Recensione di Daniele Carnini :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Recensione a cura di Daniele Carnini

 

 

MARCUS CHR. LIPPE, Rossinis «opere serie». Zur musikalisch-dramatischen Konzeption, Stuttgart, Franz Steiner, 2005, «Beihefte zum Archiv für Musikwissenschaft» 55, 369 pp.

 

 

L’analisi delle strutture operistiche è stata più o meno negletta fino a tutti gli anni Sessanta del secolo scorso. Si cominciò proprio con un’opera seria di Rossini (Tancredi), la struttura del cui finale fu argomento per un saggio di Philip Gossett («The candeur virginale of Tancredi»); a questo filone si saldò quello della «solita forma» (formulazione di Harold Powers, talmente nota che non ci prendiamo la briga di spiegarla). Arriva ora questo libro, ambizioso nel dettato e nel titolo.

Lippe parte da un presupposto condivisibile: non esiste uno studio analitico globale sulle opere serie di Rossini, necessario invece per comprendere meglio gli sviluppi dell’opera italiana nella prima metà dell’Ottocento (10-11; è strano però che pur citando in bibliografia il libro di Daniela Tortora Drammaturgia del Rossini serio Lippe non senta il bisogno di discuterne gli esiti). L’introduzione delimita così il campo e mette sul tavolo gli argomenti preferiti di Lippe. Per esempio: l’assenza di uno “sviluppo” univoco di Rossini attraverso gli anni; le differenze di pubblico in Italia; l’influsso francese a cominciare dal “trasporto” del colpo di scena all’interno del numero chiuso (dal recitativo). Quel che più conta, Lippe dà per assodata la «solita forma»: «als Strukturmodell diente die “solita forma” dabei unter nur geringfügigen Abweichungen, wie näher auszuführen sein wird, für sämtliche Formen geschlossener Nummern, für Duette und größere Ensembles ebenso wie für finali primi und – mit zum Teil größeren Divergenzen – für die Arie, in der die Herkunft aus dem älteren Strukturprinzip cantabile – cabaletta am längsten ablesbar bleibt» (20).

In questo libro sono difatti presenti tutte le idées reçues della tradizione solito-formista, tanto da intitolare un paragrafo più avanti «“La solita forma” – ein normativer Szenentypus» (62). Naturalmente siamo ancora (sostanzialmente) al sunnominato saggio di Gossett del 1973 con le sue alternanze di movimenti cinetici e statici. Alla fine dell’introduzione Lippe sostiene che il risultato dell’analisi stia nel mostrare «ob die Möglichkeit der “solita forma” zur Dramatisierung der Szene genutzt wird, und, wenn ja, auf welche Art und Weise die musikalisch geschlossene Form von dramatischen Leben durchdrungen wird» (21).

Lippe ammette la necessità di conoscere le opere dei contemporanei di Rossini (22-23; ne cita alcune alla nota 31). Apriamo un inciso: tale necessità in punto di principio è ammessa da molti. Ma poi è stato veramente affrontato il corpus in modo da trarne le conseguenze? L’analisi dei lavori in questione non avviene coram populo: perché le opere non vengono escusse, solo citate, a parte alcuni casi. Ma le opere citate sono rappresentative? E anche se lo fossero, non sarebbe stato meglio concentrarsi su quelle immediatamente precedenti, per capire come il «congegno fondamentale» della «solita forma» (parole di Lorenzo Bianconi) si sia generato? E inoltre, perché nessun esempio musicale è stato tratto da opere sconosciute? E non vale solo per i poco noti antecessori e contemporanei del Pesarese: praticamente gli esempi musicali rossiniani vengono solo da opere di cui esiste l’edizione critica (e forse sarebbe stato meglio il contrario).

