IGNESTI, Il flauto traversiere e il suo procedimento costruttivo :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Alessandra Ignesti

 

Il flauto traversiere e il suo procedimento costruttivo

 

 

Figure e tavole in formato stampabile, con didascalie 

 

***

Premessa

 

Quando si affronta la questione degli strumenti originali si tende a concentrare l’attenzione su di essi in quanto oggetti e sul ruolo di cui potrebbero essere investiti nel tentativo di restituire un’immagine sonora convincente della musica antica. Anche se con sempre maggior frequenza molti esecutori ricorrono a delle copie, di rado la riflessione retrocede oltre al loro darsi concreto: strumenti originali e copie sono sempre già disponibili e si tratta solo di decidere se adottarli o meno e, eventualmente, quale possa essere il loro reale contributo nell’esecuzione.

In una prospettiva rigorosa, è corretto chiedersi se dopo due o tre secoli uno strumento conservatosi in chissà quali condizioni possa ancora avere un suono simile a quello originario e allo stesso modo, nel caso di una copia, è bene porre la questione del grado di fedeltà al modello. Un’opinione forse datata, ma non per questo poco diffusa è stata espressa da Jeremy Montagu nel lontano 1975:

The only way to copy an instrument is to copy it exactly; the fact that it is then difficult to play is immaterial, for it is up to the player to master it. Once he has trained his musculature to produce good tone and good intonation on an instrument identical to an original, he is halfway to recreating the original technique and the original performance style.[1]

Potrebbe essere interessante indagare quanto questa visione sia effettivamente condivisa oggi: probabilmente molti esecutori e molti organologi sarebbero più cauti nell’usare aggettivi come ‘identico’ e avverbi come ‘esattamente’, ma ciò non toglie che, complice anche la grande fiducia nelle ultime tecniche di misurazione e riproduzione applicate alla costruzione e al restauro degli strumenti musicali, la copia sia spesso automaticamente intesa come oggetto riproducente l’originale in ogni dettaglio. Problematizzare quest’accezione per certi versi riduttiva di ‘copia’ significa anche aprire un altro ordine di riflessione, che introduce nuovi aspetti da valutare tanto di per se stessi, quanto in relazione al complesso di idee e convinzioni di natura tecnica, storica ed estetica che riassume lo stato attuale di una riflessione iniziata già sul finire dell’Ottocento, con i primi approcci antiquari di Dolmetsch. Più precisamente, si pone il problema di come costruire la copia a partire dallo strumento originale.

È probabile che molti non siano d’accordo nell’includere la considerazione di ciò che riguarda la realizzazione della copia nella discussione sul significato da dare a quest’ultima. È evidente, tuttavia, che ciò che si può pretendere da una copia in sede esecutiva dipende innanzitutto dal suo modo di essere copia, il che rinvia inevitabilmente ai principi e ai modi secondo cui è stata costruita. In questa prospettiva, il ruolo dell’artigiano si può dire rivalutato o persino riscoperto, in un’epoca in cui il legame, un tempo indissolubile, tra un oggetto e il suo processo di costruzione si è progressivamente allentato, giungendo a volte ad annullarsi del tutto nell’anonimo isolamento dei prodotti. L’abitudine di escludere automaticamente dalla considerazione tutto ciò che riguarda il processo produttivo di un bene è profondamente radicata in noi, ma non lo era affatto un tempo: intere generazioni di famiglie come gli Hotteterre e i Philidor, tanto per fare un esempio che ci riporti in ambito musicale, non solo componevano, suonavano e insegnavano, ma producevano i loro strumenti, sperimentavano e innovavano. Se fu proprio grazie a questa costante interazione fra diversi ambiti di competenza che molti degli strumenti che abbiamo ereditato hanno visto la luce, come si può pensare oggi di prescindere dalla considerazione di quella che in realtà è una vera e propria premessa metodologica al recupero della musica antica?

Come sopra si è accennato, non è affatto scontato che l’artigiano che deve realizzare la copia di un certo modello debba operare solo passivamente limitandosi a misurare e a riprodurre. Molto dipende dalle richieste del committente: se questo è un museo, ad esempio, il requisito principale dovrà essere la massima precisione possibile nella riproduzione di ogni dettaglio, ma se il committente è un esecutore, professionista o dilettante, potrebbero essere necessarie alcune modifiche imposte da esigenze pratiche, come ad esempio quella relativa al diapason. Si profila quindi una connotazione attiva del ruolo dell’artigiano, cui viene richiesto di combinare la conoscenza dell’originale con le personali doti di abilità ed esperienza. In questo senso, dunque, si è affermato che il procedimento costruttivo costituisce una premessa di metodo: il modo in cui l’artigiano costruisce lo strumento determina a priori in quali modi esso potrà essere suonato.

L’obiettivo di questo breve lavoro è quello di analizzare il procedimento costruttivo di uno strumento specifico, il flauto traversiere. Anche l’arco cronologico considerato è piuttosto ben definito, dato che lo strumento è apparso attorno al 1680 ed è stato impiegato professionalmente fino alla fine del Settecento.

In un primo momento mi dedicherò a una rapida ricognizione delle tecniche e degli utensili di cui potevano disporre gli artigiani dell’epoca, facendo riferimento a una delle pochissime testimonianze disponibili sull’argomento, il Manuel du Tourneur di Bergeron. Si tratta di un’opera rivolta a tornitori dilettanti, compilata alla fine del Settecento, che nonostante i limiti connessi alla sua destinazione offre un interessante compendio dei metodi e delle possibilità tecniche della carpenteria dell’epoca.

Il tentativo di ricostruire il procedimento antico sarà poi seguito da un confronto con la descrizione di quello adottato da un apprezzato costruttore di copie di strumenti storici a fiato, Michele Losappio, che ha gentilmente acconsentito ad aprire il suo laboratorio.

 

PRIMA PARTE – IL METODO COSTRUTTIVO ANTICO[*]

 

I materiali

 

Nel periodo compreso tra il XVI e il XVIII secolo, i materiali impiegati nella costruzione dei flauti traversi e di molti altri strumenti a fiato di dimensioni paragonabili, come ad esempio i flauti diritti o gli strumenti ad ancia, erano sostanzialmente due: il legno e l’avorio. Quest’ultimo, in realtà, era usato solo nella produzione di strumenti di particolare pregio perché, anche se era apprezzato per l’eleganza e la bellezza, presentava grandi svantaggi pratici nella lavorazione, era facilmente deteriorabile e, soprattutto, assai costoso.

I primi accenni ai criteri di scelta delle essenze nella costruzione di strumenti a fiato si trovano nella Harmonie Universelle di Mersenne, riferite alle traverse:

Leur matiere peut estre de prunier, de cerisier & des autres bois qui se percent aysément, mais on choisit ordinairement du bois d’une belle couleur, & qui reçoit un beau poly, afin que la beauté accompagne la bonté de l’instrument, & que les yeux soient en quelque façon participans du plaisir de l’oreille: on les fait ordinairement de buis; elles sont aussi fort bonnes de chrystal, ou de verre & d’ebene.[2]

L’analisi degli originali conservatisi mostra, comunque, che queste affermazioni restano valide per tutti gli strumenti a fiato della sua epoca e anche per quelli del periodo precedente. Mersenne fa esplicito riferimento a legni di susino e ciliegio e accenna genericamente anche ad altri legni che presentano la caratteristica di lasciarsi forare con facilità ma, di fatto, il legno impiegato più frequentemente era il bosso. Altre essenze in uso erano il pero e l’ebano, mentre spesso gli strumenti di grandi dimensioni venivano realizzati in acero, legno molto più leggero anche se particolarmente sensibile all’umidità e, per questo motivo, inadatto a strumenti con cameratura stretta.

Circa un secolo più tardi Quantz affrontò l’argomento nel suo trattato sul flauto traverso:

(§18) I Flauti sono formati di ogni spezie di legno duro, come Bosso, Ebano, Legno reale, Legno santo, Grenadiglia. Il Bosso è il legno più duro, e più ordinario per fare flauti, ma l’Ebano rende il tuono più chiaro, e più bello; si deve foderare il flauto con l’Ottone, come alcuni hanno provato, per fare il di loro suono rampognante, rozzo e disaggradevole. (§19) Siccome certe umidità penetrano nell'interno del flauto, che si suona, le quali sono dannose, bisogna avere diligenza di nettarlo spesso con un cencio appeso ad un bastone; e perché tale umido non entri nel legno, conviene ungerlo qualche volta con oglio di mandorle.[3]

Dall’analisi di queste affermazioni si possono trarre interessanti considerazioni. In primo luogo, si può osservare che, più di un secolo dopo le informazioni di Mersenne, il bosso era ancora il materiale più diffuso, mentre i legni da frutto non sono nemmeno menzionati. In compenso, l’ebano si era imposto nelle preferenze di Quantz perché, grazie alle sue caratteristiche, conferiva allo strumento un timbro più chiaro e bello, qualità che egli cercava di intensificare anche tramite l’allargamento della cameratura, che contribuiva ad accrescere la purezza e la rotondità del suono nelle prime due ottave.

