasce miracolosamente nonostante i tentativi di estirparlo. Nell’ultimo entretien, Martin riporta un passo di una lettera di Haydn, in cui si sostiene che il principale compito di chi compone musica è portare pace e consolazione:

C’est bien de cette façon qu’il faut poser le problème de la responsabilité du compositeur. Ne devrions-nous pas revenir à la vision si grande, et à la fois un rien naïve, de Haydn? Ne devrions-nous pas apporter aux hommes, à l’humanité pour tout dire, la «paix et la consolation»?[56]

 

Nello stesso entretien Martin insiste sulla funzione etica della musica, il cui valore estetico ritiene imprescindibile dalla verità: il compositore deve mettersi al servizio non dell’espressione ma di ciò che è necessario esprimere: «Cela signifie au fond que la musique ne doit guère se mettre au service de l’expression de soi, comme on l’a longtemps cru, mais qu’elle doit se mettre au service de cela qui est à exprimer; c’est alors que surgit la vraie beauté, qui est vérité, et qui fonde la perfection purement esthétique», commenta l’intervistatore a chiarimento delle affermazioni di Martin.[57] Di fronte alla tragedia della guerra, la verità, per Martin e per il mondo intero, non può che essere la speranza della pace. Nel 1944 Martin compone l’oratorio In terra pax, commissionatogli da Radio Ginevra perché venisse trasmesso al momento della cessazione delle ostilità. Secondo quanto Martin stesso esplicita, In terra pax vuole rappresentare la necessità, l’inevitabilità della pace: «l’humanité écrasée par la catastrophe et son retour à la lumière de l’espérance», «le passage de l’angoisse la plus noire à l’espoir d’un temps plus lumineux».[58] Ancora dall’oscurità alla luce. In questa prospettiva credo sia lecito pensare che nel suo assetto definitivo Le vin herbé intendesse esprimere un’alternativa di consolazione e di rinascita a quanto della cultura tedesca era diventato strumento della propaganda nazista, icona di una politica di persecuzione e di morte.

Bédier muore nell’agosto del 1938, proprio mentre Martin progettava o forse già componeva la prima parte del suo oratorio, che gli era stato commissionato nella primavera di quell’anno.[59] Non sappiamo se Bédier fosse a conoscenza del progetto di Martin, ma possiamo dire che attraverso Le vin herbé il simbolismo ‘antitedesco’ di Bédier, la sua visione della letteratura e della storia sono sublimati e inglobati in un’opera di rara suggestione e di altissimo livello artistico.

 

 

 PARTE SECONDA

di Maria Caraci Vela

 

Il «Roman» di Bédier nell’interpretazione di Martin

 

È stato più sopra ricordato come nel Roman il filtro – l’elemento simbolico centrale – sia la causa immediata e ineliminabile del nascere, divampare e perdurare senza fine della passione, mentre nell’interpretazione wagneriana l’assunzione del filtro portava alla luce, con la reciproca confessione degli amanti, una passione già serpeggiante ma fino ad allora solo oscuramente allusa.[60] La solare rilettura bedieriana del mito trova una rispondenza immediata ma una declinazione diversa nel calvinista Martin, per il quale la passione – indotta, come per Bédier, dal filtro – è il portato di un destino inesorabile, di cui si possono analizzare i segni ma a cui non si può sfuggire, perchè resta fuori dal raggio d’azione della volontà e delle possibilità umane. Non esistono vie di scampo, né strategie per ingannarlo o allentarne la morsa, e qualsiasi tentativo di deviarne il corso non può che essere sterile e destinato al fallimento: come lo sarà il silenzioso delirio di rinuncia su cui si chiude l’atto della notte, così diverso da quello del secondo atto di Tristan und Isolde, dedicato al delirio della passione. Pertanto, anche il personaggio di Isotta dalle Bianche Mani, che Wagner elimina perché non funzionale alla sua visione del dramma e dunque potenzialmente inutile e dispersivo, acquista per Martin un significato preciso come simbolo dell’impossibilità d’ogni soluzione alternativa e d’ogni tentativo di fuga.

Le vin herbé nasce prima di tutto come atto del filtro, centrato appunto sul tema del destino; tra esso e il completamento dell’opera nella forma in cui fu eseguita a Zurigo nell’aprile 1942, ci sono di mezzo gli anni di guerra 1938-1941. Dal suo osservatorio isolato, Martin – che si sentiva svizzero francofono con radici culturali germaniche –[61] veniva maturando quel disagio profondo nei confronti della guerra e quel grande desiderio di pacificazione, che avrebbero trovato voce nell’oratorio Et in terra pax del 1944. In questo contesto Wagner, col bagaglio delle implicazioni che portava in quegli anni con sé, rappresentava per Martin non tanto un termine di riferimento imbarazzante, quanto piuttosto un’assenza: o, se mi si passa l’ossimoro, un’assenza silenziosamente esibita.

L’estraneità rispetto al modello di Wagner è evidente a tutti i livelli: quello dell’interpretazione del mito, dell’organizzazione formale e drammaturgica, delle tecniche compositive, della strumentazione, della vocalità.

Per quanto concerne la scelta della forma e dell’organico, condizionate dalla volontà del committente, la decisione di scrivere un ‘oratorio da camera’[62] non era soltanto un ottimo escamotage per bloccare automatici confronti col Tristan und Isolde, ma si rivelava felicemente congeniale a Martin, sempre attratto dalla composizione a pannelli chiusi, che isolano porzioni di un testo poetico o prosastico proponendo esse sole – e non il continuativo flusso dell’azione – all’attenzione dell’ascoltatore. Tutte le grandi opere vocali e strumentali di Martin sono concepite così: da Et in terra pax a Golgotha, da Le mystère de la nativité a Maria Trypticon, Le Cornet, Jedermann, fino a Et la vie l’emporta. Una struttura di questo genere ricorre anche in un’opera strumentale come Erasmi monumentum, concepita in tre parti distinte, ad illuminare tre forti aspetti del personaggio alluso: l’equilibrata padronanza di sé (Homo pro se), la Stultitiae laus (le cui parole, tradotte in francese, sono riportate, per orientamento dell’interprete e dell’ascoltatore, in capo alle pagine) e la Querela pacis (contro le dispute religiose).

Ne Le vin herbé Martin, sulla base della selezione da lui operata sul testo di Bédier, sostituisce alla dinamica della concezione wagneriana una struttura che circoscrive e blocca, come sotto i raggi di un riflettore, il movimento delle passioni e degli eventi, fissandolo in quadri racchiusi dalla cornice di Prologo ed Epilogo, e rinuncia all’impiego di possibili ‘temi conduttori’, che il testo del Roman suggeriva in abbondanza: in sintonia con l’uso – più sopra messo in luce da Maria Sofia Lannutti – che Bédier aveva fatto delle ricorrenze di elementi simbolici nella narrazione, Martin introduce invece, con velate funzioni allusive, particolari analogie musicali correlate ad analogie di situazioni. Si veda, per esempio, la menzione del filtro e del destino, e l’accostamento di amore e morte;[63] l’invocazione ai dedicatari del roman (Seigneur/seigneurs) che compare nel prologo, in due sedi all’interno della terza parte (quadro I e quadro IV), e nell’epilogo.[64]

 

Ascolto Invocazione ai dedicatari del roman

FRANK MARTIN, Le vin herbé, 2CD, Harmonia Mundi, 2007 (HMC 901935.36)
RIAS Kammerchor, Scharoun Ensemble, dir. Daniel Reuss, Sandrine Piau (Isotta), Steve Davislim (Tristan), Roland Hartmann (Duca Hoël), Hildegard Wiedemann (Isotta dalle Bianche Mani).

