Intervista di Damien Colas a Federico Maria Sardelli :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Intervista di Damien Colas a Federico Maria Sardelli; moderatore Arnold Jacobshagen

 

Arnold Jacobshagen

Vorrei dare il benvenuto a tutti voi, relatori e pubblico, e ringrazio quanti fino ad ora hanno dato il loro contributo; credo siano stati forniti molti spunti che avremo modo di riprendere domani nel corso della tavola rotonda. A questo punto continuiamo il confronto iniziato questa mattina con gli esecutori, ai quali in buona parte le edizioni sono rivolte. Ho adesso il piacere di introdurre il Maestro Federico Maria Sardelli, che non ha certo bisogno di presentazioni. Mi limito a ricordare qualche titolo delle sue incisioni delle opere di Antonio Vivaldi (Tito Manlio, Orlando furioso e Arsilda, Regina di Ponto); come musicologo ha pubblicato fra l’altro il saggio La musica per flauto di Antonio Vivaldi e molti altri, soprattutto su Vivaldi. Passo la parola a Damien Colas.

Damien Colas

Grazie. Allora, Maestro Sardelli: abbiamo la fortuna in questi anni di vivere una bellissima avventura, cioè la renaissance dei melodrammi di Vivaldi; lei fa parte dei ‘capitani’ responsabili di questa favolosa riscoperta. Vorrei, prima di parlare di Vivaldi, cominciare magari con Corelli. Il lavoro che ha fatto sui Concerti grossi op. VI: vorrei sapere se ha potuto collaborare con Franco Piperno, se e come ha utilizzato il suo lavoro.

Federico Maria Sardelli

Sì, questo lavoro sui Concerti grossi dell’opera VI fu stimolato da una lettura degli articoli di Franco Piperno e di Hans Joachim Marx, gli studi sulle liste dei pagamenti delle famiglie Ruspoli, Pamphili e Ottoboni. Queste liste sugli strumentisti mi illuminarono perché si capiva chiaramente che le musiche strumentali dirette da Corelli (dove lui partecipava sia come violinista sia come direttore) avevano sempre una partecipazione di strumenti a fiato, cosa che non è mai emersa dalle fonti musicali manoscritte e a stampa che abbiamo. Si capiva che c’era un contesto strumentalmente più ricco rispetto alle esecuzioni cui siamo abituati, e in special modo in quelle dell’opera VI, questo grande corpus di concerti grossi superstiti. La ricostruzione ha dei limiti e dei margini di incertezza e di opinabilità, perché si basa comunque su ipotesi e non su certezze: non sono state trovate parti staccate di tromba o di oboe a cui potersi riferire. L’ipotesi di ricostruzione mira a restituire questi concerti grossi, che abbiamo soltanto per il testimone della stampa di Roger, a quella che doveva essere molto verosimilmente e con larga probabilità la loro pratica usuale, con raddoppi di fiati nei punti in cui gli strumenti a fiato riescono a stare per ragioni musicali, di estensione, di carattere.

Colas

Dunque nel concerto grosso e non nel concertino?

Sardelli

Senza dubbio nel concerto grosso, come strumenti di ripieno; il concertino rimane un trio, pensato per due violini, violoncello e cembalo.

Colas

In questo caso c’è l’edizione critica da una parte e dall’altra un’ipotesi molto plausibile di raddoppi.