Notiamo, a questo punto, come l’attenzione di Quantz per la qualità del suono e la noncuranza pressoché completa per l’aspetto dello strumento si ponga in contrasto con l’atteggiamento manifestato da Mersenne un secolo prima, caratterizzato invece da un certo interesse per la bellezza del colore, la lucidatura e, in generale, per la partecipazione della vista al piacere dell’udito. Sebbene all’apparenza di poco conto, si tratta senz’altro di un innegabile mutamento di sensibilità.

Un uso determinato da motivi esclusivamente estetici fu, a partire dalla metà del XVII secolo, quello di trattare la superficie esterna dello strumento con tinte scure o con acidi che conferivano al materiale impiegato le sembianze di un prezioso legno esotico. Naturalmente, il favore incontrato da questi interventi dipendeva dai gusti e dalle convinzioni personali: alcuni esprimevano totale disapprovazione, altri apprezzamento per il risultato estetico sulle venature, altri ancora una tolleranza accresciuta dalla convinzione che il passaggio dell’acido potesse rinforzare la superficie del legno.

Un’interessante osservazione di Quantz riguarda la manutenzione, con particolare riferimento al problema della condensa che si forma abbondantemente all’interno del tubo già dopo pochi minuti di uso dello strumento. Oltre a raccomandare di asciugare l’interno con un panno applicato a un bastoncino, egli osservava come alcuni legni fossero più sensibili di altri al permanere della condensa e, in generale, più suscettibili alle variazioni atmosferiche. Va detto che, quando uno strumento viene suonato, il rapido passaggio dall’essere asciutto e, spesso, freddo all’essere umido e caldo comporta brusche sollecitazioni cui ogni tipo di legno reagisce diversamente. Il legno di bosso, ad esempio, specialmente se non stagionato a dovere, è soggetto a deformazioni, soprattutto in prossimità delle zone più delicate dello strumento come i giunti tra i vari pezzi. Oltre agli effetti estetici, le deformazioni possono influire sull’intonazione del flauto e, nei casi più gravi, possono intaccare forma e tenuta degli incastri tenone-mortasa, compromettendone anche del tutto la funzionalità. Il legno d’ebano, invece, non è soggetto a deformazioni, ma piuttosto a rotture o crepe, che possono manifestarsi improvvisamente anche durante l’uso dello strumento. L’accorgimento suggerito da Quantz e tuttora in uso oggi, era di ungere lo strumento con olio di mandorle al fine di rendere idrorepellenti le pareti interne del tubo ed evitare così gli inconvenienti dovuti all’assorbimento dell’umidità.

Diversi esemplari sono giunti sino a noi privi di crepe o deformazioni e, senza dubbio, il legname impiegato per la loro realizzazione era stato meticolosamente stagionato. Esisteva un tempo in Inghilterra una procedura segreta per la stagionatura della varietà locale di bosso, che consisteva nel seppellire il legname sotto miscugli di terra e letame, lasciandolo riposare per vent’anni o più. Pare che i costruttori antichi attribuissero particolari proprietà al legno stagionato secondo questa tecnica, responsabile forse anche dell’accentuata colorazione miele di alcuni strumenti in bosso che si sono conservati sino ad oggi. D’altra parte, solo in un’epoca in cui i mestieri si tramandavano di padre in figlio era possibile pianificare una stagionatura così lunga, che faceva del legno un piccolo tesoro per gli eredi.

 

Il procedimento costruttivo

 

In passato, la costruzione del flauto e, più in generale, degli strumenti a fiato in legno non richiedeva competenze diverse da quelle possedute da qualsiasi buon tornitore, anche se probabilmente solo i più abili sarebbero riusciti a ottenere un buon risultato. Gli utensili impiegati nella costruzione degli strumenti sono descritti in alcune opere classiche sulla tornitura, come ad esempio L’art de tourner en perfection di Plumier (1701) e il Manuel du Tourneur di Bergeron[4] (1792 e 1816) e compaiono anche nelle tavole dell’Encyclopédie di Diderot (1751-1780).

Le testimonianze relative alla prassi costruttiva dell’epoca sono invero piuttosto scarse e, del resto, l’iniziativa di compilare descrizioni tecniche specifiche del procedimento di costruzione non era per nulla conveniente: molto più saggio era mantenere rigorosamente il segreto sui trucchi del mestiere. Non si tratta di un caso, dunque, se l’unico esempio di una simile descrizione ci è stato offerto da Bergeron, il quale non era un costruttore, ma un noto avvocato. Grazie a lui, siamo in grado di ricostruire almeno le fasi fondamentali del procedimento che verosimilmente doveva seguire ogni costruttore dell’epoca. Quanto ai dettagli di ogni singolo passaggio, data la notevole variabilità in funzione della geografia e persino delle abitudini dei singoli costruttori, nulla può essere detto a un livello generale come quello della nostra trattazione: la disponibilità di mezzi, l’ingegno, l’esperienza o le consuetudini di famiglia, infatti, influivano profondamente sulle scelte costruttive e, data anche la scarsa circolazione di informazioni cui si è fatto cenno, una ricostruzione esauriente è probabilmente impossibile da realizzare.

Tutto aveva inizio con la scelta del legno, cui seguiva la sua riduzione in blocchetti di dimensioni adeguate, vale a dire di poco superiori a quelle del pezzo finito. Per un flauto in quattro parti erano necessari quattro pezzi di legno della medesima densità e colore, in modo da garantire un risultato finale il più possibile omogeneo. Le parti erano ottenute per spaccatura piuttosto che per segatura e le ragioni di tale preferenza risiedevano nel fatto che il ricorso all’accetta assicurava che la rottura avvenisse in corrispondenza dei naturali punti deboli della struttura del legno, laddove la sega avrebbe interrotto le venature e alterato gli equilibri interni ottenuti dopo una lunga stagionatura. I pezzi erano quindi passati al tornio per sbozzarne la sagoma esterna e poi accorciati, in modo da ottenere dei cilindri di diametro e lunghezza di poco superiori a quelli finali. A questo punto, si praticava longitudinalmente e centralmente un foro di piccolo diametro, molto più stretto rispetto a quella che sarebbe stata poi la cameratura dello strumento. Per questo passaggio si adoperava una sorta di piccolo trapano o un alesatore e si fissava il pezzo al tornio con una lunetta, la quale consentiva da un lato di mantenerlo fermo e, dall’altro, di avere facile accesso all’estremità da forare. I pezzi così ottenuti erano lasciati riposare ancora una volta al riparo dal sole e dall’umidità e, grazie all’aria che poteva circolare all’interno, la stagionatura avveniva in maniera molto più rapida ed efficace.

Al termine di questa seconda stagionatura iniziava la fase successiva della lavorazione, durante la quale veniva allargato il foro pilota praticato in precedenza e veniva così conferita alla cavità interna del tubo la sua forma definitiva. Per compiere tale operazione venivano usati degli alesatori, ovvero attrezzi simili a sgorbie, adatti alla lavorazione all’interno del pezzo.

Dopo aver portato l’interno a forma definitiva, si poteva passare alla realizzazione delle mortase. Si trattava di fissare i pezzi al tornio, separatamente, servendosi di un mandrino opportunamente sagomato che doveva essere preparato con la massima cura poiché doveva far combaciare nel modo più preciso possibile l’asse di rotazione del tornio con l’asse della cavità interna del pezzo. In caso contrario, le pareti esterne dello strumento avrebbero avuto spessore non uniforme e, di conseguenza, l’incastro tra i pezzi avrebbe potuto essere compromesso, così come le qualità sonore dello strumento. Esternamente, in corrispondenza delle mortase, erano spesso presenti degli anellini,[5] di solito con funzione di abbellimento ma talvolta anche di rinforzo. Il loro profilo interno era leggermente tronco-conico e venivano incollati al pezzo subito dopo la lavorazione della mortasa.

A questo punto si procedeva con la tornitura esterna definitiva durante la quale erano realizzati anche i tenoni, opportunamente dimensionati in modo da poter entrare agevolmente nelle mortase. A causa delle continue sollecitazioni meccaniche cui erano sottoposti, essi non potevano avere lo stesso diametro delle mortase, ma era necessario che vi fosse un certo gioco tra i due pezzi. La stabilità dell’incastro era poi garantita avvolgendo del filo cerato all’esterno del tenone e, per evitare che quest’ultimo si spostasse quando lo strumento era smontato, si praticavano delle tracce circolari.