 



Prologo (download del file in formato MP3)

RIAS Kammerchor, Scharoun Ensemble, dir. Daniel Reuss

 



Ascolto Parte III, Quadro I (download del file in formato MP3)

Roland Hartmann (Duca Hoël), Steve Davislim (Tristan), RIAS Kammerchor, Scharoun Ensemble, dir. Daniel Reuss

 

   

Ascolto Parte III, Quadro IV (download del file in formato MP3)

Sandrine Piau (Isotta), RIAS Kammerchor, Scharoun Ensemble, dir. Daniel Reuss

 



Ascolto Epilogo (download del file in formato MP3)

RIAS Kammerchor, Scharoun Ensemble, dir. Daniel Reuss

 

La tensione cui il cromatismo tristaniano aveva sottoposto il linguaggio musicale all’altezza del 1865, non era di certo più attuale per il Martin degli anni 1938-1941. Nonostante il rapporto mai reciso con le radici tonali, il cromatismo di Martin definisce lo status della musica, e non instaura tensioni né provoca aspettative di risoluzioni. Del resto, anche rispetto al Pelléas, sempre invocato come termine di confronto per Le vin herbé, il cromatismo di Martin (entro il quale si risolve anche il personalissimo uso della serie),[65] è più radicale. Se infatti nell’opera di Debussy mutano di volta in volta, sempre chiaramente espresse, le armature di chiave che rimandano comunque ad una, per quanto ‘fluttuante’, tonalità, ne Le vin herbé questo non si verifica più. Non esiste una tonalità d’impianto, anche se ogni singolo accordo può essere leggibile tonalmente; le alterazioni sono apposte davanti ad ogni singola nota che le richieda: il cromatismo è per Martin il naturale spazio della musica e non un suo modo di essere.[66]

La clarté bedieriana, su cui ha più sopra richiamato l’attenzione Maria Sofia Lannutti, trova in Martin una sintonia profonda, e si traduce nel rifiuto di atmosfere crepuscolari e notturne, nella prevalenza del disegno sullo sfumato, nel nitore della forma scandita in episodi narrativamente e musicalmente conclusi, a fissare i momenti essenziali e i movimenti elementari della passione, dipinti col distacco di un lirismo penetrante ma contenuto: come la passione indotta dal filtro non è colpevole, crea dolore e a tratti rimorso, ma non rovelli tortuosi della coscienza, così la musica adotta, con mezzi minimalisti, un linguaggio essenziale, un tessuto armonico trasparente, in cui la libertà e la novità non coincidono mai con la complessità e l’ambiguità delle funzioni. La dimensione ‘luminosa’ della narrazione bedieriana si traduce spesso nel gioco di riverberi fra la superficie sonora offerta dagli strumenti e il canto narrativo o drammatico che su di essa si staglia, come sul piano dorato di un’icona si stagliano le figure.[67] Se queste scelte possono essere interpretate, almeno in parte, come una più o meno consapevole volontà di prender le distanze dal Tristan und Isolde, il traguardo della maturità stilistica con cui si affermava, secondo la pregnante definizione di Piguet, «le génie de votre expression à l’état pur», era stato raggiunto attraverso un itinerario in cui i modelli wagneriani non avevano avuto incidenza, né in positivo né in negativo.

Il lavoro analitico sul rapporto musica-parola condotto ne Le vin herbé è stato fondamentale per le composizioni vocali successive. A proposito di quel rapporto, che una acuta sensibilità linguistica rendeva oggetto di centrale interesse nella composizione vocale, Martin ha fatto i nomi di Lully e Debussy come principali punti di riferimento e oggetti di studio.[68] Per quanto riguarda il primo, l’impegno assunto da Martin a fornire una revisione di Armide[69] gli aveva offerto l’opportunità di analisi dirette e di molte riflessioni. Quanto a Debussy – che Martin ha sempre riconosciuto fondamentale per la propria formazione –[70] il termine di confronto più diretto è, ancora una volta, il Pelléas: ma, come si è detto, Martin orienta in maniera ad un tempo più radicale e meno carica di tensioni la base cromatica sulla quale costruisce il declamato de Le vin herbé, che applica anche e soprattutto al coro (che nel Pelléas non c’è).

Ne Le vin herbé le voci cantano esclusivamente in maniera sillabica, ad eccezione delle due esclamazioni di Isotta sulla parola chétive, poco sopra citate, in cui si dispiega in entrambi i casi un modesto (e differente) melisma.

Non c’è sempre corrispondenza tra singola voce e personaggio: il quale può parlare attraverso la compagine accordale di tre voci, o essere espresso da una voce solista. I due protagonisti hanno spazi vocali, dunque, non sempre nettamente divisi da quelli del coro, con due espansioni più ampie nella terza parte dell’oratorio: Tristano nel dialogo con Kaherdin[71] e Isotta nel viaggio verso la Bretagna.[72] La declamazione corale omofonica ricorre spesso anche nella estrema forma di raddoppi in ottave e unisoni; in diversi casi le voci cominciano in unisoni e ottave per poi dividersi al loro interno ciascuna – o solo alcune – in 2 o in 3 parti.[73] Il dominio dell’interesse armonico su quello contrappuntistico è una costante della musica di Martin, e ne Le vin herbé è assolutamente preponderante: inutile cercarvi passaggi del tipo di quelli che caratterizzano fortemente, per esempio, il Kyrie o il Sanctus del Requiem o il sapiente e multiforme contrappunto degli Psaumes de Genève. Talvolta l’omofonia degli strumenti richiama direttamente gli effetti di un declamato corale: come, per esempio, nel discorso della madre di Isotta a Brangania.[74]

Il contrappunto si riduce a movimenti essenziali quando non a semplici accenni: si veda per esempio il coro Tristan est mort,[75] dove la frequenza trasversale della breve figurazione semiminima – semiminima puntata – croma – semiminima, nonché i modesti sfasamenti fra le entrate delle voci suggeriscono semplicemente l’idea – e non la reale presenza – del contrappunto.[76]

Il compito degli strumenti è in primo luogo quello di fornire un fondale sonoro per il coro e/o i solisti; oppure, gli strumenti rispondono a funzioni dialogiche ed espressive nelle situazioni in cui, in un’apparente immobilità fisica, i personaggi sono scossi da violente emozioni. Si veda per esempio Tristan était trop faible.[77]

 

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Parte III, Quadro V (il file si apre in una nuova finestra)


 Ascolto

Hildegard Wiedemann (Isotta dalle Bianche Mani), Steve Davislim (Tristan), RIAS Kammerchor, Scharoun Ensemble, dir. Daniel Reuss (download del file in formato MP3)

 

Sul proprio modo di comporre Martin ha lasciato informazioni importanti, ed esemplificazioni che si basano proprio su Le vin herbé;[78] ha insistito sulla natura artigianale del suo lavoro[79] e soprattutto ha tenuto a distinguere la composizione su testo da quella strumentale ‘pura’. Per entrambe ha confessato il suo «besoin de prendre un point d’appui ailleurs, qui me polarise en quelque sorte»;[80] e il suo «point d’appui» è dato nel primo caso dal testo verbale e dalle sue interne articolazioni,[81] nel secondo dal superamento di una sfida del compositore con se stesso, dalla soluzione di un problema tecnico o formale:[82] ma l’emozione creativa, anche se sollecitata da stimoli extramusicali, resta espressione di dinamiche puramente musicali.[83] La composizione strumentale si fonda sull’elaborazione motivica, assai ben documentata in fase di abbozzi, e già impostata nelle particelle.[84] Ma la scrittura strumentale all’interno delle opere vocali risponde a una logica diversa. Nel caso de Le vin herbé, il tessuto connettivo degli otto strumenti fornisce, come si è detto, un accompagnamento discreto, che dà profondità e spazi di risonanza all’espressione vocale.