Sardelli

Ripeto, penso che la mia sia un’ipotesi molto plausibile e penso che vada incontro a quella che era la pratica abituale dell’epoca. Non si potrà dire «qui suona l’oboe da questa a quest’altra battuta» con certezza: non ci sono gli strumenti e i materiali per poterlo dire. È vero che tra gli strumenti a fiato la tromba, quello più limitato e strutturalmente definito, è lo strumento che ci fornisce una sorta di cartina di tornasole per effettuare una ricostruzione. Mi spiego: mentre un oboe può agevolmente eseguire una linea di violino, in una buona parte dei casi, tranne quando esso esegua figure di arpeggio o altre figure strutturalmente idiomatiche, nel caso della tromba ci sono limitazioni fortissime perché può suonare una gamma limitata di armonici, ha lacune gravissime nella sua scala e può suonare solo certi tipi di scrittura. Aggiungere la tromba perciò significa aggiungerla solo nei luoghi in cui effettivamente può suonare, quindi nelle tonalità tipiche della tromba (come Re maggiore o Do maggiore) e nelle frasi in cui essa ha le note a disposizione senza bisogno di aggiunte al testo o di modifiche a ciò che è scritto. Questo già instrada e toglie molte possibilità: se la tromba deve suonare, può suonare solo in certi luoghi.

Colas

Nel corso del lavoro ha avuto un atteggiamento tipo «proviamo questo, e se non va proviamo qualcos’altro», oppure ha deciso tutto fin dall’inizio?

Sardelli

Diciamo che ho meditato molto in anticipo, all’origine, e non ho sperimentato quasi niente.

Colas

Passiamo a Vivaldi, alla Juditha triumphans, e parliamo sempre di organico, che in questo caso è piuttosto sostanzioso. Nelle note del disco che ha pubblicato ha spiegato come ci fossero molti errori nell’attribuzione degli strumenti, per esempio riguardo il salmoè/chalumeau, i claren (che sono una sorta di clarinetto e non delle trombe), le viole all’inglese. In questo caso gli strumenti sono prescritti con molta precisione.

Sardelli

Sì, questi errori erano errori non deprecabili (non ci si può accanire contro di essi) di Malipiero e dei primi revisori dei questa straordinaria partitura, imbattutisi in strumenti fino a poco tempo fa abbastanza misteriosi ed enigmatici per la musicologia italiana (come il claren). Abbiamo dunque questa edizione Ricordi che propone soluzioni che oggi fanno un pochino sorridere; per fortuna quest’edizione (tuttora in commercio) è stata emendata e corretta da Michael Talbot. Nel frattempo gli studi musicologici hanno permesso di dare una definizione, un volto agli strumenti (a parte il salmoè, che già da molti anni si sa essere lo chalumeau). L’ultimo arrivo nel campo delle scoperte e delle definizioni dell’organologia degli strumenti più dubbi dello strumentario vivaldiano è stato quello delle viole all’inglese, grazie ad un intervento sempre provvidenziale di Michael Talbot, che ha chiarito definitivamente che queste viole all’inglese altro non erano che viole da gamba. Erano state fatte mille ipotesi: che fossero viole d’amore, viole con corde di risonanza o tante altre congetture, anche fantasiose. È ancora aperta l’ipotesi che possano avere avuto delle corde di risonanza. C’è un saggio di Michael sull’argomento e anche un intervento di Bettina Hoffmann sulla prossima edizione delle opere per viola all’inglese di Vivaldi, che usciranno per la SPES con un saggio che fa il punto della situazione [volume apparso nel gennaio 2007]. Comunque, una volta fatta chiarezza sull’organico strumentale e chiarito che i claren sono clarinetti e non sono trombe, e altri punti dubbi minori, la Juditha è perfettamente eseguibile.

Colas

Passiamo ora ad edizioni più recenti. Lei ha una particolarità: a volte collabora con musicologi, altre volte è lei stesso musicologo, in una sorta di dialogo interiore, come direbbe Dahlhaus. Dunque in merito al suo lavoro sull’Orlando furioso di Vivaldi ci interessa molto sapere come ha fatto quest’edizione e come il musicista riesca a convivere con il musicologo-editore: che scelte ha fatto? Perché ha fatto lei l’edizione dell’Orlando? Sono semplicemente contingenze economiche?

