ROBERTA BALDIZZONE, Spontaneità organizzata ad ‘arte’. Il metodo compositivo di John Lewis :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Roberta Baldizzone

 

Spontaneità organizzata ad ‘arte’. Il metodo compositivo di John Lewis

 

 

La natura essenzialmente improvvisativa della musica jazz ha da sempre portato a identificare la figura del jazzista principalmente come autore di composizioni di tipo estemporaneo. Il fatto che l’improvvisazione abbia costituito e costituisca ancora oggi il principale veicolo di trasmissione in una cultura musicale essenzialmente legata ad una tradizione di tipo orale, ha infatti portato a considerare la ‘composizione istantanea’ come l’unico, distintivo prodotto di tale cultura.

Questo assunto appare decisamente riduttivo, soprattutto se si considera che esiste un repertorio basato sull’ideazione di temi originali impostati su sequenze armoniche predeterminate (come accade per il giro armonico di un blues o di un rhythm change) o circoscritti a forme standardizzate (come la song form). Ancor di più, se si pone lo sguardo sulla produzione di alcuni dei più grandi maestri della storia del jazz, caratterizzata dall’abbandono delle consuete forme jazzistiche o dalla sintesi di queste con moduli o metodi ricavati dalla tradizione della musica d’arte europea.

La quasi totalità di questo repertorio originalmente composto e a volte difficilmente etichettabile – dalla ‘preistoria’, all’avanguardia sperimentale e oltre – ha subito, dichiaratamente o meno, l’evidente incidenza della musica cosiddetta ‘colta’.

Compositori come Joplin, Gershwin, Morton, Ellington, Mingus hanno adottato tecniche e modelli formali di derivazione europea, integrando perfettamente elementi afroamericani all’interno della composizione totale.[1]

Allo stesso modo John Lewis, con l’essenziale collaborazione del Modern Jazz Quartet, è riuscito a raggiungere un alto livello di sintesi tra le due culture, attraverso l’interazione ininterrotta tra composizione ‘programmata ed estemporanea’.

 

***

 

John Aaron Lewis è stato per più di quarant’anni la mente creativa e organizzativa del Modern Jazz Quartet, uno dei più longevi ensembles della storia del jazz.

L’attività pluridecennale del quartetto e l’eccellente qualità degli strumentisti che lo hanno costituito hanno portato il gruppo a toccare i più alti livelli stilistici di ogni tendenza assunta dalla musica jazz durante la sua rapida evoluzione, sviluppando e mantenendo sempre intatto quel tipo di linguaggio che lo ha reso unico e inconfondibile.

L’interesse di Lewis verso la musica colta di tradizione europea, iniziata nel periodo di studi alla Manhattan School of Music, e il suo successivo avvicinamento alla Third Stream, ha portato la produzione del quartetto ad inserirsi nel contesto di un genere musicale dalle sfumature inconsuete.[2]

Eppure, l’impronta estremamente personale che ha caratterizzato lo stile del Modern Jazz Quartet per decenni è la naturale conseguenza di una molteplicità di fattori, primo fra tutti lo straordinario interplay fra gli strumentisti, certamente rafforzato dalla grande varietà di esperienze dei singoli e del gruppo stesso – che aveva costituito per anni, ad eccezione del batterista Connie Kay, la sezione ritmica dell’orchestra di Gillespie.

In secondo luogo, a incidere sul linguaggio è stata la concezione polifonica delle improvvisazioni.

Se si ascolta un po’ della vecchia musica di New Orleans, si sentiranno diverse linee indipendenti muoversi contemporaneamente. E funziona così bene perché ognuno di quegli strumenti ha un carattere completamente differente dall’altro. Questo è stato molto utilizzato nel Modern Jazz Quartet, perché gli strumenti melodici erano vibrafono, piano e contrabbasso. Se si ascoltano le registrazioni è possibile scomporre il brano e ascoltare una linea per volta e sentire tre voci indipendenti. Io provo a incorporare il blues in tutto quello che suono, per trovare il modo per far parlare il blues e cerco di farlo in un modo polifonico.[3]
 

La stessa idea dell’improvvisazione come discorso giocato tra più voci individuali e indipendenti viene applicata da Lewis anche alla composizione. Grazie all’intesa quasi telepatica tra i musicisti, la singola linea può spostarsi dalle parti improvvisate a quelle composte integrandosi perfettamente e creando nell’ascoltatore un senso di continuità temporale – caso molto comune negli accompagnamenti di Lewis ai temi e ai soli di Jackson. Il sistema generativo di base risulta quindi seguire un principio che non distingue la pratica esecutiva dal processo compositivo, in modo tale che ogni azione, sia essa premeditata o meno, si rivela come la sistematica conseguenza della precedente, seguendo una serie di procedure logiche che passa dalle sezioni preordinate a quelle create estemporaneamente senza soluzione di continuità.