Per esemplificare il proprio, personalissimo uso della serie, nella nota intervista rilasciata a Piguet e confluita negli Entretiens, Martin ha citato passi da Le vin herbé;[85] lo stesso ha fatto a proposito di una tecnica compositiva, assolutamente fondamentale nella sua opera, che Piguet aveva chiamato della «fausse basse».[86] La tecnica è spiegata[87] come una costruzione di ‘accordi semplici’ la cui percezione è continuamente variata dal continuo mutare dei loro rapporti con la linea del basso, dal momento che «Il suffit du moindre déplacement dans un enchaînement harmonique pour que non pas l’effet, mais le sens même de cet enchaînement harmonique change de tout au tout».[88] Nelle parole di Piguet, «la basse se déplace elle-même et engendre par son propre mouvement, qui n’est alors plus seulement mélodique, mais harmonique, la perspective tonale».[89]

 

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Parte II, Quadro V

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Parte I, Quadro IV

 

Si tratta di un principio ampiamente sviluppato da Martin, che lo riprende da J.S. Bach, e cita in particolare un semplice esempio dall’Aria della Suite per orchestra n. 3 in Re maggiore (BWV 1068).[90]

 

Esempio musicale: Bach

Mis. 2 : Martin nega che la risoluzione del Fa sia il Sol. La percepisce invece sul Mi. Ma quando siamo sul Mi, l’accordo è già mutato per il movimento del basso. Quando la melodia arriva sul Do è sulla terza di La maggiore, ma quando arriva sul La, l’armonia è cambiata e il basso orientato diversamente. Fino alla prima cadenza questo movimento sfasato non cessa. «Toutes les notes mélodiques, lorsqu’elles sont tenues, sont ‘animées’ par le changement harmonique».[91]
 

Il richiamo a J.S. Bach – che per Martin ha rappresentato il punto di riferimento assoluto («Bach a été mon maître dès mon enfance»),[92] di valenza atemporale, sottratto ai limiti e alla necessità di ogni contestualizzazione, rimanda, pur nella sua estrema semplicità, al problema della ricezione di modelli storici nella musica di Martin, dalla cui interpretazione è dipeso come egli sia stato collocato nel panorama del Novecento musicale.

Nella formazione e nell’evoluzione stilistica di Martin, come lui stesso ha più volte esplicitamente ricordato, sono stati importanti da un lato musicisti vicini o contemporanei, da César Franck e Debussy a Ravel, Honegger, Schönberg, Stravinsky, e dall’altro pochi e isolati più remoti, sentiti come modelli trasversali nel tempo: come Haydn («Haydn est devenu pour moi un maître, précisément à cause de sa liberté et surtout de sa liberté rythmique»),[93] Chopin («On y trouve une richesse et des audaces harmoniques incroyables») e, in misura incomparabilmente superiore a tutti, appunto, J.S. Bach.[94]

Il rapporto diretto con modelli musicali che si spingono fino a due secoli indietro, e con forme e tecniche compositive del passato pre-ottocentesco – attestato da titoli come passacaglia, pavana, sonata da chiesa, ciaccona, sinfonia concertante – hanno fatto sì che Martin sia stato collocato, senza supplementi d’indagine, fra gli esponenti del neoclassicismo musicale. L’ambiguità del termine e la varietà di significati che lo hanno accompagnato in campo musicale dalla metà dell’Ottocento in poi – sulla cui utilità epistemologica non c’è accordo unanime nella musicologia attuale –[95] sono state oggetto di molte riflessioni.[96] Impiegato per designare in un primo tempo la funzione paradigmatica dei classici viennesi nei confronti di alcuni musicisti del secondo Ottocento (Brahms in primis), il termine passò poi a indicare una diffusa tendenza al recupero di tradizioni musicali e nazionali preromantiche in funzione antiwagneriana, e infine, a partire dal secondo dopoguerra, un certo tipo di composizione su ipotesto o su modello alluso, di cui gli esempi di maggior peso erano ravvisati in Stravinsky.[97]

Il termine è ambiguo e passibile di molti significati diversi: ma non può applicarsi a definire ogni tipo di attività compositiva che si sviluppi in relazione ad un modello musicale del passato, perché in tale onnicomprensiva accezione perderebbe ogni utilità e ogni pregnanza, e troverebbe motivo di applicarsi a tutte le epoche a noi note della storia della musica universale.

Giseler Schubert ha ribadito l’esistenza di declinazioni diverse di Neoclassicismo per la musica del Novecento:

Neo-classique oder Neoklassizismus meint also in der französischen Musik der Jahrhundertwende die bruchlose und organische Anverwandlung historischer Formtypen im Sinne eines ‘genetischen Zusammenhangs’ zwischen den entsprechenden formalen Verfahrensweisen, bei Stravinsky das Auseinanderbrechen historischer Formmodelle und das distanzierende, künstlich-mechanische Zusammensetzen der Bruchstücke, bei Schönberg die Differenzierung und Überschaubarkeit des komplexen motivisch-thematischen Prozesses durch eine traditionelle Formdisposition als Bezugsrahmen und schließlich bei Hindemith die originäre Formenwelt der ‘beziehungsvollen Reihung’, die satztechnisch von gewissen standardisierte Satztypen getragen wird.[98]

 

Due sono oggi i significati con cui neoclassicismo si applica generalmente in ambito musicologico, per la prima metà del XX secolo:

  1. ideale compositivo di semplificazione formale, di alleggerimento degli organici strumentali, di linearità e di chiarezza, di diatonicità e di accentuazione delle funzioni melodiche. Vi hanno afferito indirizzi come la Neue Klassizität a cui pensava Mann[99] e la Jugendliche Klassizität di Busoni[100] (o anche la Neue Sachlichkeit tedesca e la Nuova oggettività italiana);[101]

  2. musica scritta in relazione ad altra musica, da cui riprenda tipologie formali, o tecniche compositive storicamente connotate, evidenziandone l’alterità.[102] In questo significato il neoclassicismo musicale si muove entro le categorie intertestuali di architestualità, intertestualià di citazione, ipertestualità,[103] e comporta non solo la presenza – trasparente o allusa – di un modello preesistente, ma soprattutto la accentuazione della distanza storica che intercorre tra il linguaggio musicale del modello e quello dell’opera nuova,[104] che assimila, piega, elabora e distorce, rendendo percepibili come innovativi ma nel contempo anche riconoscibili come storicamente connotati stilemi e/o tecniche compositive del passato.[105]
     

Nel primo significato, il termine non calza alla musica di Martin, anche se in essa la semplicità figura effettivamente come un valore aggiunto, una eleganza suprema della composizione. Ma la semplicità di Martin, l’amore per la chiarezza e la trasparenza nell’organizzazione delle forme, nella strumentazione, nella scrittura polifonica, non nasce dal rifiuto della tradizione tardo-ottocentesca, dalla rinuncia all’ipertrofia sinfonica, alla proliferazione degli sviluppi, alla logica costruttiva dell’elaborazione tematica,[106] bensì da un più sottile processo di decantazione.[107] E soprattutto, la semplicità per Martin non porta con sé alcuna prevalenza delle ragioni lineari e melodiche: la melodia, considerata come in sé problematica e non autosufficiente, non ha per lui esistenza autonoma, ma è creata e sostanziata dall’armonia.[108] La semplicità non comporta neppure un rinnovato interesse per il diatonismo, che per Martin, almeno all’altezza cronologica degli Entretiens, si coniuga generalmente non con la composizione ‘alta’, ma piuttosto con le forme ‘leggere’ o con la sfera del comico.[109]

Quanto al secondo significato, Martin integra spesso nel proprio orizzonte creativo categorie formali e tecniche compositive del passato e, analogamente, stimoli da un quadro culturale ‘diverso’ ma non remoto: dal jazz, dal folklore spagnolo o irlandese, dalla musica popolare;[110] ma lo fa in modo da attenuarne – e non mai accentuarne – la distanza e l’alterità.

Il richiamo a forme o a tecniche altre ha una funzione forte, come fonte di stimoli creativi, nella composizione strumentale, dove il «point d’appui» consiste proprio nella ‘sfida’ lanciata da un elemento musicale estraneo o remoto rispetto alla musica eurocolta del Novecento, o dalle peculiarità timbriche e dalle possibilità tecniche di uno strumento particolare.