Il passo successivo consisteva nel praticare i fori di diteggiatura, il foro della chiave e quello dell’imboccatura. Una volta determinata la loro corretta posizione e il loro diametro esterno si procedeva alla foratura per mezzo di un trapano dalla punta leggermente più piccola del diametro del foro e si procedeva poi all’allargamento dei fori pilota impiegando utensili di vario tipo, ad esempio delle fresette coniche. Durante tutto il procedimento era necessario controllare costantemente sia la misura del diametro del foro in lavorazione, sia l’intonazione e la resa sonora dello strumento, al fine di stabilire se l’allargamento fosse sufficiente. Dopo quest’operazione, o anche contemporaneamente, si praticava la svasatura interna dei fori. Anche in questo caso gli utensili impiegati erano assai vari e molto dipendeva dalle disponibilità e dall’ingegno del singolo costruttore.

Le ultime fasi di lavorazione prevedevano l’applicazione della chiave, la preparazione del cappuccio di chiusura della testata e, ovviamente, la prova dello strumento, alla quale potevano seguire diverse fasi di ritocco della svasatura o del diametro dei fori per ottimizzare l’equilibrio di intonazione dello strumento.

 

Gli utensili del mestiere

 

Gli alesatori

L’alesatore è un utensile impiegato per la finitura di fori conici o cilindrici, dotato di spigoli di taglio detti taglienti in grado di asportare piccoli spessori del materiale in eccesso. La prima rappresentazione iconografica nota di questi utensili si trova nell’illustrazione di Christoph Weigel, Der Pfeiffenmacher (1698), oggi parte della Dayton C. Miller collection (figura 1); il dettaglio degli alesatori è rappresentato in figura 2. Altri alesatori sono raffigurati nell’Encyclopédie (figura 3) e un ulteriore esempio si trova nelle tavole annesse al trattato di Bergeron (figura 4).

Pur nella semplicità del disegno, gli alesatori dell’illustrazione di Weigel si possono ricondurre al tipo illustrato con maggior dettaglio nelle tavole di Bergeron. Indicazioni precise sul loro impiego sono fornite proprio da quest’ultimo, che spiega come essi dovessero essere fissati saldamente con una morsa mentre i pezzi venivano inseriti e ruotati a mano.

Bergeron fornisce l’illustrazione di un unico lungo alesatore da finitura (figura 4, in alto), ma ne descrive anche altri quattro di lunghezza inferiore per le corrispondenti parti del flauto, ciascuno dei quali riproduce un determinato tratto dell’alesatore di finitura. Ognuno di essi doveva essere più lungo dello stretto necessario di modo che, quando l’usura ne avesse resa necessaria l’affilatura, l’assottigliamento complessivo dell’utensile non ne avrebbe compromesso la funzionalità.[6] Molto inverosimile, invece, appare l’impiego del lungo alesatore di finitura cui si è fatto cenno. Secondo Bergeron, esso avrebbe dovuto essere usato sullo strumento già finito esternamente e assemblato, bloccato in una morsa. La descrizione di questo passaggio, così in contrasto con una valutazione dettata da elementare buon senso, può essere un indizio in grado di confermare il fatto che Bergeron non aveva mai costruito un flauto. Sembra del tutto improbabile, infatti, che potesse essere prassi diffusa quella di ruotare tutto lo strumento sull’alesatore facendo leva su una morsa applicata a un solo pezzo perché i tenoni non sarebbero mai rimasti solidali con le mortase; va aggiunto, poi, che la testata del flauto, di forma interna cilindrica, non avrebbe dovuto essere coinvolta in quest’operazione, ma di questo dettaglio non è fatto il minimo cenno.

Quanto al concreto impiego degli alesatori, vi erano due possibilità: essi potevano essere tenuti in mano mentre il pezzo veniva ruotato, oppure si poteva ruotare l’alesatore sul pezzo fissato a una morsa, a seconda della presenza o meno di un’idonea impugnatura. Molto poco credibile appare invece l’ipotesi che fossero usati con il pezzo caricato sul tornio dato che la lavorazione, che richiedeva uno sforzo considerevole, sarebbe divenuta pericolosa e potenzialmente incontrollabile.[7]

Assai diversi sono gli alesatori rappresentati nell’Encyclopédie: essi, infatti, appaiono formati da un lungo manico cilindrico e da una parte terminale raschiante, con diverse possibili forme tra cui quella a cucchiaio (figura 3, n. 1), la quale permette di raccogliere il truciolo durante la lavorazione per poi estrarlo assieme all’attrezzo. Il modo d’impiego di questi alesatori non è del tutto chiaro, soprattutto per quanto riguarda la lavorazione delle cavità coniche caratteristiche della cameratura del nostro strumento. Si può supporre che essi venissero usati a mano per realizzare tratti cilindrici di diverso diametro, ad esempio decrescente, in seguito raccordati con leggera abrasione per ottenere un unico lungo tratto conico.

 

Il tornio

Il tornio è un utensile per produrre solidi di rotazione. Ciò significa che ogni sezione di un pezzo tornito, tagliata perpendicolarmente all’asse di rotazione, è sempre circolare. A seconda del grado di evoluzione del tornio sono possibili numerosi tipi di movimento e di interazione fra pezzo e tagliente e tale versatilità ha motivato la straordinaria importanza attribuita a questa macchina sin dall’antichità.

A partire dal III secolo d.C. furono apportati notevoli miglioramenti, soprattutto in relazione al sistema di rotazione: un capo della corda guida fu allacciato a un pedale o a una staffa e poi fatto passare attorno al pezzo da lavorare, mentre l’altro capo era legato ad un palo flessibile, posto al di sopra del tornio. L’adozione di questa tecnica aumentò notevolmente la potenza di rotazione e presentava il vantaggio di lasciare le mani libere durante la lavorazione. Interessanti esempi sono rappresentati in figura 5, in figura 6 sullo sfondo e, con la massima chiarezza, in figura 7. Queste ultime due illustrazioni testimoniano che il tornio con il palo flessibile, che ai nostri occhi appare molto rudimentale, rimase in uso almeno fino alla fine del XVIII secolo, nonostante fossero disponibili altre soluzioni (si veda ad esempio il tornio ad azionamento manuale con due velocità, figura 6).

Le testimonianze scritte risalenti all’epoca medievale e rinascimentale sono piuttosto scarse, ma non mancano di interesse come nel caso di un disegno di Leonardo da Vinci, appartenente al Codice Atlantico, che ritrae forse il primo esempio di tornio in grado di combinare una rotazione continua, resa possibile dal ricorso al volano, con la possibilità di impiego indipendente da parte di un solo operatore.

Il primo trattato specifico di tornitura risale al 1701, anno in cui fu pubblicato L’art de tourner en perfection dell’abate Charles Plumier. Nel 1678 Joseph Moxon si era occupato di tornitura nel suo Mechanick Exercises or the Doctrine of Handy-Works, il primo trattato inglese che illustrò e descrisse l’uso degli utensili di vari mestieri, tra cui l’arte del fabbro, la gioielleria, l’orologeria, la carpenteria, la tornitura e la muratura. Più tardi, nell’Encyclopédie compilata fra il 1751 e il 1772, Diderot e D’Alembert inclusero molte tavole in cui erano illustrati il funzionamento del tornio e i lavori che era possibile eseguire con esso. L’opera classica della tornitura antica, tuttavia, rimane il Manuel du Tourneur pubblicato da L.E. Bergeron nel 1792: comprende due volumi contenenti ben 96 tavole e illustra in grande dettaglio quale fosse lo stato di quest’arte all’epoca, anche se non era destinato ad artigiani veri e propri, ma agli aristocratici che si dilettavano di tornitura.

Verso la fine del Settecento il tornio subì una profonda evoluzione che lo trasformò in una macchina molto sofisticata. Il tornio moderno non fu inventato nel vero senso della parola, ma fu il risultato di un lento e graduale processo di miglioramento. Un passaggio chiave in questo sviluppo fu l’introduzione di un volano separato dal mandrino con la funzione di mantenere uniforme la velocità e costante il verso di rotazione. Già nel 1678 Moxon aveva descritto i vantaggi di questo potenziamento osservando che il volano avrebbe permesso di eseguire il lavoro molto più rapidamente rispetto a prima, quando il sobbalzare del palo verso l’alto interrompeva di continuo la rotazione; con un volano capace di immagazzinare l’energia e ridistribuirla in modo uniforme, invece, il lavoro avrebbe potuto fluire senza scosse e l’artigiano, mentre agiva con le gambe su un pedale o su una manovella per fornire energia al tornio, avrebbe potuto avere entrambe le mani libere.