Il più alto raggiungimento in una composizione è quello di creare un pezzo che incorpora l’improvvisazione al suo interno, senza mostrarne i punti di congiunzione il più possibile, in modo tale da non poter distinguere ciò che è improvvisato da ciò che non lo è.[4]
 

Proprio questa singolare organizzazione del processo compositivo in aggiunta all’uso di tecniche, metodi di scrittura e strutture formali di derivazione europea ha contribuito a creare uno stile tanto originale.[5]

 

La Ronde Suite. Il concerto solistico come modello

 

La Ronde Suite (Prestige LP 7057, 1955)[6] è la rielaborazione di un pezzo composto da Lewis nel 1947 per l’orchestra di Dizzy Gillespie, intitolato Two Bass Hit (Victor LJM109, 1947).

Tale brano aveva come strumento solista un contrabbasso e prevedeva l’esecuzione da parte dell’orchestra di brevi episodi alternati a lunghe pause destinate all’improvvisazione.

Two Bass Hit fu chiaramente ispirato – nelle modalità d’esecuzione e più palesemente nel titolo – da una composizione dello stesso Gillespie dell’anno precedente, One Bass Hit (Musicraft 404, 1946), anch’esso concepito come alternanza di improvvisazione e accompagnamento ‘a riff’.[7]

La stessa idea progettuale si ritrova in La Ronde Suite, in cui Lewis espande il medesimo giro armonico di Two Bass Hit a una serie di quattro pezzi, ognuno riservato all’improvvisazione di un singolo componente del quartetto, nel seguente ordine: pianoforte, basso, vibrafono, batteria. Il ruolo di ripieno dell’orchestra è ovviamente affidata alla restante porzione di gruppo, che fornisce la base armonico/ritmica al solista di turno e viene rielaborato melodicamente e ritmicamente da un movimento all’altro, secondo un processo di variazione che crea di volta in volta un nuovo brano su una equivalente successione armonica.

La Ronde Suite è una struttura formata da più sezioni di uguale importanza e pensata primariamente per ospitare un unico discorso, giocato, come si è visto, tra solo e tutti. L’idea di base è chiaramente quella del concerto classico/romantico in cui il ruolo del solista è affidato all’improvvisatore. Non solo. La costruzione formale del brano (Tavola 1) presenta un’architettura piuttosto singolare.

Le uniche forme riconducibili a strutture standardizzate sono il cosiddetto ‘Tema’ che segue una delle song form (ABAC) e l’episodio blues centrale; le restanti parti, oltre a introduzione e coda, sono passaggi di raccordo e transizione.

Tavola 1

Tavola 1. La Ronde Suite. Grafico formale. Le caratteristiche song form e blues form sono inserite in un contesto strutturale assai più complesso.

 

Eppure l’essenza particolarmente descrittiva del titolo potrebbe suggerire, a mio avviso, una decodificazione corretta della struttura. Il termine ‘suite’ – nell’accezione novecentesca di libero insieme di pezzi strumentali – è certamente riferito al livello più esterno della costruzione. L’espressione ‘ronde’ potrebbe invece indicare una successione di brevi composizioni di eguale tonalità, con un ritorno ciclico della stessa sequenza armonica o, con maggiore probabilità, fare riferimento ad una minimale forma di rondeau nascosta nella microstruttura del brano e interrotta da un episodio blues (A, B, A, C + A).

 

Django. Un insolito Jazz Standard

 

Django (Prestige LP 7057, 1955) è stato scritto nel 1954, in memoria del chitarrista belga Django Reinhard, scomparso l’anno precedente. Sicuramente il brano più celebre del Modern Jazz Quartet, è l’unico tra i lavori di Lewis ad essere entrato a far parte della tradizione degli standard jazz. La semplice forma, basata su un tema e una successione di chorus, permette una maggiore concentrazione sulla parte improvvisativa durante l’esecuzione e lo accomuna senza dubbio ad un tipico standard.

Tuttavia la macrostruttura del brano, così come l’ossatura interna, rivela una divisione formale piuttosto anomala.[8]

L’organizzazione delle varie sezioni segue un andamento speculare: un interludio al centro del pezzo (una diminuzione della seconda parte del tema iniziale) divide le due parti improvvisate, delimitate a loro volta dalla doppia esposizione del tema. Anche il livello formale intermedio dei chorus presenta una disposizione tripartita a specchio (12+8+12), ma con una divisione interna atipica: 6, 4 e 8 battute.

Tavola 2   


Tavola 2
. La singolare disposizione ‘a specchio’ delle sezioni in Django.