Fra i molti casi che si possono citare in proposito, devono essere ricordate la Petite Symphonie concertante (1944); la Passacaglia per organo (1944; rispondono alla stessa logica anche le trascrizioni d’autore), di cui ha parlato Antonio Delfino in questa sede, le ballate per strumento solista e orchestra (Ballade pour saxophone, 1938; Ballade pour flûte, 1939; Ballade pour piano, 1939; Ballade pour trombone, 1940; Ballade pour violoncelle et piano ou orchestre, 1949; Ballade pour alto, orchestre à vent, clavecin et harpe, 1972), che non prendono il loro titolo dall’aderenza ad una forma storicamente configurata, ma sfruttano le possibilità di singoli strumenti entro cornici formali che prescindono da puntuali modelli storici;[111] e soprattutto l’ardua Sonata da chiesa per viola d’amore e organo (1938, poi trascritta da Martin per flauto e organo, e per oboe d’amore e organo). In quest’ultima, commissionata dall’organista Hans Balmer, la scansione dei tempi in Andante, Allegretto alla francese (con Musette al suo interno), Adagio, richiama vagamente lo schema formale (non certo il registro espressivo, né le dimensioni, né tanto meno il linguaggio musicale) di una sonata da chiesa tardoseicentesca, ma il punto di partenza di Martin è in questo caso soprattutto l’esplorazione delle capacità timbriche ed espressive della viola d’amore in dialogo con uno strumento dotato di risorse incomparabilmente più grandi, come l’organo: «deux instruments pour lesquels je n’avais jamais rien écrit et que je n’avais jamais entendu marier leur sonorité. Rien ne m’excite d’avantage à la composition que de semblables problèmes».[112]

Nel neoclassicismo di Martin non ci sono casi à la manière de (neppure l’Ouverture en hommage à Mozart rientra in questa categoria),[113] né di musica ‘al quadrato’. La ‘parodia’ è intesa nel senso di deformazione grottesca di un modello alluso, e in relazione alla sfera del ‘comico’;[114] e non nel significato etimologicamente proprio, per secoli applicato alla musica con esiti importanti, di ‘musica sopra altra musica’.[115]

Questa tuttavia non manca certo nella produzione di Martin: e fra gli esempi di musica scritta su un ipotesto, il più perspicuo è quello dei Psaumes de Genève (commissionati per il quarto centenario dell’università di Ginevra, nel 1959), in cui Martin esperisce le possibilità costruttive della composizione su cantus firmus con ricchezza di soluzioni originali, che piegano e adeguano tecniche elaborative di quattro secoli prima. Il cantus firmus circola nelle voci, sottoposto a procedimenti contrappuntistici, canonici, di variazione, in una fitta rete di rinvii all’interno della polifonia, che saldano in un tessuto coerente ma in una trama continuamente mutevole le semplici melodie di Loys de Bèze. L’attenzione di chi ascolta (e di chi legge) viene catturata dalla inesauribile inventiva del trattamento di parafrasi; i cantus firmi impregnano la polifonia col carico dei loro rinvii ai testi devozionali cui sono legati, in una prospettiva del tutto transtemporale, che li rende a tutti gli effetti integrati nel linguaggio e nel sentire dell’oggi, senza che la distanza storica ne risulti in alcun modo esibita o enfatizzata.

Ma, fatte le eccezioni di Bach e del Salterio ginevrino, che costituiscono un patrimonio musicale profondamente interiorizzato fin dall’infanzia negli anni di formazione, il rapporto di Martin con la musica del passato è quasi sempre mediato. Ovvero: la musica del passato agisce su Martin non direttamente, ma attraverso la mediazione del presente. Martin parte dalle attualizzazioni contemporanee di modelli remoti, è attratto e ispirato da una forte mediazione moderna, e non da un diretto contatto con un più o meno lontano modello di riferimento, storicamente e/o geograficamente connotato. La letteratura dei secoli passati ha esercitato su di lui un influsso sia mediato (Hans Sachs attraverso Hoffmannsthal, François Villon attraverso Léon Bessières, la leggenda di Tristano e Isotta attraverso Bédier, per esempio) sia, più spesso, diretto (Machaut, Gréban, Ronsard, Shakespeare, Molière, Racine); la musica dei secoli passati quasi esclusivamente un influsso mediato attraverso altra musica del Novecento.[116] Opere come i Quatre sonnets à Cassandre (1921) o la Pavane couleur du temps (1920) nascono certamente dall’humus di una cultura ampia e profonda, che ammira e conosce la poesia del Rinascimento francese, le fiabe di Perrault, la musica strumentale del XVII secolo: ma il rapporto coi remoti referenti musicali si instaura in questi casi attraverso la mediazione del Ravel della Pavane pour une enfante défunte (1910), di Ronsard à son ame (1923), di Don Quichote à Dulcinée (1923). Ravel è un tramite, non un diretto modello, ma nella sua mediazione la sintonia con gli oggetti dell’evocazione musicale risulta amplificata nel filtro di un lirismo antiromantico e pudico, di una cristallina clarté della forma e del linguaggio armonico, e senza alcuna accentuazione della distanza storica tra quei referenti nominali e la musica di Martin. Del resto, Martin non è mai stato un cultore della musica ‘antica’:[117] e in proposito il suo punto di vista si direbbe assai vicino a quello di Thomas Mann, che la concepiva come un mondo di grazia e di equilibrate proporzioni, una sorta di flebile antidoto agli eccessi della febbrile eccitazione e della complessità compositiva postwagneriana.[118]

Nella presentazione di un’opera di grande finezza compositiva come i Quatre sonnets à Cassandre per mezzosoprano, flauto, viola e violoncello, Martin ha espressamente manifestato proprio questa concezione: «Les instruments d’accompagnement, la flûte, l’alto et le violoncelle, ont aidé le compositeur à créer l’atmosphère d’intimité qu’il cherchait, en enveloppant la voix d’un voile léger qui évoque les instruments anciens, en l’aidant de leur sonorités vibrant dans l’expression d’une passion brûlante, mai toute contenue».[119]

Per le opere di ispirazione medievale o rinascimentale, Martin, sensibilissimo al fascino evocativo dei loro testi poetici o prosastici, non subisce dirette sollecitazioni dalla musica della loro epoca. Se pensiamo, per esempio, al Medioevo dei Drei Minnelieder (1960) – peraltro diversissimo e lontanissimo da quello de Le vin herbé – il discorso non cambia. Il mondo dei Minnesänger è evocato con una scrittura raffinatissima,[120] ma né la natura dell’accompagnamento strumentale né tanto meno quella dell’umbratile melodia vocale veicolano medievismi musicali o tanto meno suggeriscono espressionistiche distorsioni di essi. Circa i motivi della scelta del testo poetico di Machaut per l’Ode à la musique (1961), e più in generale circa il fascino che la poesia medievale aveva per lui, Martin stesso dà conto in A propos de, ma senza alcuna menzione di un contatto diretto con la musica di Machaut.[121] L’Ode non manca, tuttavia, di momenti indubbiamente evocativi sotto l’aspetto musicale: una percepibile patina sonora di Medioevo nasce in questo caso non da un’improbabile rilettura della polifonia dell’Ars Nova francese, ma piuttosto dalla ricostruzione interna, mentale, di un ethos musicale remoto, condotta per mezzo di richiami a taluni aspetti della polifonia medievale: come la prevalente ternarietà dell’impianto ritmico, la tipologia degli intervalli e una studiata propensione – non certo istintiva in Martin – al diatonismo. Si veda il Gloria:[122]

 


 

Ode à la Musique, Gloria - The Sixteen, Harry Christophers (dir.) (download del file in formato MP3)

FRANK MARTIN, Mass for Double Choir. Songs of Ariel. Ode à la Musique. Cantate pour le 1er Aout. Chansons, 1CD, Coro, 2005 (COR16029)

 

Tramite la doppia mediazione di Bédier e di Morgan,[123] Martin accostò il mito di Tristano e Isotta in sintonia con la sensibilità del proprio tempo; ma i possibili modelli musicali ‘antichi’ – pur certamente accessibili – non furono oggetto di analisi e di interesse elaborativo.

Accingendosi a comporre un roman in prosa che traeva ispirazione da romanzi cavallereschi del secolo dodicesimo e conservava il ‘colore del tempo’ (per dirla come la Pavane), un Martin mosso da istanze neoclassiche avrebbe potuto sentirsi indotto a confrontarsi con le suggestioni della monodia profana medievale, della tradizione lirico-musicale mediolatina o francese antica, del conductus, del dramma liturgico o della chanson de geste[124] o con le asprezze della polifonia arcaica. Ma ne Le vin herbé il rapporto con remoti paradigmi di genere non è chiamato in causa: forma e linguaggio adottano strategie da essi indipendenti.

