Recensione di Giorgio Biancorosso :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Recensione a cura di Giorgio Biancorosso

 

 

MICHAL GROVER-FRIEDLANDER, Vocal Apparitions: The Attraction of Cinema to Opera, Princeton, Princeton University Press, 2005, p. 216.

 

 

Diviso in tre sezioni dai titoli suggestivi e oracolari – «Silent Voices», «Visions of Voices», «Remains of the Voice» –, Vocal Apparitions si snoda in sei snelli capitoli, ciascuno dei quali discute un esempio di attrazione (più o meno fatale) per l’opera da parte del cinema. I primi due capitoli sono letture critiche di The Phantom of the Opera (1925) e il noto film dei fratelli Marx A Night at the Opera (1935). Segue un’altra coppia di analisi, incentrate rispettivamente sull’Otello (1986) di Zeffirelli e il Falstaff (1979) di Friedrich e per concludere – «Remains of the Voice» – un capitolo, il quinto, su La voix humaine di Poulenc e Una voce umana di Rossellini (opera e film basati sull’omonima pièce di Cocteau) e uno, il sesto e ultimo, su E la nave va (1982) di Federico Fellini.

All’eclettismo nella scelta dei film corrisponde un interesse quasi esclusivo verso l’opera italiana ottocentesca, in particolare Verdi, che giganteggia in quattro dei sei capitoli, e una forte attrazione verso il fenomeno divistico, e in particolare la sua dimensione elegiaca (penso alla presenza della Callas nell’ultimo capitolo). Se è vero che il libro si occupa di cinema tanto quanto di opera, è quest’ultima ad essere il vero punto focale del libro, il momento di eterno ritorno, l’oggetto della costante reiterazione del suo principale assunto teorico: l’opera, nella fattispecie il canto operistico, come ritualizzazione della vocalità. Nella interpretazione datane dalla Grover-Friedlander, la voce, ora risonante, ora muta ovvero «mutata» – in grido, sussurro, silenzio ma anche, metamorficamente, immagine –, celebra la morte, di se stessa innanzitutto, delle eroine o degli eroi che se ne fanno portatori e infine degli ascoltatori in quanto soggetti ivi riflessi.

Poco importa che l’autrice fondi il suo assunto su premesse teoriche fragili se non addirittura discutibili – la Clément, per esempio, la cui idea di opera come ritualizzazione della morte è semplicisticamente dedotta dalle trame dei libretti;[1] ma anche Žižek e il suo lacanismo multiuso e ciarlatanesco, la cui utilità alla operazione della Grover-Friedlander si rivela essere assolutamente nulla non appena l’autrice, avendone succhiato ‘vampirescamente’ ciò che più le serve, si addentra, con la consueta grazia e immaginazione, nelle analisi. Non a caso, gli ultimi tre capitoli – sul Falstaff, Une voix humaine/Una voce umana, e il felliniano E la nave va – sono felicemente liberi da riferimenti alla letteratura secondaria, non tanto per aver l’autrice già offerto i debiti omaggi alle dette «autorità», quanto perché le analisi stanno perfettamente in piedi da sole. Lasciata l’atmosfera terrestre e addentratasi nel suo personalissimo, oscuro spazio siderale, la Grover-Friedlander si disfa di Clément, Žižek, Poizac come di un ormai inutile apparato di decollo. Solo Stanley Cavell e Carolyn Abbate, non a caso studiosi di ben altro calibro e acume, rimangono a tenerle compagnia.

Ciò che davvero importa, indipendentemente dalle convergenze con una serie di studi recenti molto trendy, è che Vocal Apparitions esprime una visione discutibile forse ma forte, personalissima del genere operistico, visione lugubre, se non addirittura macabra, alleggerita qui e lì da momenti di candida elegia. Tale visione si fonda su una concezione fortemente anti-filologica e anti-drammaturgica dell’opera non solo in quanto genere musicale ma anche in quanto manifestazione o, se si vuole, sintomo di una cultura decadente, quella europea di fine Otto e primo Novecento. Si tratta di una concezione che ha un effetto straniante paragonabile a quello ottenuto da Emilio Sala nel suo libro su La traviata (sia pure attraverso una procedura opposta, cioè la ricostruzione minuziosa e storicamente inappuntabile di uno specificissimo contesto sociale e culturale).[2]