Un altro importante miglioramento fu la sostituzione della struttura in legno con una in ferro, materiale più resistente alle deformazioni, che permetteva tra l'altro l’applicazione di un carrello mobile sempre perfettamente allineato con l’asse di rotazione.

 

Altri utensili

Molti altri piccoli attrezzi occupavano i banchi da lavoro dei costruttori di strumenti a fiato. Tra essi, in particolare, si possono notare alcuni strumenti per il controllo della lavorazione e la misura degli strumenti. In figura 8, ad esempio, è raffigurato un calibrino conico, descritto nel trattato di Bergeron, munito di indicatori in corrispondenza di diversi diametri di circonferenza: un simile utensile era prezioso durante la fase di allargamento definitivo dei fori di diteggiatura poiché consentiva di capire quanto mancasse al raggiungimento della dimensione finale. Un altro esempio può essere il calibro ad arco di figura 9, descritto sempre nel medesimo trattato, che consentiva di prendere misure dall’interno o dall’esterno del tubo, mediante le punte d ed e, e di leggerne il valore con una certa precisione rilevando la lunghezza dell’arco BC sulla scala graduata.

Un altro attrezzo indispensabile era la fresetta conica per l’allargamento dei fori, rappresentata in figura 10, il cui impiego è facile da intuire. Molto interessante, poi, è una seconda fresetta per la svasatura interna, riportata in figura 11, composta da un manico provvisto di una comoda impugnatura e di un’astina filettata nella parte terminale, cui andava avvitata l’altra porzione dell’utensile, consistente in un piccolo tronco di cono zigrinato. Facendo scorrere quest’ultimo all’interno del tubo sino al raggiungimento del foro da svasare, era possibile avvitarvi il manico attraverso lo stesso foro e sollevare l’attrezzo per raschiare, ruotando, la parte interna della cavità.

Per completezza, la tavola tratta dal Manuel di Bergeron è riprodotta integralmente in figura 12.

 

SECONDA PARTE – INTERVISTA A UN COSTRUTTORE[**]

 

Per capire in quale misura i metodi costruttivi attuali si discostino da quelli del passato si è pensato di intervistare Michele Losappio, un noto costruttore di copie di strumenti a fiato storici, il cui laboratorio si trova a Castel San Gimignano, in provincia di Siena.

Per quanto riguarda i flauti traversi, fra i suoi modelli di riferimento sono compresi due flauti di fine Seicento e inizio Settecento, ovvero un Hotteterre e un Denner, un paio di metà Settecento, ovvero un Villars e il classico Rottenburgh (o anche un Palanca), e un Kirst di fine Settecento. Si tratta di strumenti dalle caratteristiche piuttosto eterogenee, dal punto di vista sia costruttivo che strumentale in senso lato. Gli abbiamo chiesto di illustrare gli aspetti più propriamente tecnici del procedimento da lui seguito per costruire la copia, senza trascurare qualche riflessione sull’atteggiamento del costruttore moderno nei confronti dell’originale. La discussione ha avuto inizio proprio a partire da quest’ultimo punto.

 

Qual è, secondo lei, il rapporto del costruttore di oggi con lo strumento d’epoca?

 

Penso che sia sostanzialmente simile a quello che c’era tra costruttore e strumento all’epoca: si parte comunque da un modello, solo che nel caso del costruttore moderno si tratta di un esemplare antico, nella scelta del quale intervengono fattori diversi come quello commerciale e la moda. A parte questo, tuttavia, anche all’epoca i costruttori avevano di certo consolidato un modello o più di uno, derivanti da altri precedenti con modifiche più o meno consistenti, anche in relazione alle esigenze dei musicisti.

 

Il fatto che siano trascorsi alcuni secoli e che moltissime informazioni relative non solo alla costruzione, ma anche alla prassi esecutiva siano state perdute per sempre può indurre ad assumere un atteggiamento piuttosto rigido di fronte all’originale, a fare cioè di ogni singolo esemplare un modello.

 

Naturalmente, all’epoca c’era molta variabilità, anche nell’ambito della produzione di uno stesso costruttore, causata non di rado dalla non controllabile qualità del legno. Premesso che è indispensabile studiare il maggior numero possibile di originali per acquisire informazioni, capire i metodi di lavorazione e individuare i modelli, due sono gli atteggiamenti che è possibile assumere: mirare alla riproduzione più fedele possibile di un particolare originale, che magari non può più essere suonato, oppure far proprie le caratteristiche fondamentali di uno strumento – come la cameratura, la posizione e il diametro dei fori – e costruire strumenti dotati di vita propria, che si discostano dall’originale in particolari più sfumati e aggiornati alle esigenze dei musicisti. Di fatto, anche se in rari casi può capitare che l’originale prescelto presenti già di per sé caratteristiche compatibili con la nostra pratica musicale – soprattutto relativamente all’intonazione e al diapason – di norma accade che le richieste dei committenti impongano notevoli forzature.

Personalmente, ritengo sia corretto fare in modo che la copia somigli il più possibile all’originale, ma credo sia altrettanto sensato costruire strumenti adattati alle nuove esigenze. Un ruolo fondamentale, in questo senso, è rivestito dai suggerimenti dei musicisti, che spesso richiedono aggiustamenti imposti dalla viva pratica del loro strumento. Nel caso di strumenti dal modello ben consolidato come quelli di fine Settecento, queste modifiche sono piuttosto ridotte.

 

Oggi la prospettiva del costruttore è diversa perché può contare sulla visione sinottica di una grande quantità di modelli, dei quali può astrarre le caratteristiche locali; è poi possibile preparare un catalogo con vari tipi di strumenti da proporre ai possibili acquirenti. All’epoca, invece, ogni artigiano aveva il suo concetto di strumento, il suo strumento.

 

Anche all’epoca c’era notorietà, commercio, scambio. Tanto più che in merito alla costruzione degli strumenti a fiato non c’erano molti segreti da custodire gelosamente come accadeva invece nel caso dei liutai, che dovevano seguire un procedimento costruttivo molto più articolato.

Via via che si conoscono strumenti nuovi, che li si studia e li si misura, emergono caratteristiche che si ripetono e ci si rende conto che, con il passare del tempo e in modo molto chiaro verso la fine del Settecento, i modelli si erano consolidati. Tralasciando le differenze regionali, insomma, si può affermare che il procedimento avviatosi all’inizio del Settecento, o anche prima con il flauto conico barocco, era arrivato a maturazione completa nel giro di un centinaio d’anni e che le forme si erano consolidate molto nettamente. Nel caso di alcuni costruttori particolarmente precisi, si può addirittura notare che il modello è sempre lo stesso.

 

Con quale criterio sceglie il materiale per costruire la copia?

 

All’inizio della mia attività, vale a dire circa venticinque anni fa, usavo del bosso locale. Il problema posto dalla varietà nostrana, il Buxus sempervirens, non riguarda tanto la qualità del legno in sé, quanto piuttosto il fatto che da noi, normalmente, il bosso è potato a siepe e si trova quindi solo in pezzatura corta e contorta. In seguito ho usato anche varietà non nostrane di bosso, come il Buxus balearica, proveniente dai Pirenei e molto conosciuto anche in epoca antica.

Normalmente, in Italia si possono trovare pezzi di tronco del diametro di circa 10 centimetri, o di poco più grossi. Bisogna tenere presente che, per raggiungere dimensioni modeste come queste, il bosso impiega moltissimo tempo, circa settant’anni e anche di più. Il Buxus balearica, invece si può trovare con facilità in pezzature decisamente maggiori (figura 13).

In commercio si trova già squadrellato oppure in tronco e, generalmente, è piuttosto fresco e bisogna quindi provvedere alla stagionatura. Ovviamente, si tratta di una fase molto delicata.

 

Pare che, un tempo, fosse abbastanza diffusa l’usanza di seppellire il legno sotto il letame per venti o anche venticinque anni. Naturalmente si tratta di un metodo improponibile oggi…

 

Anch’io ho letto di quest’usanza di seppellire il legno o addirittura di esporlo nelle stalle ai liquami degli animali. Il vantaggio di questa pratica, probabilmente, derivava dal fatto che alcune sostanze, come l’ammoniaca, avevano il potere di evitare la formazione di muffe e, dunque, il deterioramento del legno. Bisogna tenere presente, infatti, che se è vero che nella prima fase di stagionatura è necessario conservare il legno in un ambiente piuttosto umido per evitare che si secchi troppo rapidamente, è vero anche che, nel caso di un tronco appena tagliato e contenente moltissima acqua, succhi e sostanze zuccherine, ciò significa esporlo al rischio di muffa. Non è escluso, poi, che l’esposizione del legno ad un simile ambiente chimico conferisse alcune particolari caratteristiche come, ad esempio, l’apprezzato color miele. All’epoca era ben noto anche il procedimento con l’acido nitrico, responsabile della stessa colorazione miele, anche più scura ed ambrata.