Lasciataci alle spalle l’introduzione addentriamoci nel volume, diviso in due parti. La prima («Gattungshistorischer Kontext: zu librettistischen und musikalischen Konventionen in der italienischen Oper im primo Ottocento») dovrebbe fornire l’indispensabile contesto all’esperienza rossiniana. Questa parte è divisa in due capitoli: «Librettokonvention» e «Zur Konvention musikalischer Form in der italienischen Oper um 1815».

Il primo prende come esempio la «genesi esemplare» (alla luce delle convenzioni dell’epoca) di Otello, che rimane forse l’opera più esaminata nell’intero libro. Ha il solo “difetto”, se così possiamo dire, di parlare di cose che oramai si possono dare per assodate, ossia la diversa drammaturgia dell’opera italiana rispetto al teatro, e la funzionalità di libretti che parevano fino a poco tempo fa un fastello di assurdità, come quello di Berio per Otello.

Il secondo parla quasi esclusivamente della «solita forma», punto specialmente importante di cui tratteremo più avanti.

La seconda parte si intitola «Rossinis opere serie in musikalisch-dramatischen Einzelanalysen», ed è divisa in tre capitoli che per così dire “saggiano” le forme rossiniane in tre modi diversi.

Il primo capitolo traccia le «tendenze di sviluppo strutturali» in cinque ulteriori suddivisioni: il terzo atto di Mosè, il terzo atto di Otello, i rifacimenti di Mosè, i duetti, e alcuni ensemble «esemplari». Di Mosè e di Otello Lippe mette in luce (giustamente) i fattori unificanti e “progressivi”, con un’attenzione forse eccessiva ai fattori motivici e armonici, sempre rischiosamente evocati quando si tratti di opera italiana. Possiamo solo eccepire sulla semplificazione delle linee di tendenza nella storia delle composizioni di Rossini: è chiaro che il superamento o quantomeno l’integrazione della logica del numero chiuso sono visti da Lippe come fattori drammatizzanti e dunque positivi. Ma è sicuramente vero che il pezzo d’assieme con Rossini aumenta di peso, così come i numeri si riducono, passando da venti o venticinque a poco più di una dozzina. Quel che non convince, al solito, ad esempio in un’analisi che è un po’ scolastica ma non sbagliata sul Terzettone di Maometto II, è il riferimento alla norma violata, al fatto che «Hier [nel Terzettone] scheint die “übliche” Form allerdings in ihrer herkömmlichen, fest umrissen Formelhaftigkeit kaum noch Gültigkeit zu haben». Lippe si sorprenderebbe meno se avesse in mente gli esempi molto più flessibili di opera italiana dell’inizio Ottocento. Già Mayr, citato così tante volte da Lippe, in più d’un’opera, come negli sfortunati Tamerlano e nell’Atar, aveva introdotto non solo elementi “realistici” o esterni alle (cosiddette) convenzioni, ma aveva – cosa che più importa – portato a dimensioni prima ignote i numeri chiusi.

Il secondo capitolo si occupa dell’introduzione e delle sue tendenze all’ingrandimento, anche lì con delle analisi per così dire “singolari”, ossia lavoro per lavoro. Secondo Lippe, e lo ribadirà in conclusione, l’introduzione è meno normativa dei finali e di altri pezzi dell’opera, dunque lascia più libertà al compositore.

Poi il capitolo ultimo e più impegnativo, a proposito dei finali centrali, vera crux dell’analisi operistica. I finali delle opere, specie quelli delle opere napoletane, vengono analizzati uno per uno, drammaturgia e musica, con uno schema riassuntivo alla fine di ogni trattazione.