Sardelli

La contingenza è quella di trovarsi a lavorare per l’Istituto Italiano Antonio Vivaldi, che ha avviato da circa 5 anni l’edizione critica del vasto corpus (finora rimasto inedito) dei drammi per musica di Vivaldi. Prendendo parte a quest’impresa mi sono state affidate alcune di queste partiture, così come altre partiture vengono affidate ad altri musicologi. Questa mia duplice veste a volte è imbarazzante, perché sono costretto a prendermi la responsabilità dell’edizione critica dell’opera che poi metterò in scena e dirigerò in teatro. Si sa, in Italia i conflitti d’interesse si sprecano, è abbastanza noto il caso del nostro amato capo del Governo [nel marzo 2006], che io emulo nell’assumermi questo conflitto tra l’interesse dell’esecutore, che ha bisogno di una partitura-canovaccio o comunque pulita (non necessariamente l’esecutore, anche se abituato a questo repertorio, ha bisogno di un’edizione critica; gli bastano il manoscritto o una buona trascrizione) e l’esigenza scientifica di curare un’edizione critica secondo le norme che l’Istituto Italiano Antonio Vivaldi si è dato da molti anni. Queste norme sono state recentemente riviste proprio alla luce delle esigenze che vengono generate dal lavoro su una partitura teatrale, partitura (come ricordato da Talbot nel suo intervento di ieri) che accoglie più versioni, partitura di un lavoro in fieri, che attesta varianti in corso d’opera e molteplici strati di lavoro, numerose intonazioni diverse di medesimi testi poetici, e così via. Una partitura del genere pone problemi filologici enormemente più complessi e vasti di quelli che pone un brano strumentale, e ha necessità di essere affrontata con una serie di regole più definite, con strumenti più sottili di quelli che usiamo per una normale edizione di musica strumentale.

Colas

Grazie. Ora vorrei passare a domande un pochino più specifiche su questa partitura [Orlando]: come si è comportato riguardo la scelta dell’organico strumentale? Stavolta mi rivolgo non al musicologo che ha curato l’edizione ma al direttore d’orchestra. Ad esempio, quanti violini ha usato? Ha usato o no i raddoppi? Come ha realizzato il continuo?

Sardelli

L’Orlando furioso è una delle partiture teatrali di Vivaldi che richiede un organico abbastanza semplice, non pone grandi problemi di definizione di strumenti strani o particolari: ha soltanto un flauto traversiere, che interviene nell’undicesima scena del primo atto come strumento obbligato per l’aria Sol per te mio dolce amore, che simboleggia l’incantesimo della maga Alcina su Ruggiero. È quasi il primo flauto magico della storia, caratterizzato da cascate di note, figurazioni virtuosistiche. Tolta quest’unica inserzione del flauto traversiere, che non compare in nessun altro luogo della partitura o nei raddoppi (a differenza degli oboi), la partitura è semplice dal punto di vista strumentale: orchestra d’archi a quattro parti e due cembali (uno per il compositore-direttore e l’altro per il secondo cembalista).

Colas

Per il continuo non ha usato tiorbe, liuti o chitarre?

Sardelli

Le scelte che si fanno su Vivaldi sovente sono dettate da motivi di carattere spettacolare, spesso seguendo delle mode che io considero abbastanza deprecabili: questo grande exploit della musica vivaldiana sia nelle sale da concerto sia in quelle d’incisione ha portato alla creazione di filoni di manierismi interpretativi che portano a vedere Vivaldi come un compositore estremamente bizzarro. Pertanto un interprete di fronte ad una partitura di Vivaldi si sente normalmente in diritto di stiracchiarne il tempo come vuole o di ricercare grandi effetti sul pubblico. Così anche per la strumentazione: si aggiungono rinforzi al basso, e si ricercano grandi chiaroscuri nella strumentazione del basso continuo. Credo che questa sia una tendenza, una moda del nostro tempo che non sempre mi trova d’accordo; quindi tenderei (secondo una visione puramente soggettiva e personale e del tutto opinabile) a vedere Vivaldi e la sua strumentazione, la sua scrittura musicale, i suoi equilibri orchestrali in una maniera più classica, più equilibrata, senza accendere eccessivi contrasti, senza forzare il testo in questo senso. Comunque l’organico è quello che più o meno sta in una piccola buca d’orchestra (come quella del Teatro S. Angelo, per il quale fu scritto l’Orlando e altre opere); abbiamo delle planimetrie che ci fanno capire più o meno qual era l’area e si capisce che più di sette-otto violini non ci stavano. Di conseguenza, il numero delle viole, violoncelli e contrabbassi viene ridotto in proporzione.