Ad ogni modo, come è facile intuire, si tratta di un procedimento che oggi nessuno usa più. Personalmente, ritengo necessario lasciar passare un congruo numero di anni dal momento di acquisto del legno, circa cinque o sei. C’è una prima fase, che copre i primi due anni circa, in cui il legno contrae notevolmente le proprie dimensioni, in modo assai diverso a seconda che la direzione sia radiale o longitudinale. Se si iniziasse a lavorarlo prima che essa sia trascorsa, quasi sicuramente lo si spaccherebbe.

La stagionatura è un procedimento sulla cui durata non è possibile intervenire: oltre all’evaporazione dell’acqua, deve verificarsi un vero e proprio mutamento chimico legato al filtraggio dell’ossigeno, la cui lentezza è proporzionale allo spessore del legno. Se è possibile intervenire sulla diminuzione dell’acqua, non lo è invece sul reale procedimento di stagionatura, che non può quindi essere indotto artificialmente. L’equilibrio è molto delicato, ma il procedimento è semplice: all’inizio bisogna tenere il legno in ambiente piuttosto umido, facendo sempre molta attenzione alle muffe; poi, man mano che procede la stagionatura, lo si sposta in ambienti più secchi. Il freddo non rappresenta un problema per il legno, ma bisogna aver cura di tenerlo lontano dalle correnti d’aria.

 

Le alterazioni che si manifestano anche molto tempo dopo la realizzazione dello strumento, come ad esempio l’incurvarsi del legno, si possono ricondurre al processo di stagionatura o vi sono altri fattori da considerare?

 

La tendenza a piegarsi, tipica del bosso, dipende sia dal legno in sé, sia dalla direzione della venatura nel pezzo, che dovrebbe essere il più dritta possibile. La scelta ideale è quella fatta a partire da pezzi di quarto, ovvero tagliati radialmente, in seguito lavorati cercando di escludere il centro; quest’ultima accortezza, nel caso in cui il pezzo da eseguire sia particolarmente grande, come una campana di oboe o di clarinetto, non è sempre traducibile in pratica. Osservando gli originali, comunque, si può constatare che questo criterio di scelta era assunto anche dai costruttori antichi: la maggior parte degli strumenti conservati, infatti, è stata costruita a partire da un pezzo di quarto orientato sempre nello stesso modo, come rivela l’angolo formato dagli anelli.

Anche le vicissitudini subite dagli alberi prima del taglio e della stagionatura possono influire sul comportamento successivo dello strumento. Determinante in questo senso è la stagione in cui l’albero è stato tagliato: la stagione preferita di norma è l’inverno, perché in quel periodo l’albero non è in vegetazione e contiene una minor quantità di liquidi e sostanze zuccherine.

 

Qual è il fattore prevalente che orienta la scelta del tipo di legno da parte del costruttore moderno?

 

Salvo eccezioni, la tendenza prevalente è quella di riprodurre gli originali con il legno in cui sono stati costruiti. Per buona parte del Settecento l’essenza preferita è stata il bosso; solo in un secondo momento, soprattutto all’epoca di Quantz, l’ebano ha goduto di maggior fortuna.

La scelta di adottare lo stesso legno del modello non è di secondaria importanza dato che i risultati sono sensibilmente differenti. Poiché la tendenza comune dei costruttori antichi era quella di mantenere il più possibile costante la massa degli strumenti e poiché materiali diversi hanno pesi specifici diversi, gli spessori venivano modificati, pur mantenendo inalterate la struttura interna e le distanze. Tutto questo aveva un senso e dovrebbe indurre un costruttore coscienzioso ad introdurre modifiche nella realizzazione di una copia commissionata con un legno diverso da quello dell’originale.

 

Quali sono le prime operazioni da compiere sul legno pronto per la lavorazione?

 

Normalmente un tronco grosso viene aperto a metà per essere lasciato libero di assestarsi. Non è detto che debba essere subito ridotto a quadrelli, anzi. In genere ciò non è conveniente perché in questo modo il legno è maggiormente esposto alle deformazioni e quindi è meglio suddividerlo dopo un certo periodo di stagionatura. Un’accortezza da adottare è quella di paraffinare le estremità del quadrello per evitare un’evaporazione troppo veloce attraverso i tubi tagliati. Una squadratura regolare può essere fatta con una sega a nastro, oppure con una sega a mano, probabilmente usata anche dai costruttori dell’epoca, con la quale possono essere praticati anche dei tagli prismatici. Secondo alcuni, l’impiego di una sega a nastro o circolare potrebbe non essere senza conseguenze a causa della notevole velocità, ma si tratta di affermazioni difficilmente verificabili.

 

In diverse fonti l’uso dell’accetta è nettamente preferito, nonostante i suoi rischi, a quello della sega. Cosa ne pensa?

 

Non ho mai usato l’accetta, anche se può avere il considerevole vantaggio di seguire senza tagli la linearità delle fibre del legno, evitando così che l’evaporazione avvenga in maniera non omogenea, con velocità diverse in parti diverse. In realtà si tratta di un accorgimento comunemente adottato dai carpentieri, ai quali è ben noto che il legno segato dura molto meno di quello spaccato: ciò dipende dal fatto che, in corrispondenza del taglio, l’evaporazione dell’acqua è molto rapida e si apre anche una via d’accesso ai parassiti. Nonostante questo vantaggio, comunque, si tratta di una tecnica per nulla diffusa fra i costruttori moderni, anche perché, probabilmente, i colpi inferti con l’accetta inducono traumi meccanici notevoli e microfratture che si possono manifestare in un secondo momento. Va detto, poi, che un legno come il bosso, non presentando una venatura regolare, non si può fendere con facilità. In conclusione, insomma, si può quantomeno restare in dubbio che i vantaggi derivanti dal ricorso alla spaccatura pareggino i rischi.

 

Abbiamo detto che la lavorazione ha inizio quasi sempre da un quadrello (figura 14). Come si procede?

 

Il quadrello viene stondato con una pialla o un coltello, ma si può usare anche il tornio (figura 15). Alla sgrossatura cilindrica può eventualmente seguire un altro periodo di riposo, trascorso il quale si pratica un foro pilota di circa 8-9 millimetri di diametro, tenendo presente che i tratti più stretti nella cameratura di un flauto barocco presentano un diametro di circa 11-13 mm. Non è detto che il foro venga subito centrato con l’esterno: molto dipende dalla tecnica impiegata. L’esecuzione di questo passaggio è particolarmente delicata, soprattutto nel caso delle traverse rinascimentali, dato che è praticamente impossibile realizzare un unico foro perfettamente centrato di ben 60 cm. L’accorgimento da adottare in ogni caso è quello di mantenere uno spessore sufficiente per correggere il foro in un secondo momento.

Si possono usare punte di diverso tipo. Io ho sempre impiegato delle normali punte elicoidali, da trapano, ma ci sono anche le punte a cucchiaio, che scavano e raccolgono il truciolo in modo che, quando le si estrae, quest’ultimo possa uscire tutto in una volta. Ricorrendo a sistemi più sofisticati e facendo uso del tornio, si può procedere forando da entrambe le parti sino al centro, dove i due tratti si riuniscono.

 

Fino a questo punto, il procedimento non è molto diverso rispetto a quello dei costruttori antichi. Secondo Bergeron, giunti a questo stadio, occorre lasciar stagionare il pezzo e, quando è pronto, si può procedere con l’alesatura e la rifinitura dell’interno. A tal fine, prescrive l’uso di ben quattro alesatori – uno per ogni pezzo dello strumento – e di un quinto per la rifinitura, tronco-conico e di lunghezza pari a quella del flauto montato.

 

Io ho usato più tecniche diverse. Per le alesature coniche ho seguito un procedimento diverso da quello che indica Bergeron. In realtà, anche se realizzabile, l’idea di ricorrere a un alesatore lungo quanto tutto lo strumento è piuttosto poco pratica. Personalmente, ho sempre usato degli alesatori conici leggermente più lunghi del pezzo, dotati di uno o più taglienti (figura 16) e il risultato che permettono di ottenere potrebbe già essere considerato definitivo. Si tratta di coni in acciaio cui vengono asportati uno o più spicchi in modo da ottenere dei taglienti; questi ultimi non funzionano come un fresa, quanto piuttosto secondo il principio della rasiera, una lamina in acciaio in grado di tagliare sugli spigoli: la lama viene affilata e poi, con un acciarino, viene schiacciata in modo che il bordo sporga un po’ in fuori. Per poter compiere quest’operazione, l’acciaio per gli alesatori non deve essere troppo duro e ciò rende necessarie frequenti riaffilature, ogni due o tre lavorazioni circa.