Con Le vin herbé Martin porta avanti un’operazione in sintonia con la cristallina trasparenza lirica della prosa bédieriana, di cui però non riprende analogicamente, nella musica, la studiata patina di arcaismo linguistico che la impreziosisce. L’intonazione musicale del mito nella cornice di un Medioevo remoto parte dal «point d’appui» del roman, e si organizza, forse anche dietro la suggestione del suo assetto formale, come una sorta di polittico musicale. Ignorate le opulente memorie wagneriane del Tristan und Isolde, selezionate e collegate fra loro quelle porzioni del testo di Bédier essenziali a richiamare senza tregua il tema del destino secondo un piano originale che riproduce, in scala ridotta, la disposizione del Roman e ne ripropone gli elementi di cornice, orientata la vocalità all’esercizio di una declamazione – solistica e corale – che trasferisce nella musica i valori fonici e accentuativi della parola poetica, calibrato l’organico strumentale in funzione di effetti timbrici e di rapporti dialogici confacenti alla dimensione da camera e alla funzione di fondale sonoro su cui si stagliano le voci, Martin procede per riduzione, piegando la ricchezza dei riflessi cromatici e del loro ininterrotto trasformarsi e divenire, al conseguimento di una prevalente staticità evocativa, con cui approda ad una delle più affascinanti riletture novecentesche dell’intramontabile mito.

 

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[Bio] Maria Sofia Lannutti insegna Filologia romanza e Storia della poesia per musica presso la Facoltà di Musicologia di Cremona (Università di Pavia).

E-mail sofia.lannutti@tele2.it

Maria Sofia Lannutti teaches Romance Philology and History of Musical Poetry at Faculty of Musicology in Cremona (University of Pavia).

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Maria Caraci Vela è professore ordinario di Filologia musicale e di Storia della musica rinascimentale della Facoltà di Musicologia di Cremona (Università degli Studi di Pavia) e membro di numerosi comitati scientifici (di pubblicazioni, edizioni e convegni). Dirige il periodico del Dipartimento «Philomusica on-line» ed è coordinatrice di diversi progetti di ricerca, tra cui Le notazioni della polifonia vocale, sec. IX-XVII; Prospettive filologiche e metodi della critica testuale: un confronto interdisciplinare; La tradizione delle opere di Niccolò da Perugia; Zacara da Teramo: problemi di filologia d’autore.

E-mail maria.caraci@unipv.it

Maria Caraci Vela is Full professor of Music Philology and Renaissance music at Cremona-Pavia University, and member of many scientific committees. She’s heads up the Department review «Philomusica on-line» and she’s coordinator of many research projects among which Le notazioni della polifonia vocale, sec. IX-XVII ; Prospettive filologiche e metodi della critica testuale: un confronto interdisciplinare; La tradizione delle opere di Niccolò da Perugia; Zacara da Teramo: problemi di filologia d’autore.

[1] FRANK MARTIN – JEAN CLAUDE PIGUET, Entretiens sur la musique, Neuchâtel, La Baconnière, 1967, p. 67.

[2] Ibid., dove i riferimenti a Le vin herbé sono nelle pp. 28-30, 57-58, 67, 83-84, 97-100.

[3] Cfr. in particolare, nella recente bibliografia, MICHAEL STEGEMANN, Style chromatique und freie Tonalität. Frank Martins Kammeroratorium «Le vin herbé», in Frank Martin. Das kompositorische Werk, hrsg. von Dietrich Kämper, Mainz, Scott, 1993, pp. 21-36.

[4] Cfr. ANDRÉ BALTENSPERGER, Fragen des Métiers bei Frank Martin. Untersuchungen zu den Skizzen des Violinkonzerts, in Quellenstudien I. Gustav Mahler, Igor Stravinsky, Anton Webern, Frank Martin, hrsg. von Hans Oesch, Basel, Paul Sacher Stiftung-Winterthur, Amadeus Verlag, 1991, pp. 157-234: 160.

[5] JOSEPH BÉDIER, Le Roman de Tristan et Iseut traduit et restauré, Paris, Sevin et Rey, 1900; ID., Le Roman de Tristan et Iseut reconstitué d’après les poèmes français du XIIe siècle, Paris, Piazza, 1900, con le illustrazioni di Robert Engels.

[6] Per la contestualizzazione biografica ed epistemologica del romanzo rimando all’ampio capitolo dedicato al lavoro di Bédier sulla materia tristaniana e in particolare al Roman de Tristan et Iseut, di cui si offre un’approfondita analisi, contenuto nel libro di ALAIN CORBELLARI, Joseph Bédier écrivain et philologue, Genève, Droz, 1997, pp. 155-300. A p. 156 si legge la notizia in «Romania», XXV, 1896, p. 632: «M. Vetter paraissant avoir définitivement abandonné son projet de donner une édition du Tristran de Thomas, M. J. Bédier a repris ce projet et a commencé à travailler à l’exécution. Il publiera, en outre, prochainement une mise en prose moderne, d’après les anciens poèmes, de l’histoire de Tristran et Iseut, destinée à une publication illustrée».

[7] THOMAS D’ANGLETERRE, Le roman de Tristan par Thomas: poème du XIIe siècle, publié par Joseph Bédier, 2 voll., Paris, Firmin-Didot/Société des Anciens Textes Français, 1902 e 1905.

[8] Les deux poèmes de la Folie Tristan, publiés par Joseph Bédier, Paris, Firmin-Didot/Société des Anciens Textes Français, 1907.

[9] La mort de Tristan et Iseut d’après le manuscrit fr. 103 de la Bibliothèque Nationale comparé au poème allemand d’Eilhart d’Oberg, «Romania», XV, 1886, pp. 481-510. Cfr. CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., pp. 59-60, 170, 247-249.

[10] Ibid., pp. 661-665.

[11] Ibid., p. 35.

[12] LINO LEONARDI, L’art d’éditer les anciens textes (1872-1929), contributo al convegno «Le Moyen Age et la Renaissance au Collège de France», Les Treilles, 18-23 giugno 2007, in corso di stampa su «Medioevo romanzo», XXXII, 2008.

[13] CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., pp. 30-34; GIOVANNI FIESOLI, La genesi del lachmannismo, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2000, pp. 409-410; URSULA BÄHLER, Gaston Paris et la Philologie romane, Genève, Droz, 2004, pp. 439-450.

[14] FIESOLI, La genesi del lachmannismo, cit., p. 409.

[15] CHARLES RIDOUX, Evolution des études médiévales en France de 1860 à 1914, Paris, Champion, 2001, pp. 397-399; LUCIANO FORMISANO, Gaston Paris e i ‘nouveaux philologues’. Riflessioni su un libro recente, «Ecdotica», II, 2005, pp. 5-22.

[16] LEONARDI, L’art d’éditer, cit.

[17] Ibid.

[18] JOSEPH BÉDIER, «Le Lai de l’Ombre» par Jean Renart, Paris, Didot, 1913; ID., La tradition manuscrit du «Lai de l’Ombre». Réflexions sur l’art d’éditer les anciens textes, «Romania», LIV, 1928, pp. 161-196, 321-356.

[19] FIESOLI, La genesi del lachmannismo, cit., pp. 397-408.

[20] LEONARDI, L’art d’éditer, cit.

[21] FIESOLI, La genesi del lachmannismo, cit., pp. 420-421.

[22] Ibid., pp. 399-400.

[23] Basti qui ricordare quanto a proposito di Bédier scrive GIANFRANCO CONTINI, che parla di «critica dissolutiva dei dogmatismi primari» (Ricordo di Joseph Bédier, «Letteratura», III, 1939, pp. 145-152, poi in Un anno di letteratura, Firenze, Le Monnier, 1942, pp. 114-132, e in Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei. Nuova edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino, Einaudi, 1974, pp. 358-371: 361, da cui si cita).

[24] CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., pp. 424-448.

[25] Ibid., p. 485.

[26] Ibid., p. 427.

[27] Ibid., pp. 436-439.

[28] Ibid., p. 405.