Sintetizziamo e parafrasiamo le conclusioni. Nel mutamento del «dramma per musica» in «melodramma serio» il dramma e la musica si compenetrano sempre di più; e se il mutamento comincia alla fine del Settecento, è attorno al 1815 che si realizza, si compie, con l’anticipo di Tancredi. Alcune tendenze preesistono all’imporsi di Rossini, come la riduzione dell’ammontare complessivo dei numeri chiusi, l’aumento dei versi lirici in rapporto ai versi sciolti e l’abbandono del recitativo semplice (dovuto all’influsso francese). Inoltre, grazie soprattutto a Rossini, l’ampliamento dei numeri stessi in «scene musicali». Rossini ricorre da Tancredi in poi (e in modo «strikt») alla struttura che verrà chiamata più tardi «solita forma»; la quale meglio di ogni altra struttura, nella sua alternanza di momenti statici e cinetici, rispecchia l’influsso dell’azione drammatica sulla forma musicale. Se non l’ha creata Rossini, è lui che ne fa un modello cogente. La «solita forma» è il miglior modello possibile per incrociare fattori drammatico-testuali e musicali. Altri influssi dell’opera francese sono l’introduzione della couleur locale, e una enfasi del coup de théâtre. Rossini è colui che fa una summa di queste innovazioni e le introduce nello stile italiano. L’introduzione – meno “normativa” del finale centrale – diventa un «cavallo di battaglia», libero da costrizioni; la concezione musico-drammatica di Rossini vi rifulgerebbe più che nei duetti o nelle arie.

Infine, nonostante la disparità di luoghi, di tempi, è l’individualità del compositore a emergere: le opere scritte fuori da Napoli non sono per niente “regressive”. L’ultima parola è sull’influsso di Rossini: che sarebbe una (non meglio specificata) attualizzazione musico-drammatica, e una «musikalische [corsivo suo] Begründung dramatischen Geschehens», fondamentale per le sorti del melodramma serio.

Le conclusioni sono piuttosto vaghe, soprattutto quando si parli di una specie di inveramento della struttura drammatica in quella musicale, perché non esiste una struttura drammatica a priori, né l’opera metastasiana è meno teatrale di quella rossiniana, o quella rossiniana a sua volta meno di quella pucciniana. Per il resto sono condivisibili in gran parte. Premettiamo dunque che non mancano i pregi, in questo libro. Innanzitutto Lippe non perde mai il contatto con i libretti (benché non citi Felice Romani librettista di Roccatagliati, libro diremmo imprescindibile, o quantomeno da discutere, quando si affronti l’opera del periodo). Poi non azzarda mai ipotesi immotivate. Inoltre si è preoccupato del repertorio precedente, discutendone alcuni casi, e non solo dal punto di vista librettistico. In genere, però, è un volume troppo approfondito per essere un manuale o un prontuario, e un po’ troppo didascalico per fornire un’impostazione nuova sull’argomento.

Il nostro dissenso si fa più acuto per via del materiale scelto da Lippe per il libro, ossia le opere di cui si occupa. Demetrio e Polibio viene esclusa dal corpus, discutibilmente, visto che nonostante la genesi accidentata presenta un esempio di finale in un solo movimento unico in Rossini, ma frequente in altri compositori. Idem per Ciro in Babilonia, benché sia perfettamente assimilabile a un’opera seria. Ma forse la questione è ancora più generale, e comincia dal titolo stesso: lasciar fuori le opere non serie, anche se si giustifica con la necessità di ritagliare una parte del repertorio, fa soffrire il libro. Parlare di Ermione e Ricciardo e Zoraide piuttosto che dell’Italiana in Algeri o del Barbiere falsa la visuale, proprio se accettiamo come Lippe – e chi scrive condivide questo punto di vista – la contiguità di stile tra buffo e serio in Rossini (pensiamo alla straordinaria reviviscenza del genere semiserio-lagrimevole della Gazza ladra); e nuoce soprattutto se si vogliano trarre delle conclusioni a lunga gittata sull’opera italiana in generale. È evidente poi che c’è nel volume una focalizzazione eccessiva sul Rossini napoletano. Basta paragonare lo spazio nel capitolo dedicato ai finali: ventisette pagine per sei opere “non-napoletane”; cinquantanove per le otto opere napoletane. Ma il Rossini di Napoli non fu quello più eseguito in Italia e nel mondo.