Ci sono due modi di usare un alesatore: è possibile mantenerlo fermo e far ruotare il pezzo in lavorazione, oppure fissarlo al mandrino e tenere il pezzo in mano.

 

In che modo si ottiene l’alesatore giusto per ogni flauto?

 

A questo punto bisogna accennare a una questione un po’ delicata, ossia al fatto che le camerature degli strumenti originali non sono quasi mai un cono preciso, ma possono presentare conicità irregolare o giustapposizione di tratti conici differenti. In molti casi, probabilmente, i costruttori intervenivano successivamente con alesatori più corti per apportare le necessarie correzioni in alcuni punti.

In generale, quando ho scelto un originale da riprodurre, procedo alla misurazione della cameratura interna nel modo più accurato possibile, vale a dire con una tolleranza dell’ordine di grandezza di mezzo decimo di millimetro. Esistono svariati metodi: quello cui ricorro di solito è piuttosto intuitivo e consiste nell’introduzione di calibrini campione in plexiglass (figura 17) a diametri distanziati di un decimo di millimetro, che si fermano quando incontrano la stessa misura nel diametro della cameratura. Si misura la lunghezza di quest’ultima in corrispondenza di ogni diametro e si costruisce un diagramma. Confrontando diagrammi di strumenti diversi, è possibile risalire al modello seguito da un certo costruttore e apprezzare il grado di precisione con cui lavorava. Gli strumenti del primo Settecento sono in genere più irregolari e ciò fa supporre che i costruttori intervenissero di frequente in un secondo momento con altri alesatori per rimediare ad alcuni problemi di intonazione.

Oltre a questo semplice metodo di misurazione e senza considerare metodi estremamente sofisticati ma difficilmente accessibili come radiografie, fotogrammetrie, eccetera, esiste un altro sistema meccanico, non invasivo, che prevede l’uso di un comparatore: misurando lo spessore da un lato, dal lato opposto e il diametro esterno è possibile ricavare per differenza una misura molto accurata del diametro interno. Questo procedimento è efficace anche nel caso di camerature a botte e, dato che può essere ripetuto con qualsivoglia angolo di rotazione, permette anche di verificare quanto un pezzo sia ovalizzato.

Ricapitolando, per mettersi nelle condizioni di poter eseguire una copia con un grado accettabile di fedeltà sono indispensabili: una misurazione della cameratura, corredata da una tabella che riporti i diametri per ogni decimo di millimetro; una misurazione accurata dell’esterno, realizzata con un calibro; un’osservazione attenta, preferibilmente con uno specchietto, della forma dei fori compreso quello d’insufflazione, per il quale sarebbe molto utile un calco.

Durante la costruzione delle copie, applico un metodo di controllo della cameratura interna, al computer. Una curva rappresenta il rilievo dello strumento originale mentre una o più curve sono relative allo strumento o agli strumenti in fase di costruzione. In questo modo è possibile verificare se la lavorazione procede nella maniera corretta: è un controllo molto accurato che, nel contempo, offre anche informazioni sullo stato degli utensili. Di solito rilevo i dati ogni volta che un mio strumento torna nel laboratorio e li conservo. È utile, ad esempio, per stabilire se uno strumento ha bisogno di essere nuovamente alesato.

 

Ha accennato al caso delle camerature a botte: come le realizza?

 

Inizialmente usavo un metodo piuttosto semplice: prima praticavo un’alesatura cilindrica e poi intervenivo con carte vetrate via via sempre più fini per scavare l’interno, controllando con una specie di sonda. Attualmente, invece, quando c’è un buon rapporto fra la lunghezza e il diametro del pezzo, che consenta cioè di entrare con una certa facilità, ricorro ad un sistema di alesatura più sofisticato, messo a punto da me e che probabilmente non è molto diffuso fra i costruttori. Si tratta di una sorta di tornitura interna: il pezzo, con il foro primario già praticato, viene fissato sulla lunetta e fatto girare mentre si procede alla tornitura dell’interno con un utensile molto lungo che ho costruito io stesso, agendo per metà da un lato e per metà dall’altro. Si potrebbe definire una tornitura a controllo numerico eseguita manualmente poiché c’è una tabella che prescrive il diametro corretto per ogni punto. È un metodo che consente di realizzare qualunque tipo di alesatura e che presenta i due importanti vantaggi di non rendere necessaria la costruzione di un alesatore per ogni pezzo e di indurre sul legno un trauma assai minore rispetto al procedimento tradizionale. Va detto che un metodo come questo non era di certo alla portata dei costruttori antichi poiché, per ottenere un buon risultato, è indispensabile poter disporre di un tornio dalla meccanica perfettamente funzionante.

 

Bergeron si limita a dire di fissare l’alesatore a una morsa e di girare a mano, lentamente.

 

Molti costruttori lasciano a questo grado di rifinitura e, del resto, molti originali sono stati rifiniti così. Sono però necessari accorgimenti particolari e grande attenzione, perché con l’alesatura a mano è facile influire sulla centratura del pezzo. Dopo l’alesatura è necessario controllare per cercare di avvicinarsi il più possibile ai valori della tabella, intervenendo anche con carte vetrate, con olio o a secco, sino al raggiungimento di un risultato soddisfacente. A questo punto si taglia il pezzo nel punto giusto – il pezzo va sempre mantenuto leggermente più lungo del necessario – e la finitura interna è ultimata. Si può quindi procedere con la finitura esterna del flauto.

 

E l’alesatura cilindrica?

 

Solitamente procedo come per l’alesatura conica, seguendo il metodo che ho messo a punto e di cui abbiamo discusso poco fa. In alternativa, si adopera un utensile con vari terminali di ricambio a seconda del diametro (figura 18). Ogni passaggio richiede interventi correttivi sulla centratura perché capita di scavare più da una parte che dall’altra. È probabile che utensili simili a questi fossero usati dai costruttori antichi anche per realizzare alesature coniche, dato che è molto più semplice agire su tratti corti. Questa ipotesi appare confermata dal fatto che, negli originali, si riscontrano talvolta tratti giustapposti, lunghi fino una decina di centimetri, realizzati con coni diversi. Anch’io all’inizio ho usato una tecnica simile, ma quando ho cominciato a costruire gli alesatori ho preferito dar loro direttamente la forma irregolare del pezzo.

 

Come si realizzano le mortase e i tenoni?

 

Interessano l’ultima fase della lavorazione, quando è stata individuata l’intestazione definitiva del pezzo ed esso è stato tagliato longitudinalmente, alesato all’interno e lucidato all’esterno. Il pezzo viene montato sul tornio con la lunetta e l’utensile per il taglio viene fissato sul carrello con una leggera inclinazione, dell’ordine di un grado. Finita la lavorazione, che verrà in forma leggermente conica, si procede incollando l’anello già predisposto, anch’esso con sagoma interna leggermente conica. La mortasa si fa con lo stesso utensile, ma operando dall’interno: una volta decisa la profondità, si regola il tornio in modo che l’utensile avanzi per la misura desiderata, sino a terminare in battuta sul pezzo.

 

A questo punto, si può passare alla finitura dell’esterno.

 

Esattamente. Si fissa il pezzo al tornio dall’interno, con uno spinotto, in modo che la superficie resti libera per la lavorazione. Le parti cilindriche e pseudo-cilindriche sono più semplici e rapide da realizzare, mentre nel caso di quelle curve intervengo manualmente sgrossando dapprima la sagoma esterna in modo da produrre dei gradini ed eseguendo poi il raccordo a mano. La tornitura esterna è un’operazione piuttosto laboriosa, ma non eccessivamente complessa.

 

Infine, si praticano i fori e si applicano le chiavi.

 

Si tratta proprio dell’ultimo passaggio nella costruzione dello strumento. Inizialmente si praticano dei fori di circa mezzo millimetro più piccoli rispetto al loro diametro definitivo e poi si procede allargandone l’interno per mezzo di vari utensili, come coltellini o raschietti. Per forare si usa il trapano a colonna: il pezzo viene fissato orizzontalmente fra due supporti laterali con due tappi protettivi, usando una punta di dimensioni adeguate; nel caso dei flauti non capita mai di dover praticare dei fori in diagonale. Per svasare si ricorre ad utensili piuttosto semplici, come limette o cilindretti metallici ricoperti di carta vetrata e si procede controllando l’interno con una guida di luce in plexiglass e uno specchietto.