Colas

E riguardo all’ornamentazione delle parti vocali? Lascia libertà ai cantanti? La scrive lei?

Sardelli

Dipende dal cantante. Quando ci si può affidare ad un cantante di buon gusto ed istruito, mi faccio suggerire dal cantante quello che lui o lei vuol fare, lo ascolto e se mi piace lo accetto o cambio solo poche cose. Se non mi piace, cancello tutto e scrivo degli ornamenti. In caso di cantanti che so benissimo che non sarebbero in grado di organizzare nulla di buono, scrivo gli ornamenti e mando loro la parte con le mie variazioni, che sono di solito abbastanza discrete, almeno per quanto riguarda l’incisione discografica. Nel disco, che ha una sua forza di documento che rimane e non solo di evento spettacolare, tenderei a non sovraccaricare il testo di ornamenti pirotecnici, per quanto possano essere belli e godibili (soprattutto in teatro); questo perché il disco rimane, si ascolta e si riascolta, e gli ornamenti rimangono quelli; preferisco mantenere 'pulita' l'incisione.

Colas

Un’ultima domanda, riguardo alla doppia funzione di direttore e curatore dell’edizione: per lei ci sono vantaggi a lavorare in questo modo oppure preferisce un dialogo con una persona esterna, che può avere uno sguardo e un ascolto diverso? Ci interessa molto sapere se questo è un metodo di lavoro che si svilupperà in futuro o se sono più gli inconvenienti.

Sardelli

Ecco, come si svilupperà non so dirlo; nel mio caso personale, per quanto riguarda il mio lavoro vivaldiano, devo dire che è un vantaggio e uno svantaggio al contempo, perché da una parte vengo messo a parte delle ultime scoperte e delle ultime ricerche musicologiche su questi argomenti, faccio parte di questo contesto e sono molto contento di contribuirvi, è una cosa che mi reca grande gioia e lo faccio molto volentieri. D’altra parte a volte ho delle limitazioni, perché come esecutore (e si ritorna al conflitto d’interessi di cui dicevo prima) nel caso di opere scoperte di recente, opere che possono essere eseguite in prima esecuzione assoluta, in prima mondiale… a volte devo fare marcia indietro perché sebbene abbia la musica a disposizione come studioso, come esecutore devo cedere il passo ad altri. Quindi non sempre è una condizione così felice, però in generale mi trovo piuttosto bene.

Naturalmente dovendo occuparmi di Vivaldi è per me facile, quando mi devo occupare di altri autori sui quali non ho le stesse competenze mi affido anche alle competenze di altri musicologi.

Colas

Grazie.

Sardelli

Grazie a voi.

Jacobshagen

Grazie, Maestro Sardelli, grazie, Damien Colas. Ci sono delle domande dal pubblico?

Toni

Non ho purtroppo ascoltato l’intervento sulla Juditha Triumphans, volevo chiedere riguardo al diapason in relazione ai clarinetti.