Strettamente legata a questa è la quaestio della divisione «progressivo» contro «non-progressivo»; la leggiamo in filigrana in questa frase: «Rossini komponierte das melodramma tragico Semiramide bekanntlich mit einem auf dem Gebiet der opera seria über einen Zeitraum von zehn Jahren gesammelten Erfahrungsschatz. Mit dem Teatro La Fenice als Uraufführungsort kehrte er an ein Theater zurück, dessen Publikum zwar im Vergleich zu seiner langjährigen Wirkungsstätte am Teatro San Carlo weniger fortschrittlich gewesen sein mag, doch befreite ihn dieser Umstand zugleich von dem eminenten Erwartungsdruck des reformgewöhnten Neapler Publikums» (p. 173). Lippe non crede che Semiramide sia un’opera di “regressione”, e su questo concordiamo. Meno concordiamo sul luogo comune della Napoli «reformgewöhnte» e sulla minor «progressività» di altri pubblici (che, nel frattempo, consacravano alla notorietà come e più di Napoli opere destinate a una grande circolazione). Le abitudini dei differenti pubblici sono differenti, ma quali sono «progressive»? Forse «progressive» diventano tout court quelle in cui troviamo maggior realismo, l’ingrandimento delle forme, l’aumento delle situazioni cosiddette spettacolari? Dovremmo chiederci il perché. Forse la pensiamo così, ancora una volta teleologicamente, in vista del trasferimento di Rossini all’estero, ma la storia dell’opera italiana, soprattutto dagli anni Venti in poi, non si risolve solo in Rossini.

Un simile punto da discutere è l’«uso di Francia» che sarebbe stato imperante a Napoli, citato a proposito di Medea di Mayr (205), altro refrain del libro. Lippe dice di voler identificare lo «status quo» dei finali nelle opere serie a Napoli «um 1815» (p. 204) anche se poco sotto dirà «vor Rossini» (corsivo dell’autore) e «bis 1815» (corsivo nostro). Questo influsso della corte bonapartiana e murattiana sarà vero, ma probabilmente sopravvalutato. Gli esempi di finale esaminati da Lippe sono tratti da Medea e Ecuba di Manfroce. Perché concentrarsi solo sulle opere che si richiamano all’esperienza transalpina e non prendere in considerazione tutte le opere ascoltate dai napoletani tra il 1809 e il 1815? ossia, non solo Mayr, Spontini “riproposto” e il suo epigono Manfroce. Oltre alla Clemenza di Tito, all’Edipo a Colono, alla Vestale e a Ifigenia in Aulide i napoletani ascoltarono, prima e dopo il ritorno dei Borboni, Giulietta e Romeo di Zingarelli, il Giulio Sabino di De Luca (e, a tale proposito, perché non citare mai il brillante saggio di Tobia Toscano sul «rimpianto del primato perduto»?), l’Annibale in Capua di Cordella, il Bajazet di De Luca, Marco Albino in Siria di Tritto, Adelasia ed Aleramo di Mayr, Odoardo e Cristina di Pavesi, La conquista del Messico di Ercole Paganini, I Manlii di Nicolini, Zaira di Federici (Francesco!), Gaulo e Oitona di Generali, Nefte di Fioravanti, Marco Curzio di Capotorti, I baccanali di Roma di Nicolini (a tale proposito avvertiamo l’assenza in bibliografia del libro di Chegai L’esilio di Metastasio), e dulcis in fundo a Borboni restaurati La morte di Semiramide di Nasolini (opera stravecchia e più volte interpolata), l’Elisabetta di Rossini e l’anno dopo (1816) Il trionfo di Alessandro di Andreozzi. E volendo aggiungere le buffe, le semiserie, avremmo L’oro non compra amore di Portogallo, La dama soldato di Orlandi, L’africano generoso di Fioravanti, le opere di García, il Sargino di Paer e i Pretendenti delusi di Mayr: opere – alcune – vecchie. (Abbiamo citato sparsamente). Di queste quelle più “francesizzabili” – che poi è da spiegare quale sia un’opera che subisce l’influsso francese, ma poniamo che sia chiaro – sono, a nostro avviso, Nefte di Fioravanti e forse il Marco Curzio, oltre ai già citati lavori di Mayr (Cora) e Manfroce e a parte le opere francesi vere e proprie. Una minoranza.