 

Proprio questa forma insolita rivela una concezione compositiva da parte di Lewis molto lontana dalle comuni pratiche jazzistiche. L’accostamento a un tema in ottavi reali (even eights) di una parte quasi totalmente improvvisata in swing tempo,[9] peraltro di struttura armonica differente, dovrebbe comportare una sgradevole cesura ‘di stile’ tra le parti, che in realtà non avviene. Il materiale armonico presente nelle improvvisazioni è infatti una sorta di sviluppo di parte del tema, giocato su un insolito accostamento di brevi episodi che vanno a scomporre ulteriormente i moduli dei chorus, creando una ricca varietà armonica.
 

Tavola 3


Tavola 3
. Lo schema armonico mostra come il modulo A sia una sintesi della prima parte del tema (X) e il modulo A1 una trasposizione alla quarta delle quattro misure d’apertura di A.

 

Il materiale melodico utilizzato da Lewis durante le sezioni improvvisate non fa che accrescere questo senso di unitarietà, mantenuto all’interno del brano attraverso continue connessioni motiviche.

Ad esempio le prime misure d’accompagnamento del pianoforte al primo chorus ripropongono un frammento del disegno melodico esposto in apertura del tema (X).

 

 

Esempio musicale 1

 

 

 

 

Così come una variazione ritmica della seconda parte del tema (Y), con inversione delle prime quattro battute.

 

 

Analogamente, il caratteristico charleston rhythm mantenuto dal pianoforte nei moduli B e la ripetizione di una cellula basata su una terza minore discendente, reiterata nelle parti d’accompagnamento e d’improvvisazione (come nella terza e quarta apparizione di B), fanno da collante tra tema e chorus. Gli stessi moduli che ricalcano in estensione la doppia suddivisione del tema, così come la riproposizione di parte di esso esattamente a metà del brano, conferiscono al tutto una salda continuità temporale.

 

Interazione tra programmazione e creazione estemporanea: Fontessa

 

Fontessa (Atlantic 1231, 1956) è uno dei primi lavori estesi di Lewis per il Modern Jazz Quartet. È un brano composto da quattro scene musicali, tematicamente relazionate fra loro, che formano una piccola suite dichiaratamente ispirata alla Commedia dell’Arte. Questo stesso soggetto sarà poi ripreso da Lewis in The Comedy (Atlantic 1390, 1962), un balletto composto tra il 1957 e il 1959.

L’idea programmatica comune a Fontessa e The Comedy è appunto la rappresentazione delle maschere della tradizionale Commedia dell’Arte (in The Comedy esplicitata anche nei titoli dei singoli movimenti), attraverso una differente caratterizzazione stilistica delle varie sezioni del brano.

Questa suite consiste in un breve preludio per aprire il sipario e avviare il tema. Il brano dopo il preludio si ispira al vecchio jazz e la parte improvvisata è affidata al vibrafono. Potrebbe essere in carattere con Arlecchino. Il secondo tema ha aspetti più moderni e la parte improvvisata è affidata al pianoforte. Potrebbe essere in carattere con Pierrot. La terza parte è impostata a formule ancora più recenti e sviluppa il motivo principale. La parte improvvisata è affidata alla batteria. Potrebbe essere in carattere con Pantaleone.[10]
 

Significativamente, in Fontessa è presente un dualismo del tutto analogo a quello che nella Commedia dell’Arte contrappone le parti scritte alle parti recitate estemporaneamente dagli attori sulla base di un ‘canovaccio’: il brano è infatti interamente giocato sull’alternanza e la combinazione di interventi prestabiliti e interventi improvvisati.

Lo schema di base del pezzo presenta tre movimenti in swing tempo, ognuno costituito da tema e improvvisazione, e da un preludio in ottavi reali, in apertura e chiusura del brano. La struttura delle tre sezioni è basata su complessi modulari di trentadue battute che vengono abbreviati (con l’eliminazione di moduli), variati (tramite l’accostamento di moduli appartenenti a sezioni diverse) e a cui vengono interpolati micro-episodi di stacco e raccordo.

 

 

Tavola 4

 

Tavola 4. Fontessa. Grafico formale.

 

Ad ogni movimento è stata conferita un’impronta caratteriale contrastante come può accadere in un concerto o in una sonata classica:

 

 

Tavola 5

Tavola 5. La differenziazione di carattere delle varie scene musicali elaborata da Lewis in base a mutamenti di andamento, ritmo, modo e forma.

 

Nonostante le varie sezioni del pezzo subiscano via via un’elaborazione sempre differente, il materiale motivico impiegato è di dimensioni alquanto ristrette. I temi rivelano una stretta affinità tra loro, tanto da apparire ognuno come la derivazione del precedente.

 

Esempio musicale 4

 

La continuità stilistica tra un tema in ottavi reali e una successione di movimenti in swing tempo, basati su una diversa griglia armonica, è mantenuta attraverso lo sviluppo di parte della progressione iniziale e rafforzata dai continui richiami motivici che percorrono l’intera composizione (più di undici minuti di musica!).