Sardelli

Sul diapason vivaldiano c’è ormai una moda: si sa ormai con buona approssimazione che a Venezia probabilmente il diapason era abbastanza alto (sui 438 Hz, altri dicono 440). Ci sono gli studi di Bruce Haynes, che ha inventariato gli strumenti a fiato superstiti del Museo Correr e alcuni oboi e alcuni organi (che però non sempre sono attendibili); e questo ci orienta su un diapason abbastanza alto. Da qui si dice «Vivaldi va fatto a 440», che è il nostro diapason standard. Io su questo argomento tendo a non essere così ‘talebano’, per vari motivi: uno è pragmatico, cioè la liuteria degli strumenti a fiato (soprattutto gli oboi e i clarinetti), che nei suoi esemplari a 440 Hz non è ancora così buona come quella degli esemplari a 410, 415 o 392 Hz, quello che è considerato da noi il diapason barocco per eccellenza, che poi è una stupida ma comoda convenzione. È più facile trovare oboi stonati a 440 che non oboi a 415 Hz; i costruttori sono meno bravi, non si è ancora sviluppata una buona liuteria in questo senso, anche per i fagotti (per i quali ci sono solo sperimentazioni, come quella di Sergio Azzolini). Questo il motivo strettamente pratico.

L’altro motivo che mi fa diffidare è il fatto che non sempre Vivaldi ha lavorato a Venezia, non sempre quindi il diapason era quello standard veneziano: ad esempio a Mantova il diapason era diverso (ci sono le annotazioni sulle partiture mantovane, ‘un tuono più alto’, ‘mezzo tuono più basso’). Questa estrema variabilità mi fa essere abbastanza elastico: credo che si possa suonare tranquillamente Vivaldi a 415 come a 440 Hz senza ‘sbagliare’ in nessun caso. Nel caso della Juditha, l’ho incisa a 415 Hz, sul nostro fasullo diapason antico.

Marcaletti

Sempre per quanto riguarda la Juditha, in che modo ha stabilito che i claren sono clarinetti e non trombe?

Sardelli

Perché questa dicitura ricorre anche in altri concerti di Vivaldi. Esistono due concerti per due oboi e due clarinetti, molto preziosi, molto carini; sono inequivocabilmente scritti per clarinetti. Anche il Concerto per la solennità di S. Lorenzo riporta questi strumenti (non mi ricordo ora se la dicitura sia «claren» o «clareni»), nonostante Vivaldi li usi in modo quasi trombettistico (con salti di quarta e di quinta).

Talbot

In questo concerto vengono richieste note non suonabili da una tromba.

Sardelli

Questo fatto taglia la testa al toro. I «claren» sono strumenti in Do, ma nella Juditha la parte con i «claren» è scritta in Si bemolle maggiore, tonalità che diventerà tipica del clarinetto in futuro (il coro degli Assiri, una sorte di piccolo baccanale festoso). Siamo direi ormai del tutto certi che questi strumenti siano clarinetti e non trombe.

Jacobshagen

Se non ci sono altre domande, ringrazio nuovamente il Maestro Sardelli per il suo intervento.

Sardelli

Grazie a voi.

 

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[Bio] Arnold Jacobshagen Musicologo, ha studiato musicologia, storia e filosofia a Berlino, Vienna e Parigi. Dal 1997 al 2006 è stato ricercatore e docente presso il Forschungsinstitut für Musiktheater auf Schloss Thurnau; ha insegnato anche all’Università di Bayreuth. Dal 2006 è professore ordinario presso la Hochschule für Musik di Colonia. Fa parte del Meyerbeer-Institut e del comitato scientifico della MGG.

Federico Maria Sardelli Musicista e musicologo, ha fondato nel 1984 l’ensemble Modo Antiquo, con cui ha realizzato decine di progetti esecutivi e discografici. Saggista e curatore di edizioni critiche, collabora con l’Istituto Antonio Vivaldi. È direttore del dipartimento di musica antica dell’Accademia musicale di Firenze, dove insegna flauto dolce e traversiere.

Damien Colas Ha insegnato Storia della musica presso l’Università di Parigi-IV; dal 1995 è ricercatore del CNRS. Ha collaborato con il Centre d’Études Franco-Italiennes (Chambéry-Torino) e con l’IRPMF (Parigi). I suoi ambiti di studio riguardano principalmente l’opera italiana e francese nella prima metà dell’Ottocento, con un accento su problemi drammaturgici e filologici. Accanto alla ricerca svolge un’intensa attività di divulgazione e consulenza per esecuzioni musicali.

 

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