Non che non sia evidente l’influsso francese. Ma è chiaro che a Napoli si combatterono alcune e diverse “scuole”: quella “veteronapoletana”, erede di Paisiello e Cimarosa, e poi Andreozzi, Tritto, Zingarelli, Farinelli, Cordella, e il più giovane Pavesi, e i “localistici” De Luca e prima ancora Cercià; quella francese e per meglio dire internazionale – che secondo Toscano fu in qualche modo propugnata dalla corte; quella “italiana” con autori presenti su tutti i palcoscenici della Penisola, Nicolini, Nasolini, Generali, Mayr. L’«uso di Francia» che in fondo Mayr deprecava si traduce forse in alcuni caratteri (il recitativo accompagnato) più che in uno stravolgimento delle convenzioni. Ma in tutta Italia lo spazio per il recitativo si stava riducendo fin dalla fine del secolo precedente, con delle “sacche di resistenza” come Torino (dove a lungo si dettero drammi metastasiani, benché adattati, con pagine e pagine di recitativo semplice). Se a Napoli questo processo subì un’accelerazione, la via tracciata era quella ben prima dell’affermazione di Rossini o di opere soi-disant riformate.

Il punto su cui insiste Lippe e su cui dissentiremo di più è la «solita forma», e il fatto che per lui la «frattura» nella storia dell’opera italiana dell’Ottocento, se c’è, invece di essere nel 1827-1830 (Fabrizio Della Seta parla di «età rossiniana» dal 1800 fino al 1830), cade intorno al 1815. Lippe crede alla «candeur virginale» di Tancredi e accetta senza discutere l’«interregno» tra Cimarosa e Rossini, per adoperare un altro termine stendhaliano. A proposito di Tancredi: secondo Lippe (p. 69) nell’opera italiana si giunge a una struttura drammatica in cui nel finale centrale troviamo un doppio colpo di scena. Così – seguendo Gossett – cita il finale di Tancredi come struttura esemplare. Per lui i colpi di scena sono quelli alla fine del tempo d’attacco (cosiddetto) e del tempo di mezzo. Però dovrebbe essere chiaro che il vero colpo di scena nel finale di Tancredi è quello alla fine del recitativo, con la lettura della (finta) lettera di Amenaide, che scatena il finale. Nel finale in effetti non succede gran cosa, perché la condanna a morte per alto tradimento è ovviamente più tenue, come sorpresa, della trappola in cui è stata messa Amenaide. E questo finale non è diverso da tanti altri e altri pezzi scritti nel primo Ottocento in cui (se c’è!) il colpo di scena è al di fuori del finale stesso, ossia nella scena – nel recitativo – che lo precede. La reazione al colpo di scena può coincidere con un movimento lento di stupore, che è dunque all’inizio, come nei finali di Idante di Portogallo, di Carlo Magno e in altre opere di Nicolini che tanto amava cominciare il finale con un movimento lento (per non parlare degli ensemble: anche il Terzettone di Maometto II comincia con un movimento lento, idem per il quartetto di Bianca e Faliero). Stessa cosa appunto in Tancredi. Quello che per Lippe è il “vero” pezzo concertato, ossia il terzo movimento del finale, se contiamo il primo Andante, è una sosta determinata da una logica musicale più che teatrale, visto che in essa non si reagisce al tempo d’attacco, come vulgata vorrebbe.