[29] Le Roman de Tristan et Iseut renouvelé par Joseph Bédier de l’Académie française, ouvrage couronné par l’Académie française, Paris, L’édition d’art-H. Piazza, 1946, pp. XII–XIII: XII.

[30] Ibid., p. 1.

[31] CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., pp. 202-203.

[32] Ibid., p. 201: «Bédier classicise l’expression, il condense, résume, réduit les réduplications synonymiques et autres procédés apparentés, supprime les digressions et aboutit à un texte concis et dynamique, tendu vers ses péripéties principales».

[33] FERDINAND LOT, Joseph Bédier (1864-1938), Paris, Droz, 1939, p. 35: «Bédier était de son temps et nulle page de lui n’eût pu être composée par un homme du XVIIe ou même du XVIIIe siècle».

[34] CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., p. 269: «le roman de Bédier est construit comme une opéra de Wagner. L’affirmation eût sans doute fait sursauter l’auteur, elle n’en garde pas moins son évidence».

[35] A proposito delle illustrazioni di Engels, CORBELLARI (Joseph Bédier, cit.) parla invece, a p. 158, di «vision presque caricaturalement wagnérienne».

[36] Sulla funzione del Leitmotiv nel linguaggio musicale di Wagner si possono vedere gli studi di CARL DAHLHAUS, La concezione wagneriana del dramma musicale, Fiesole, Discanto, 1983, in cui è contenuto un capitolo sul Leitmotiv e la struttura del periodo; THEODOR W. ADORNO, Wagner. Mahler. Due studi, Torino, Einaudi, 1966, pp. 52-65; FRANCESCO ORLANDO, Proposte per una semantica del Leit-motiv ne «L’Anello del Nibelungo», «Nuova rivista musicale italiana», IX, 1975, pp. 230-247.

[37] EURIALO DE MICHELIS, Le «ripetizioni», in Ancora D’Annunzio, Pescara, Centro nazionale di studi dannunziani, 1987, pp. 187-205: 187.

[38] CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., pp. 273-279.

[39] GASTON PARIS, Tristan et Iseut, «Revue de Paris», I, 1894, pp. 138-179, ristampato in Poèmes et légendes du Moyen âge, Paris, Société d’édition artistique, 1900. Cfr. in proposito BÄHLER, Gaston Paris, cit., pp. 625-636: 625-626.

[40] Un chiarimento su questo aspetto potrebbe forse venire dall’esame del carteggio tra Paris e Bédier, che sarà pubblicato, a cura di Ursula Bähler e Alain Corbellari, dalle Edizioni del Galluzzo di Firenze.

[41] Per quanto ho potuto verificare, è ancora presente nella 502a edizione, stampata nel 1955.

[42] PARIS, Tristan et Iseut, cit., pp. 139-140.

[43] GERTRUDE SCHÖPPERLE, Tristan and Isolt. A Study of the Sources of the Romance, Frankfurt-London, J. Baer-Nutt, 1913. Cfr. in proposito CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., pp. 177-183: 178; RIDOUX, Evolution des études médiévales, cit., pp. 1027-1029.

[44] Cfr. CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., p. 191.

[45] STÉPHANE MALLARMÉ, Richard Wagner. Rêverie d’un poète français, «Revue wagnerienne», 1885-1888, t. I, pp. 195-200, ora in Oeuvres complètes, texte établi et annoté par Henry Mondor et G. Jean-Aubry, Paris, Gallimard, 1945, pp. 542-546: 542 e 544.

[46] STÉPHANE MALLARMÉ, Oeuvres complètes, éd. par Bertran Marchal, Paris, Gallimard, 1998, p. 280.

[47] Sull’argomento si può leggere il capitolo di JEAN-JACQUES NATTIEZ, L’universo wagneriano, i wagnerismi, il debussismo, in Enciclopedia della musica, vol. II, Dal secolo dei lumi alla rivoluzione wagneriana, Torino, Einaudi, 2004, pp. 1065-1098: 1090-1093.

[48] CORBELLARI, Joseph Bédier, cit., p. 191.

[49] Cfr. la Folie Tristan di Berna, vv. 164-167: «Entre le nues et lo ciel, / De flors et de roses, sanz giel, / Iluec ferai une maison / O moi et li nos deduiron»; e la Folie Tristan di Oxford, vv. 301-310: «Reis, fet li fol, la sus en l’air / Ai une sale u je repair / De veire est faite, bele e grant; / Li solail vait par mi raiant; / En l’air est e par nuez pent / Ne berce, ne crolle pur vent. / Delez la sale ad une chambre / Faite de cristal e de lambre / Li solail, quant par main levrat, / Leenz mult grant clarté rendrat». Cfr. Les deux poèmes de la Folie Tristan, éd. FELIX LEÇOY, Paris, Champion, 1994, pp. 21-22 e p. 62.

[50] FRANK MARTIN, Réflexions générales à propos du Vin Hèrbé [1941], in ID., Un compositeur médite sur son art, Ecrits et pensées recueillis par Maria Martin, Neuchâtel, La Baconnière, 1977, pp. 33-36: 36: «Le texte de Bédier, comme je cois aucune prose, me servit et me porta par son sens extraordinaire du rythme, des proportions et du juste mouvement psychologique. Je pus le prendre intégralement, sans changement, ce qui est une preuve non équivoque de son extrême perfection».

[51] CHARLES MORGAN, Sparkenbroke, London, MacMillan & Co, 1936. Ristampato in Italia nel 1949 (Roma, The Albatros), edizione da cui si cita.

[52] MARTIN, Réflexions générales, cit., p. 36: «Au printemps de 1938 je me trouvais en disponibilité, n’ayant aucune nouvelle composition en vue; mais mon esprit se trouvait orienté vers le mythe de Tristan et Iseut par la lecture de Sparkenbroke, le roman de Charles Morgan qui en est tout imprégné».

[53] MORGAN, Sparkenbroke, cit., p. 185.

[54] Si può vedere il ritratto che di Morgan offre EMILIO CECCHI, Scrittori inglesi e americani, 2 voll., Milano, Il Saggiatore, 1938, vol. II, pp. 170-173, che lo definisce un «inglese europeo», perché in uno scritto del 1943 si dimostrò capace di distinguere tra il totalitarismo tedesco e il totalitarismo italiano, che era a suo avviso lontano dal fanatismo, dalla «satanica follia» dei tedeschi, ma soprattutto di guardare a un’identità culturale europea distinta da quella americana.

[55] MARTIN – PIGUET, Entretiens, cit., p. 109.

[56] Ibid., p. 122.

[57] Ibid., p. 123.

[58] FRANK MARTIN, A propos de… Commentaires de Frank Martin sur ses oeuvres, publiés par Maria Martin, Neuchâtel, La Baconnière, 1984, pp. 65-67.

[59] Ibid., p. 34: «A ce moment-là un collègue de Suisse romande, Robert Blum, me demanda de lui composer une pièce d’environ une demie heure pour son Madrigalchor […]. Plein de mon idée de Tristan, je repris le roman bien connu que Joseph Bédier a tiré des vieux conteurs du Moyen Age et je compris de suite que jamais je ne pourrais trouver texte plus approprié à mon dessein».

[60] Isotta, prima di accostare il filtro, allude senza equivoco all’esistenza (e reciprocità) della passione: «Wüsstest du nicht, / was ich begehre, / da durch die Furcht / mir’s zu erfüllen, / fern meine Blick dich hielt?» (RICHARD WAGNER, Tristan und Isolde, I, 5).

[61] Cfr. MARTIN – PIGUET, Entretiens, cit., pp. 107-109.

[62] Comportava un organico vocale e strumentale ridotto: 2 violini, 2 viole, 2 violoncelli, 1 contrabbasso e pianoforte, con un coro madrigalistico di 12 voci (Soprano, Alto, Tenore e Basso, a ciascuna delle quali corrispondono 3 solisti che possono cantare come uniti o come divisi). Una esecuzione scenica che piacque anche all’autore fu allestita a Salisburgo nell’agosto 1948.

[63] Cfr. FRANK MARTIN, Le vin herbé, Wien, Universal Edition (UE 11314), 1943, rispettivamente alle pp. 5, 8, 9, 53, 58, 60, 130.