Quelle che seguono sono solo alcune delle varianti della cellula tematica principale del preludio (esempio 5), del secondo tema (esempio 6) e delle cadenze obbligate in chiusura di ogni modulo del secondo movimento (esempio 7).

 

Esempio musicale 5

Esempio musicale 6

 

 

Esempio musicale 7

 

Come si può osservare da quanto riportato sin’ora, il trattamento del materiale da parte di Lewis possiede un’impronta chiaramente ‘accademica’: processi di variazione, rielaborazione tematica e armonica, ritorno e sviluppo di frammenti melodico/ritmici.

Straordinariamente, gran parte di queste tecniche vengono adottate estemporaneamente: frequenti richiami preordinati vengono ripresi dagli esecutori durante le improvvisazioni, creando un discorso unitario anche fra tema e relativo chorus. Analogamente, alcune delle parti riservate alla sola esposizione, subiscono un processo di variazione occasionale che crea un inaspettato assortimento tematico (è il caso della riesposizione dei temi del secondo e terzo movimento).

 

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Certamente la sintesi effettuata da Lewis ha contribuito alla realizzazione del personalissimo linguaggio del gruppo. La coesione di impianti armonico/formali, modelli di scrittura e di organizzazione del materiale derivati dalle due tradizioni, nonché l’assorbimento dell’improvvisazione all’interno della composizione totale, si sono dimostrati fattori dominanti.

Tuttavia, l’ingrediente essenziale che ha permesso l’attuazione di questo processo logistico si è rivelato essere la scrupolosa attenzione di Lewis ai metodi di ricezione dei suoi strumentisti: ogni struttura compositiva è pensata non per un quartetto jazz, ma per il Modern Jazz Quartet ed esiste unicamente in funzione di questa precisa ‘formazione umana’.

 

 

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[Bio] Roberta Baldizzone, laureata in Musicologia presso l’Università di Cremona-Pavia e diplomata in pianoforte al Conservatorio ‘A. Boito’ di Parma, si occupa di musica afroamericana. Attualmente è impegnata nel progetto Intertestualità: citazioni del repertorio eurocolto nella musica afroamericana. Elaborazione di un database, prima fase per il Dipartimento di Scienze Musicologiche e Paleografico-filologiche di Cremona in collaborazione con Marco Mangani e Giovanni Nobile.

E-mail r.baldizzone@yahoo.it

Roberta Baldizzone, graduated in Musicology at the University of Cremona-Pavia and in piano at the ‘A. Boito’ conservatory in Parma. She is currently focusing on Afro-American music. Now is working on a project entitled Intertextuality: the influence of the European Classical repertoire on Afro-American Music. Development of a database, initial phase for the Department of Musicology and Palaeography/Philology in Cremona in collaboration with Marco Mangani and Giovanni Nobile.

[1] STEFANO ZENNI, Il jazzista. Compositore in bilico, «Musica Jazz», XLIV/6, 1988, pp. 20-25.

[2] Per un approfondimento sulla Third Stream Music si veda GUNTHER SCHULLER, Musings. The Musical Worlds of Gunther Schuller, New York, Oxford University Press, 1986.

[3] EUGENE HOLLEY, Farewell to the Quartet, «Down Beat», LXVII/4, 2000, pp. 37-41.

[4] Ibid., p. 40.

[5] Riguardo al metodo compositivo/improvvisativo di Lewis si rimanda inoltre agli studi di THOMAS OWENS, Improvisation Techniques of the Modern Jazz Quartet, M.M. Thesis, University of California, 1965; e di WOLFRAM KNAUER, Zwischen Bebop und Free Jazz. Komposition und Improvisation des Modern Jazz Quartet, Mainz, Schott, 1990.

[6] Nel presente saggio si fa riferimento alle incisioni discografiche originali in LP, reperibili anche nella moderna versione su CD.

[7] Si veda a tal proposito MARCELLO PIRAS, Two Bass Hit. Un capolavoro di John Lewis, «Musica Jazz», XLI/2, 1985, pp. 58-59.

[8] A proposito del personalissimo modo di elaborare le strutture formali da parte di Lewis si veda anche MASSIMO DE STEPHANIS, Pensare la forma nel jazz: uno sguardo su John Lewis, tesi di laurea, Università di Bologna, a.a. 2003/2004.

[9] Si fa riferimento al differente modo di eseguire una successione di crome in swing tempo (in cui i valori subiscono una particolare alterazione ritmica) rispetto all’esecuzione tradizionale, nella quale gli ottavi risultano uniformi, ‘uguali’ appunto (even eights). È un fenomeno non dissimile da quello delle notes inégales del Barocco francese.

[10] Note di copertina a Fontessa, Atlantic 1231, 1956.

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