Naturalmente, i fori hanno una disposizione ben definita a seconda dal modello: in genere, negli strumenti la cui produzione è ormai consolidata, la posizione e le dimensioni sono ben definite, ma a volte è bene fare delle prove e intervenire se sono necessari dei ritocchi. Altre volte, nel caso di committenti esperti, tengo conto delle esigenze e dei desideri dei musicisti, per cui si può affermare che alcuni di loro contribuiscano al consolidarsi di un modello. A parte ciò, comunque, cerco sempre di riprodurre con la massima fedeltà la svasatura degli originali.

 

E per quanto riguarda i trattamenti esterni?

 

Il bosso, di solito, viene verniciato per motivi estetici. Esiste poi la possibilità di eseguire il trattamento con acido nitrico, che tendo ad applicare anche a flauti i cui originali sono in bosso naturale. Ritengo, infatti, che la finitura influisca sul timbro dello strumento, migliorandolo sensibilmente.

 

Alcune riflessioni conclusive

 

Dal confronto fra procedimento antico e procedimento moderno emergono senza dubbio alcune differenze ma, di fatto, sembrano prevalere le somiglianze. All’origine delle prime si colloca in modo più o meno diretto l’evoluzione tecnologica subita dal tornio, che ha interessato sia lo schema del suo funzionamento – con il passaggio dall’azione discontinua del pedale alla rotazione continua impressa dal motore elettrico – sia il grado di affidabilità e di precisione, sia, infine, la potenza esercitata. In virtù di tale profonda trasformazione, alcuni passaggi che un tempo erano eseguiti a mano o con altri utensili, oggi possono essere eseguiti a macchina, con particolare riferimento alle fasi di foratura iniziale e di alesatura. È in operazioni come queste, dunque, che le innovazioni tecnologiche apportate nel secolo scorso potrebbero aver influito nel modo più consistente: tutto dipende dagli intenti che guidano la lavorazione e dal modo in cui si ricorre ai mezzi disponibili.

Nel caso del procedimento illustrato da Michele Losappio, una scelta che ha segnato un consapevole scostamento dalla prassi probabilmente diffusa fra gli altri costruttori è stata quella di adottare un metodo originale di tornitura interna, che ha sostituito la tradizionale alesatura a mano. La messa a punto di questo sistema ha richiesto anni e un lungo studio degli strumenti, dei materiali e delle tecniche, arricchito dalla considerazione delle valutazioni e dei suggerimenti degli esecutori. Tutto ciò nel contesto di un ricorso limitato a risorse tecnologiche sofisticate, su cui si pone in risalto l’iniziativa di produrre in proprio e su misura gli utensili necessari.

Avendo consapevolezza di semplificare, si potrebbe affermare che vi sono due modi possibili di sfruttare le moderne tecnologie, corrispondenti ad altrettanti progetti di costruzione della copia: ve n’è un primo che tende a riconoscere nell’elevato livello di precisione consentito dall’applicazione dei metodi più sofisticati una via di legittimazione della copia, che appare così quasi come l’originale ritornato in vita, e ve n’è un secondo che tiene conto delle innovazioni e spesso si serve di esse come base per attuare una sperimentazione mirante a dare nuova vita allo strumento. Si tratta dei due diversi atteggiamenti che erano stati individuati ancora all’inizio di questo breve studio e ai quali, in linea con quanto appena affermato, era stata associata una connotazione rispettivamente passiva e attiva del ruolo del costruttore. Vale la pena di precisare, forse, che un’opera di ricostruzione come quella coinvolta nel secondo caso non può avvenire senza una profonda conoscenza storica da parte del costruttore, né senza l’onesta dichiarazione della natura e della quantità degli interventi eseguiti.

Dal punto di vista di coloro che sono animati da un intento documentario, il poter disporre di tecniche radiografiche, ultrasonografiche e di risonanza magnetica, la possibilità di realizzare disegni digitali, di servirsi di tecniche non invasive per il riconoscimento delle essenze, delle leghe metalliche e degli adesivi organici è, prima di ogni altra cosa, ciò che mette nella possibilità di produrre copie di elevata fedeltà. Sarebbe forse il caso di chiedersi, tuttavia, quale legittimazione potrebbe avere la pretesa di realizzare una copia praticamente identica all’originale nel caso in cui si sia poi costretti ad introdurre modifiche imposte da esigenze pratiche. Fermo restando che il ricorso a ogni innovazione che consenta la più esatta acquisizione dei dati e la più fedele riproduzione dell’originale è senz’altro legittimo e auspicabile nel caso in cui l’intento sia puramente documentario, si potrebbe dubitare di poter affermare altrettanto qualora la copia sia destinata all’esecuzione, dato che il contrasto fra la minuziosità della riproduzione e la consistenza delle modifiche imposte sarebbe davvero troppo stridente. Un aspetto più prezioso della lezione degli antichi, forse, è il ripristino della dimensione sperimentale e creativa, tanto a livello costruttivo quanto a livello esecutivo, e ciò è come dire che l’oggettività del recupero, tanto cara ai contemporanei, non comporta automaticamente l’autenticità del risultato, la quale potrebbe invece essere avvicinata in virtù del contributo non controllabile, ma assai fecondo, del singolo costruttore.

In questo senso, si potrebbe addirittura affermare che la differenza fra i due atteggiamenti sopra individuati sia da ricercare piuttosto sul piano delle intenzioni che su quello del risultato. Forse si può estendere anche al nostro caso quanto fa osservare Cesare Brandi in merito alla copia la quale, a prescindere dallo scopo che ne anima l’esecuzione, proviene sempre da una cultura storicamente determinata e, di conseguenza, è inevitabilmente orientata a documentare «quello che le predilezioni o la moda del momento soprattutto apprezzano e ricercano nell’opera, che non sarà mai l’opera nella sua totale fenomenologia, ma questo o quell’aspetto». Da tutto ciò, conclude Brandi, discende che «anche le copie hanno una data, rivelano di appartenere ad un periodo storico, a meno che non siano state ottenute con procedimenti meccanici, e anche in questo caso sarà difficile, ma non sempre impossibile distinguerle dall’originale».[8]

In fin dei conti, come Losappio ha osservato, è vero che il rapporto del costruttore di oggi con lo strumento d’epoca non è dissimile nella sostanza da quello che c’era un tempo fra costruttore e strumento: in entrambi i casi l’opera dell’artigiano è ed era soggetta a vincoli, solo che nel primo caso essi si impongono in virtù di un’autorità mentre, nel secondo, il rispetto del modello aveva giustificazione eminentemente pratica. Nulla doveva essere preservato in forza di una necessità intrinseca, ma tutto era soggetto a miglioramento: nel modello, infatti, si stratificavano le esperienze e le soluzioni più efficaci ai problemi via via posti dalla viva pratica musicale, per cui esso era, di fatto, un concentrato instabile delle migliori innovazioni raggiunte a una certa data, in un certo luogo. Per questo motivo possiamo ipotizzare che gli antichi forse faticherebbero a comprendere le ragioni del nostro interessamento minuzioso per dettagli destinati a essere aggiornati, a volte anche in breve tempo, in funzione delle innovazioni tecniche e dei mutamenti del gusto. Una manifestazione dell’atteggiamento decisamente non astratto che li differenziava da noi, del resto, era l’assenza di scrupoli che caratterizzò per secoli l’abitudine di intervenire su strumenti di epoche precedenti con modifiche anche irreversibili, determinate dalle esigenze del momento. Abitudine che, d’altra parte, è apparsa particolarmente urtante solo negli ultimi decenni.

Questo stato di cose vige anche in altre arti, non solo nella musica. Con la stessa noncuranza per l’oggetto in sé, ad esempio, le pale d’altare venivano decurtate quando le loro dimensioni non erano più adeguate alla nuova collocazione e i rigattieri di Parigi mettevano in vendita sul marciapiede, tra un vecchio ferro da stiro e un passeggino senza ruote, le tele di Utrillo, del Doganiere e di Picasso. Oggi, tutti questi oggetti sono gelosamente conservati, strappati ai loro contesti originari e contemplati come testimonianze di una passata grandezza, con una rigidità che espone al rischio di cristallizzare il rapporto con l’oggetto antico.

Paradossalmente, a mio avviso, una connotazione attiva dell’operare del costruttore di oggi, sia a livello dei dettagli morfologici dello strumento, sia a livello di messa a punto di nuove tecniche costruttive, avvicina nella sua essenza il lavoro del costruttore antico più di quanto una copia idealmente perfetta avvicini il suo modello, dato che quest’ultima non sarà mai in grado di restituire un suono il cui inscindibile correlato di gusto, sensibilità e tecnica esecutiva non può essere autenticamente recuperato. Accostarsi alle vestigia di ciò che un tempo partecipava di un’attività rigogliosa, vivace e in costante mutamento con uno sguardo freddo e oggettivo non potrà che moltiplicare la distanza che intende abolire, mentre la ricerca di una sintesi con il gusto, la sensibilità e la tecnica esecutiva di oggi potrà, forse, permettere di preservare il più prezioso aspetto di continuità con il passato, una musica non antiquaria, ma viva.