Se la filologia e la drammaturgia vengono scansate senza mezzi termini, è anche vero che il libro recupera una dimensione ritualistica e corporea del fatto operistico e nel così fare si allinea – coscientemente o meno: la Grover-Friedlander tace su questo punto – ai tentativi di rileggere la tradizione operistica in prospettiva antropologica. Non a caso, il mito di Orfeo, mito della voce e della vocalità piuttosto che della musica in quanto testo fisso, forma chiusa, ritorna ossessivamente nella trattazione. Da tale orientamento deriva anche la confusione tra questa e quella opera e il genere operistico inteso in senso lato. È quanto rimproveratole in una recensione dove si nota, con disappunto, come le osservazioni su una specifica opera o specifico film si facciano in un attimo conclusioni sull’opera o il cinema in generale.[3] È vero che la Grover-Friedlander sembra essere poco consapevole della propria tendenza a generalizzare; ma è altresì vero che è l’impianto stesso del progetto a determinarne il continuo perdersi, per così dire, per la tangente. Il libro, a ben guardare, non analizza opere specifiche in quanto tali né l’opera in quanto fenomeno storico; né tantomeno esaurisce il ventaglio di possibili letture dell’incontro tra opera e cinema. È il genere in quanto tale ad essere interrogato; o meglio, è una figura della sua ricezione, vale a dire l’opera in quanto espressione del fenomeno della vocalità. Vocal Apparitions si fa interprete di una idea dell’opera, idea che, scorporata, disancoratasi da un contesto storico e culturale, un apparato sceno-tecnico e financo da una fonte sonora, è non a caso trasmutabile in immagine. Di qui l’interesse che la Grover-Friedlander nutre non tanto per il cinema in quanto forma narrativa quanto per l’immagine e la sua capacità, in determinati, specialissimi momenti, di rivelare la speciale natura della vocalità operistica. In questi momenti l’immagine si fa «vocal apparition» e in quanto tale più corporea, concreta dell’idea. E se tale idea contempla il silenzio come soglia ultima del canto operistico, la Grover-Friedlander può sostenere, senza cadere nel ridicolo, che lo stretto «rapporto tra film muto e opera si fonda sulla analogia piuttosto che un bisogno di compensazione».[4]

È un peccato che l’assunto fondamentale del libro, il suo rincorrere elaborazioni di un’idea piuttosto che di un concreto fenomeno storico, artistico e tecnico, non sia reso più esplicito nel corso della trattazione. Come era prevedibile, la definizione personale e alquanto ristretta del genere operistico proposta dall’autrice ha attratto qualche critica. Ma è nelle improvvise intuizioni, a cavallo tra suono e immagine, che il libro va soppesato e interpretato. Una su tutte: la lettura dei suoni fuori campo che alimentano l’ansia del personaggio interpretato da Anna Magnani in Una voce umana come segni acustici di una apparizione – quella dell’amato – agognata e infine negata, «sulla soglia, al di qua della voce».[5]

Noto per inciso che l’entusiasmo dell’autrice per il repertorio italiano è mal servito dallo staff editoriale della Princeton University Press. Gli errori di ortografia – penso a «Une voce umane», con l’articolo ‘alla francese’ e la «e» finale di «umane» che gridano vendetta, ripetuto svariate volte nella sezione, peraltro bellissima, su Rossellini – andavano evitati. Noto anche l’assenza di una filmografia, pecca editoriale altrettanto sconveniente in un libro sul cinema. Quanto alla assenza di riferimenti a testi in lingua italiana, ce ne duole non tanto per completezza bibliografica o accuratezza filologica, quanto perché la visione a un tempo viscerale ed eccessiva della Grover-Friedlander avrebbe trovato in autori quali il nostro Bruno Barilli e Giovanni Morelli, per citarne due, echi e riflessi affascinanti.

 

 

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[Bio] Giorgio Biancorosso (Ph.D. Princeton, 2002), gia Mellon Fellow alla Society of Fellows in the Humanities, Columbia University, e ora Assistant Professor in Music nella School of Humanities, The University of Hong Kong. Tra le recenti pubblicazioni ricordiamo i saggi Whose Phenomenology of Music?, «Music & Letters», 89/2, 2008 e Ludwig’s Wagner and Visconti’s Ludwig (Wagner and Cinema, Indiana University Press). Sta completando, per Oxford University Press, la monografia Musical Aesthetics through Cinema.

[1] Catherine Clément, L’Opéra ou la Défaite des femmes, Paris, Grasset, 1979 («Figures»).

[2] Emilio Sala, Il valzer delle camelie: echi di Parigi nella Traviata, Torino, EDT, 2008.

[3] Laura Basini, Vocal Apparitions: The Attraction of Cinema to Opera (review), «Music and Letters», 87/4, 2006, p. 683-85: 685.

[4] Michal Grover-Friedlander, Vocal Apparitions: The Attraction of Cinema to Opera, Princeton, Princeton University Press, 2005, p. 21.

[5] Ibid., p. 127.

 

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