[64] Ibid., rispettivamente alle pp. 1-2; 111; 136 e 189-193. Ibid., si vedano anche: le intonazioni di Ami Tristan / Iseut amie, pp. 55 (quadro VI della I parte), 104 (quadro V della II parte), 168 (quadro V della III parte); l’intonazione di chétive, pp. 16-17 (quadro II della I parte) e 141-142 (quadro IV della III parte); l’immagine della ronce, che nel testo prescelto da Martin si trova sia all’inizio sia alla fine della storia, pp. 26-27 (quadro IV della I parte) e 185-188. A questa edizione si farà riferimento per tutti gli esempi da Le von herbé. Per un peculiare impiego di temi legati a personaggi, situazioni, stati emotivi ne Le Cornet, cfr. NORBERT BOLIN, Triumph und Tod des Helden. Aspekte des Narrativen in Frank Martins Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke, in Frank Martin. Das kompositorische Werk, cit., pp. 37-58.

[65] Cfr. i contributi di ANTONIO DELFINO (Generi organistici intorno a Frank Martin) e di PIETRO CAVALLOTTI (La dodecafonia e Frank Martin) in questo stesso numero.

[66] «En ce qui concerne le langage musical de Le vin herbé, s’il est centré sur un emploi presque constant du chromatisme, il ne renie jamais ce qui est pour moi la base même de la musique, c’est-à-dire les fonctions tonales. Et je tiens à affirmer que si jusqu’à un certain point, j’ai obéi à des règles plus ou moins arbitraires découlant de la technique sérielle, je ne l’ai jamais fait qu’en les considérant comme une source de renouvellement; mais que jamais l’obéissance à ces règles ne m’a paru avoir quelque valeur en soi. Toute règle, du reste, n’a en vue que l’enrichissement du style, aussi bien les règles classiques de l’harmonie et du contrepoint que les règles nouvelles que l’on peut vouloir s’imposer. L’obéissance à ces règles n’est qu’une élégance, un plaisir de l’esprit, qui ne fait preuve d’aucune valeur et de n’emporte aucune conviction» (MARTIN, Entretiens, cit., p. 35).

[67] Si veda, all’inizio del quadro II della II parte (pp. 67-68), in uno dei passi a cui fa riferimento Sofia Lannutti, l’effetto della hutte fleurie illuminata che si presenta inaspettatamente al re Marco.

[68] «Je crois, en effet, que Debussy s’est vraiment astreint, dans Pelléas, à reproduire le parler aussi exactement que possible. Je connais un exemple plus ancien: celui de Lully, qui allait au théâtre pour entendre déclamer les tragédies et essayait ensuite dans ses récitatifs de fixer en musique exactement la déclamation de son époque» (MARTIN-PIGUET, Entretiens, cit., p. 40).

[69] La revisione fu pubblicata da Henn Genéve, 1923.

[70] Cfr. MARTIN-PIGUET, Entretiens, cit. p. 117.

[71] Cfr. MARTIN, Le vin herbé, cit., pp. 122-124 e 127-131 (quadro III della III parte).

[72] Cfr. Ibid., pp. 141-158 (quadro IV della III parte).

[73] Cfr. Ibid., p. 49 (quadro IV della I parte).

[74] Cfr. Ibid., pp. 4-10 (quadro I della I parte).

[75] Cfr. Ibid., pp. 175-177 (quadro VI della III parte).

[76] Questa sorta di pseudo-contrappunto che – come Martin stesso ha più volte ribadito – nasce dall’armonia, sembra rapportarsi con naturalezza anch’esso a modelli interiorizzati vicini alla polifonia di Lully e dei suoi contemporanei francesi.

[77] Cfr. MARTIN, Le vin herbé, cit., pp. 163-169 (quadro V della III parte). In questo quadro Martin introduce la terza delle serie da lui impiegate ne Le vin herbé. Cfr. il contributo di CAVALLOTTI, La dodecafonia e Frank Martin, cit.

[78] In particolare nel terzo degli Entretiens, cit. (pp. 31-42), che porta il significativo titolo di «Le métier de compositeur».

[79] «La grande difficulté de ce travail est de garder un esprit clair en face de ce qu’on fait; il faut travailler comme un bon ouvrier, comme un ébéniste qui polit une table raffinée […] Il existe en effet un grand danger, ou plutôt un péché pour l’artiste: c’est l’orgueil» (ibid., p. 49).

[80] Ibid., p. 32.

[81] «Le texte m’aide énormément: j’en cherche l’expression, et je cherche la musique qui lui soit adéquate» (ibid., p. 33).

[82] «Celui-ci n’est pas à la base de l’oeuvre, il n’a pas d’importance en lui-même, mais il est simplement là pour m’orienter moi-même, pour me donner un chemin quelconque» (ibid., p. 32).

[83] «En général, et même toujours quand il s’agit d’écrire une oeuvre nouvelle, on se fait d’abord une idée confuse, mais caractérisée; la seule chose qui soit à peu près sûre, c’est la durée de l’oeuvre ou d’une pièce dans un’oeuvre: la durée, et les moyens instrumentaux d’autre part. A coté de cela, on part en général sur ce qu’on a déjà trouvé parce qu’il s’agit de trouver de la musique d’abord. Une fois trouvé, cet élément musical fait germe et se développe en quelque sorte de lui-même à condition qu’on lui reste fidèle» (ibid., pp. 24-25).

[84] Cfr. BALTENSPERGER, Fragen des Métiers bei Frank Martin, cit., pp.133-147.

[85] MARTIN-PIGUET, Entretiens, cit., pp. 53-56.

[86] Ibid., p. 57.

[87] Ibid., pp. 28-30; 57-58; 83-84.

[88] Ibid., p. 28.

[89] Ibid., p. 60. Cfr. MARTIN, Le vin herbé, cit., pp. 104-105 (quadro V della II parte) e p. 29 (quadro IV della I parte).

[90] Cfr. JOHANN SEBASTIAN BACH, Vier Ouvertüren (Orchestersuiten), hrsg. von Heinrich Besseler, Bärenreiter, Kassel, 1967 (Neue Ausgabe Sämtlicher Werke, Serie VII, Band 1), p. 137.

[91] MARTIN-PIGUET, Entretiens, cit., p. 87.

[92] Ibid., p. 83.

[93] Ibid., p. 109.

[94] Ibid., p. 113.

[95] Aggettivi come ‘classico’, ‘neoclassico’, ‘classicista’ hanno avuto, nella musica fra 1860 e la metà del Novecento, oscillazioni di senso piuttosto ampie – positive e negative – a seconda del punto di riferimento in cui erano venuti a fissarsi i modelli ideali di classicità. Cfr. SCOTT MESSING, Polemic as History: The Case of Neoclassicism, «The Journal of Musicology», IX/4, 1991, pp. 481-497: «for every cautionary statement warning against using the term because of its ambiguity, there are many times it appears without any context other than the tacit assumption that the reader knows the precise connotation the author has intended for it» (p. 481); «Despite several dire warnings against its employment because of its current wholesale and indiscriminate usage, the term neoclassicism has embedded itself stubbornly in the parlance of studies of twentieth-century music and continues to incite ambivalence because of its ambiguous meaning» (p. 482); «If the theoretical apparatuses that have illuminated twentieth-century styles have encourages us to hold the term neoclassicism in contempt because of its ambiguity, it must be realized that same frustrating lack of clarity in the word was the source of its attraction and the reason for its survival» (p. 497). Per una visione d’insieme sull’argomento cfr. RUDOLF STEPHAN, voce «Klassizismus», in Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Allgemeine Enzyklopädie der Musik begründet von Friedrich Blume. Zweite, Neubearbeitete Ausgabe, hrsg. von Ludwig Finscher, 26 voll., Kassel-Basel-London-New York-Prag-Stuttgart-Weimar, Bärenreiter-Metzler, 1994-2007, Sachteil, vol. V, § II, 2, 3, 4, 1999, coll. 249-253.