È plausibile, oltretutto, che se per ipotesi fosse possibile ascoltare un’esecuzione antica, essa riscuoterebbe assai meno consensi di quanto ci si potrebbe aspettare, anche in considerazione del fatto che già le prime testimonianze sonore tardo ottocentesche di esecutori apprezzati all’epoca lasciano piuttosto perplesso l’ascoltatore di oggi. Molti, dunque, sarebbero d’accordo con l’ammonimento di Robert Donington: «The effectiveness of an authentic instrumentation cannot altogether be judged or enjoyed, we must always remember, until the performance is of the same professional excellence as would be expected on modern instruments».[9]

Questa posizione, credo condivisibile, sbarra la strada del ritorno al ‘suono degli antichi’, senza che ciò comporti l’insinuazione – del tutto ingiustificata, del resto – che la nostra tecnica esecutiva sia superiore a quella del passato. Se si vuole far rivivere la musica, in modo che possa avere un senso per noi oggi, essa dovrà pur portare in sé qualche traccia di ciò che siamo, altrimenti rimarrà di fronte a noi come un oggetto senza vita, con cui non si può interagire e che può solo essere copiato con precisione sempre maggiore, nel tentativo di eliminare la distanza piuttosto che in quello di avvicinarsi mantenendola. La creatività dell’esecutore di oggi non può essere oppressa da alcun «obbligo morale» di fedeltà a qualunque costo, ma deve forse lasciarsi guidare solo da un senso di «compatibilità artistica».[10]

A mo’ di conclusione, mi sia concesso citare le parole di un filosofo che ha saputo guardare con particolare profondità alla condizione dell’uomo nel Novecento: «La fretta di sopprimere ogni distanza non realizza una vicinanza; la vicinanza non consiste infatti nella ridotta misura della distanza. […] Una piccola distanza non è ancora una vicinanza. Una grande distanza non è ancora una lontananza».[11]

 

 

Torna all'inizio della pagina

________________________

[Bio] Alessandra Ignesti è laureata in Filosofia e in Musicologia e, attualmente, sta frequentando un corso di Dottorato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Padova. Il suo progetto di ricerca riguarda alcuni temi di filosofia della musica medievale, con particolare riferimento al pensiero di Sant’Agostino.

E-mail: pyrobolos@gmail.com

Alessandra Ignesti is graduated in Philosophy and Musicology. She is now attending the Ph.D. School in Philosophy at the University of Padua. Her research work concerns the philosophy of medieval music, with special interest on the Augustinian thought.

[*] Questo contributo è ricavato dalla tesi discussa il 16 marzo 2006. Nonostante le modeste dimensioni di questo lavoro, numerosi sono i ringraziamenti dovuti. Innanzitutto a Michele Losappio, che ha dedicato un intero pomeriggio a illustrare le tecniche e gli strumenti del suo laboratorio, e al maestro Gianni Lazzari, che ha offerto numerosi spunti di riflessione e che ha generosamente messo a disposizione molto materiale sull’argomento. Un ringraziamento per i loro consigli, infine, è dovuto anche alla dott. Mauri e alla dott. Romagnoli, rispettivamente relatrice e correlatrice della mia tesi di Laurea Triennale in Musicologia.

[**] Tutte le fotografie di questa sezione sono state scattate da me presso il laboratorio di Michele Losappio a Castel San Gimignano (SI) il 18 febbraio 2006.

[1] JEREMY MONTAGU, The ‘Authentic’ Sound of Early Music, «Early Music», III/3, 1975, pp. 242-243: 243.

[2] MARIN MERSENNE, Harmonie universelle contenant la théorie et la pratique de la musique, 3 voll., Paris, Sebastien Cramoisy, 1636, vol. 3, p. 241 (facsimile a cura di François Lesure, Paris, Centre National de la Recherche Scientifique, 1963). «[Il loro materiale può essere di, ndr] prugno, ciliegio e altri legni che si forano facilmente, ma di solito si sceglie un legno di bel colore, che raggiunga una bella lucidatura, affinché la bellezza accompagni la bontà dello strumento e gli occhi partecipino in qualche modo al piacere dell’orecchio. Solitamente si fanno in bosso; sono altrettanto buoni in cristallo o vetro e in ebano» (GIANNI LAZZARI, Il flauto traverso. Storia, tecnica, acustica, Torino, EDT, 2003, p. 37).

[3] JOHANN JOACHIM QUANTZ, Trattato sul flauto traverso, a cura di Sergio Balestracci, Lucca, LIM, 1992, p. 39.

[4] La prima edizione del Manuel du Tourneur, pubblicato in due volumi nel 1792 e nel 1796 rispettivamente, portava il nome di L.E. Bergeron, mentre la seconda edizione, del 1816, quello di P. Hamelin Bergeron. In realtà, si trattava in entrambi i casi di pseudonimi, poiché il vero nome dell’autore era Louis-Georges-Isaac Salivet.

[5] Almeno fino alla metà del Settecento il materiale più usato per gli anellini fu l’avorio. Nel trattato di Bergeron, invece, è espressa una netta preferenza per l’argento in quanto giudicato in grado di rispondere meglio allo scopo di rinforzare le mortase, sollecitate dalla spinta verso l’esterno da parte dei tenoni dilatati durante l’uso dello strumento.

[6] Si tenga presente che, con utensili del genere, l’affilatura si rendeva necessaria dopo al massimo tre o quattro lavorazioni.

[7] Cfr. ROBERT BIGIO – MICHAEL WRIGHT, On Reaming Flutes, «Galpin Society Journal», LVIII, 2005, pp. 51-57.

[8] CESARE BRANDI, Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 1963, p. 67.

[9] ROBERT DONINGTON, The Choice of Instruments in Baroque Music, «Early Music», I/1, 1973, pp. 131-138: 138.

[10] Loc. cit.

[11] MARTIN HEIDEGGER, La cosa, in Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, Milano, Mursia, 1991, pp. 109-124: 109.

Torna all'inizio della pagina

Copyright 2008 © Università degli Studi di Pavia
Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologicheFacoltà di Musicologia

Figura 1. CRISTOPH WEIGEL, Der Pfeiffenmacher (1698)

:: Torna al testo

Figura 2. CRISTOPH WEIGEL, Der Pfeiffenmacher (1698), dettaglio degli alesatori

:: Torna al testo

Figura 3. Alesatori da un’illustrazione dell’Encyclopédie – Tavola XVII della raccolta Art du faiseur d’instrument de musique et lutherie

:: Torna al testo

Figura 4. In alto, l’alesatore di finitura descritto da Bergeron. Sotto, quattro alesatori ricostruiti secondo la descrizione che ne dà il trattato

:: Torna al testo

Figura 5. Tornitore (c. 1425), miniatura dipinta, Norimberga, Staadtarchiv

:: Torna al testo

Figura 6. Tornitori al lavoro da un’illustrazione dell’Encyclopédie – Tavola I della raccolta Art du tourneur

:: Torna al testo

Figura 7. Illustrazione di un tornio dall’Encyclopédie – Tavola XV della raccolta Petits métiers du bois

:: Torna al testo

Figura 8. Calibrino conico, dettaglio dalla Tavola del trattato di Bergeron

:: Torna al testo

Figura 9. Calibro ad arco, dettaglio dalla Tavola del trattato di Bergeron

:: Torna al testo

Figura 10. Fresetta conica, dettaglio dalla Tavola del trattato di Bergeron

:: Torna al testo

Figura 11. Fresetta per la svasatura interna dei fori, dettaglio dalla Tavola del trattato di Bergeron

:: Torna al testo

Figura 12. Tavola dal trattato di Bergeron

:: Torna al testo

Figura 13. Due diverse pezzature di bosso. A sinistra Buxus balearica, a destra Buxus sempervirens

:: Torna al testo

Figura 14. Quadrello di partenza, dopo la stagionatura

:: Torna al testo

Figura 15. Stondatura al tornio

:: Torna al testo

Figura 16. Alesatore del tipo descritto nel trattato di Bergeron

:: Torna al testo

Figura 17. Alesatore per camerature cilindriche con punte di ricambio

:: Torna al testo

Figura 18. Calibrini per la misura del diametro interno della cameratura e anellini per le campane degli oboi

:: Torna al testo

Top
Copyright 2008 © Università degli Studi di Pavia
Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologicheFacoltà di Musicologia


Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale di Pavia n. 552 del 14 luglio 2000 – ISSN elettronico 1826-9001 | Università degli Studi di Pavia Dipartimento di Musicologia | Pavia University Press

Privacy e cookies