Se Lippe avesse esaminato le opere del decennio precedente senza pregiudizi teleologici, avrebbe forse – se non erriamo – trovato che le opere di Rossini, dal punto di vista formale, condividono molti caratteri delle opere dei predecessori. Segnatamente i finali, che non sempre hanno a che fare con i duetti. I duetti e gli ensemble e i finali nella storia dell’opera sono come disposti su tre rette che si incontrano ora più (come tra gli anni Trenta e Cinquanta dell’Ottocento) ora meno. Facciamo un esempio: è indubitabile che molti finali operistici contengano quello che definiamo «primo tempo» tipico di un duetto rossiniano, con le strofe «parallele» dei solisti (in alcuni duetti e finali questo «primo tempo», diviso in altre sezioni, ma sempre in un movimento, può costituire l’intero organismo del numero). Ma è una cosa rara per Rossini. I cosiddetti «tempi d’attacco» si corrispondono dunque molto imperfettamente in duetto e finale, se non conta solo la posizione ma anche la caratteristica. Che nei finali rossiniani tende sempre più verso il «pezzo d’azione», cinetico. Di molti finali pre-rossiniani e rossiniani è impossibile dimostrare la quadripartizione con la doppia coppia cinetico-statico, meccanicamente alternantesi.

Lippe dichiara di voler mettere a confronto i contemporanei di Rossini con Rossini medesimo, ma evidentemente non ne trae tutto il partito possibile. Tutti i compositori, non solo Rossini, all’interno della flessibilità delle forme del periodo, sapranno variare il loro linguaggio pur mantenendo la loro fisionomia creatrice. Le prescrizioni librettistiche, come ben intuisce Lippe, sono messe in musica in modo altrettanto flessibile, ossia ora rispettate nella loro interezza perfino nella distribuzione e articolazione dei pezzi, ora reinterpretate. Bisognerebbe cominciare a parlare dell’opera rossiniana, almeno come tentativo, guardando a Cimarosa e non a Verdi.

Il problema è anche terminologico. Che senso ha identificare con lo stesso nome («tempo di mezzo») quello in cui Pirro si lascia convincere dalle preghiere di Andromaca (finale di Ermione) oppure l’introduzione alla stretta del finale di Ricciardo e Zoraide? Vero è che Lippe mette in luce le differenze. Ma allora a che pro nominare i due brani con la stessa etichetta? Tutte le tabelle riassuntive dei finali alla fine delle rispettive trattazioni sono di stretta osservanza “solitoformista”. I finali vengono costretti nella morsa, nel letto di Procuste, anche quando alcune soluzioni sono chiaramente differenti. Se Elisabetta è una «solita forma», se Zelmira (nonostante la brevità del cosiddetto «tempo di mezzo» rispetto alla immaginata norma) può rientrarvi, Otello non lo è. È un finale che presenta due concertati, come Tancredi. È vero che nei finali d’opera primo-ottocentesca ci sono pezzi che ritornano (il «primo tempo» a strofe parallele, il «pezzo d’azione», il «concertato di stupore», la «stretta»): ma sono come un serbatoio di possibilità che hanno i compositori per rispondere – a volte per eludere – le prefigurazioni del libretto, non sono un’impalcatura, né i librettisti né i compositori sono, a questa altezza temporale, ancora consci di dover scrivere una «solita forma».

E fissarsi sulla «solita forma» rischia di non far vedere cose ancora più ovvie. Nulla è detto ad esempio di un ritrovato rossiniano di grande importanza: lo slittamento da un «primo tempo» con le strofe parallele a un «pezzo d’azione» “ibridato” col «primo tempo», il che fa sì che Rossini adoperi sempre più sovente lo stesso materiale anche per il pezzo successivo al concertato (insomma, per quelli che vengono chiamati nella teoria «tempo d’attacco» e «tempo di mezzo»). Rossini economizza materiale musicale, semplificando la tradizione italiana. E consegnandola, questo è vero, alla posterità.