[96] SCOTT MESSING ha dedicato all’argomento un ampio e documentato volume (Neoclassicism in Music from the Genesis of the Concept through the Schoenberg/Stravinsky Polemic, Rochester N.Y., University of Rochester Press, 1988), alquanto sbilanciato, tuttavia, sul versante della cultura francese e dell’opposizione franco-germanica intorno agli anno della Grande Guerra. Nella visione di Messing il termine, che aveva designato in un primo tempo la funzione paradigmatica dei classici viennesi, venne poi a significare il ritorno alla musica nazionale francese preromantica in funzione antiwagneriana, e infine, si applicò alla musica di Stravinsky degli anni Venti. Altri studi hanno poi arricchito i punti di osservazione. Cfr. per esempio ANNA QUARANTA, Neoclassicismo musicale. Termini del dibattito italiano ed europeo, «Chigiana», XLIV, 2003, pp. 93-142, che integra sostanzialmente il quadro tracciato da Messing richiamando l’attenzione sulla ricchezza e l’importanza del dibattito italiano sul neoclassicismo musicale.

[97] Quella di neoclassico nella accezione con cui era stata usata contro Stravinsky, era etichetta sotto la quale Martin – che se l’era vista attribuire all’inizio degli anni Cinquanta – proprio non si riconosceva. Cfr. MARTIN, A propos de…, cit., p. 173.

[98] GISELER SCHUBERT, Form und Besetzung Zu Frank Martins Konzerten, in Frank Martin. Das Kompositorische Werk, cit., pp. 95-110: 96-97.

[99] THOMAS MANN, Auseinandersetzung mit Richard Wagner, «Der Merker», II/9,1911, pp. 21-23.

[100] FERRUCCIO BUSONI, Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, Milano, Il Saggiatore, 1977, pp. 113. In proposito cfr. PIETRO CAVALLOTTI, A scuola di ‘Nuova classicità’. Weill allievo di Busoni, in Ferruccio Busoni e la sua scuola, a cura di Gianmario Borio e Mauro Casadei Turroni Monti, Lucca, LIM-Una cosa rara, 1999, pp. 49-68.

[101] Cfr. STEPHEN HINTON, Neue Sachlichkeit, in Handwörterbuch der Musikalischen Terminologie, hrsg. von Hans Heinrich Eggebrecht, Stuttgart, Steiner, 1994.

[102] La percezione dell’alterità dell’ipotesto o del modello alluso è indispensabile a qualificare questa accezione del termine ‘neoclassicismo’: la musica scritta in relazione a testi musicali preesistenti, infatti, esiste ed è sovrabbondante in ogni epoca; ma una messa parodia, o una composizione su tenor, o una serie di variazioni scritte da un compositore sul tema di un altro non costituiscono certo esempi di neoclassicismo musicale.

[103] Cfr. MARIA CARACI VELA, Intertestualità e arte allusiva, in La filologia, vol. II, Approfondimenti, Lucca, LIM, in corso di stampa.

[104] A proposito dell’emblematico caso di Stravinsky, MARTHA M. HIDE (Stravinsky’s neoclassicism, in The Cambridge Companion to Stravinsky, ed. by Jonathan Cross, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, pp. 98-136) rileva come le «neoclassical pieces invoke earlier classics in a much broader sense than merely music in the style of Haydn or Mozart. What makes a classic in this broader sense is being chosen as a model for some sort of anachronistic engagement, some manner of imitative crossing of the distance that divides the new work from its model». (p. 99). La Hide individua proprio nel controllo dell’anacronismo lo strumento essenziale per dare senso all’opera neoclassica («When anachronism – that is, the conflict between period elements in a piece of music – is meaningful, then a Phoenix springs from the ashes», p. 101), attraverso tipologie diverse di imitazione del modello (ibid., pp. 102-134).

[105] L’intertestualità può, naturalmente, operare non solo in relazione a modelli attinti al passato più o meno remoto, ma anche a quelli recenti o contemporanei: come avviene, per esempio, nel Sestetto di Stravinsky, del 1953, versus Schönberg. All’interno di questo più vasto fenomeno, il neoclassicismo musicale del Novecento si configura allora come una particolare declinazione dell’interesse intertestuale, orientata verso referenti musicali del presente.

[106] Per l’importanza del concetto di sviluppo nella musica di Martin, cfr. Entretiens, cit., pp. 34-37.

[107] «J’ai passé par un long chemin, assez ardu, pour arriver par moments à une telle simplicité. J’ai dû écrire et chercher des accords infiniment compliqués pour parvenir peu à peu à les décanter», ibid., p.65.

[108] Ibid., pp. 70-80.

[109] Ibid., p. 108. Un recupero del diatonismo nel contesto di registri stilistici elevati si osserva invece in alcune composizioni degli ultimi anni di Martin.

[110] Dalla Symphonie pour orchestre burlesque (1915, su canti popolari savoiardi e per orchestra di strumenti infantili), al Trio su melodie popolari irlandesi (1925, per violino, violoncello e pianoforte), dai Poèmes de la mort (1971, per tre voci maschili e tre chitarre elettriche), alla Fantasia su ritmo di flamenco (1973, per un pianista e – ad libitum – un danzatore).

[111] «Dans mon esprit le titre de Ballade comporte, en une forme musicale entièrement libre, un élément de poésie et, plus exactement, de poésie épique, mais cela sans aucune idée de rattacher ce caractère narratif à aucun thème littéraire», MARTIN-PIGUET, Entretiens, cit., p. 161.

[112] MARTIN, A propos de…, cit., p. 27.

[113] Circa l’Ouverture en hommage à Mozart (1956), Martin tiene a precisare che «Il ne s’agissait pour l’auteur, à aucun degré, de faire ans cette circonstance une sorte de pastiche de Mozart, mais d’essayer d’exprimer, dans son propre langage, son admiration pour ce maître; d’ou le titre: Ouverture en hommage à Mozart, qui aurait pu être, selon la tradition: “Tombeau de Mozart”, si cette expression ne portait en elle quelque chose de trop mélancolique», ibid., p. 110.

[114] MARTIN-PIGUET, Entretiens, cit., pp.73-80.

[115] Cfr. CARACI VELA, Intertestualità e arte allusiva, cit.

[116] Cfr. STEGEMANN, Style chromatique und freie Tonalität, cit., p. 21.

[117] Con questo approssimativo nesso verbale si traduce l’altrettanto approssimativo ma usatissimo Early Music, che ormai designa convenzionalmente tutta la musica eurocolta, dalle origini al romanticismo.

[118] Serenus Zeitblom nel Doctor Faustus, cap. XXVIII. esegue sulla viola d’amore musica ‘antica’ per un pubblico che ne apprezza la sommessa dolcezza: ma la musica degna di essere analizzata per pagine e pagine non è certamente quella nel romanzo, ma parte da Beethoven.

[119] MARTIN, A propos de…, cit, p. 10.

[120] In tutte e due le versioni, per soprano e pianoforte, e per soprano, flauto, viola e violoncello (che non comporta mutamenti nel progetto esecutivo, ma si limita a diversificare e articolare l’esile e raffinatissimo accompagnamento). Entrambe furono pubblicate dalla Universal di Vienna, rispettivamente come UE 13831 e UE 15053.

[121] Cfr. MARTIN, A propos de…, cit, pp. 126-127. Che Machaut fosse stato un importante musicista è appena detto en passant, senza alcuna osservazione sulla sua musica. Quello che sollecita Martin è il testo poetico, con l’articolata successione di episodi di carattere diverso, che della musica illustrano la varietà degli aspetti.

[122] FRANK MARTIN, Ode à la musique, Kassel, Bärenreiter, 1977, pp. 29-32. Sulla vocalità di quest’opera, inoltre – che contempla declamati polifonici, contenute espansioni solistiche, e un uso moderato ma molto incisivo del contrappunto – esercita ancora il suo determinante influsso il lavoro sul rapporto testo-musica compiuto ne Le vin herbé.

[123] Cfr. MARIA SOFIA LANNUTTI, Il «Roman de Tristan et Iseut» di Joseph Bédier e il suo impiego nell’oratorio «Le vin herbé», nella prima parte di questo contributo.

[124] Martin ha forse conosciuto la rara attestazione de La Bataille d’Armerin, pubblicata da Gennrich nel 1923.

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