Sarebbe inutile elencare tutti i pro o i contro il lavoro di Lippe. Ma infine, che cosa ci dice di Rossini e della sua esperienza?

Tutto sommato, poco. La drammaturgia di Rossini viene indagata in modo convenzionale, con qualche lampo di valore, sicuramente, che trova qualche corrispondenza intratestuale (come nel caso di Otello) e intertestuale (come nel caso di Otello e Mosè). Ma è troppo legato alla dialettica orizzonte d’attesa/corrispondenza col (o elusione del) medesimo.

È indubbio che l’agire compositivo in tutte le epoche si configura all’interno di un lessico comune, in cui ogni compositore dà e riceve da una tradizione, dalle sue forme. Ciononpertanto l’impostazione di Lippe (data una norma, vedere come e quanto ci si allontana dalla norma, studiare le soluzioni in rapporto alla supposta “media”) ci sembra oramai, se non superata, infruttuosa, forse perché la “norma” stessa va ridiscussa e forse mutata. La «solita forma» ha probabilmente esaurito la sua carica. Fin dal 1997 Roger Powers ne denunciava i limiti, i fraintendimenti, il solo apparente radicamento nella teoria coeva: il «Basevi’s garden path» del suo articolo potrebbe essere anche il «Ritorni’s garden path» (Scott Balthazar e altri sono ricorsi agli Ammaestramenti di Ritorni per cercare un appiglio contemporaneo al modus operandi rossiniano).

Il problema più serio è che la crisi del “basevismo” e del “ritornismo” rischia di essere la fine dell’analisi operistica. Bisogna oramai, non paia un’esagerazione, riflettere accuratamente sulle possibilità, sull’utilità di un’analisi operistica. Senza un modello altrettanto forte, e rivelatesi illusorie molte alternative, che cosa resta? solo le prospettive gender o gli equivoci bagliori dello studio della drammaturgia individuale delle opere?

C’è un’alternativa apparentemente minore, ma che forse può aiutarci: ricominciare daccapo, senza accantonare i fin troppo meritori studi dell’ultimo trentennio del secolo scorso, ma provando a trovare un’alternativa. Colmando i buchi nella conoscenza della storia dell’opera italiana, per esempio il periodo 1790-1820 e 1850-1880. Ci sono dei libri che stanno già da ora affrontando altri versanti, per raggiungere la cima. Bisogna ancora descrivere l’opera prima di Rossini, e quella di fine Settecento, scavando tra partiture libretti e testimonianze, in modo da non avere rischi di prospettiva teleologica, ma di dare l’idea del continuum che si opponga dialetticamente alla visione di un cosiddetto «periodo di transizione», sia esso principiante con i tardi anni Ottanta del Settecento o con la morte di Cimarosa nel 1801. Ma è chiaro che siamo a una svolta, di fronte al rischio di un’aporia. Forse, appunto, l’alternativa è quella di tentare una descrizione in cui l’opera, l’oggetto (e naturalmente non opus, ma sommatoria di tutte le circostanze che hanno portato un’opera teatrale alla luce) possa meglio dettare i modi della propria analisi, portare a una nuova, irrinunciabile, ondata teorica.

Per quanto riguarda Rossini, forse solo il riportarlo in contatto coi suoi antenati potrà dare l’idea della sua statura, del posto che occupa, della sua individualità. Se questo portasse solo alla conclusione che Rossini è unico, poco riusciremmo a evincere. Se invece capiremo come la musica di Rossini si sia imposta, quali meccanismi – macro-, ma anche microformali – la rendano così consona all’Ottocento, forse sarà stato minor danno.

 

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[Bio] Daniele Carnini è nato a Roma. Si è laureato in Lettere a Roma e addottorato in Musicologia a Cremona. È anche compositore e direttore d'orchestra. In entrambi i campi (musicale e musicologico) si è prevalentemente occupato di teatro in musica.

E-mail: daniel.san@tiscali.it

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