CLAUDIO VELLUTINI - Analisi di alcuni casi specifici di rapporto edizione-esecuzione in base al confronto tra edizioni critiche e registrazionio :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Claudio Vellutini

 

Analisi di alcuni casi specifici di rapporto edizione-esecuzione in base al confronto tra edizioni critiche e registrazioni*

 

 

 

Questo contributo nasce dai seminari tenuti lo scorso anno nell’ambito del corso di Storia della prassi esecutiva 2, inerenti al tema che stiamo affrontando in questi giorni. Qui si intende dar conto di alcuni casi interessanti emersi in quell’occasione in modo da fornire ulteriori spunti alla discussione sulla funzionalità pratica delle edizioni critiche di melodrammi del periodo tardo-barocco. Il campione di edizioni che abbiamo passato al vaglio era costituito dalle opere Adriano in Siria di Pergolesi,[1] Griselda di Scarlatti,[2] Giustino di Vivaldi[3] e Tamerlano di Händel.[4] L’indagine condotta a suo tempo su di esse prendeva le mosse da alcuni aspetti che preliminarmente avevamo evidenziato come maggiormente rilevanti.

Innanzitutto abbiamo preso in considerazione i criteri editoriali con i quali le edizioni sono state condotte e abbiamo cercato di valutare quanto essi soddisfacessero la duplice esigenza di fornire un testo filologicamente attendibile ma, allo stesso tempo, di agile lettura per l’esecutore.

In un secondo tempo, per ciascuna edizione, ci siamo concentrati sulle modalità di distribuzione delle informazioni esecutive tra l’introduzione storica del curatore, il corpo del testo dell’opera, le appendici e l’apparato critico. Questa operazione, in apparenza meramente ‘descrittiva’, è stata compiuta non solo per valutare il diverso atteggiamento dei curatori in relazione ai vari problemi pratici posti dal testo, ma anche perché convinti (come tutt’ora siamo) che una gestione ‘razionale’ e non dispersiva di queste informazioni vada a tutto vantaggio del fruitore della partitura.

Successivamente abbiamo passato al vaglio il contenuto delle indicazioni inerenti ai vari aspetti dell’esecuzione: organico, orchestrazione, diapason, stacco dei tempi, registri vocali, ornamentazione, trattamento delle cadenze alla fine dei recitativi e la questione dei tagli di arie o di loro sezioni.

Infine, abbiamo discusso le proposte esecutive con le quali alcuni interpreti moderni hanno risolto alcune questioni di carattere pratico.

Poiché qui non tutti gli aspetti menzionati potranno essere trattati esaustivamente, abbiamo deciso di soffermarci solo su alcuni che ci sono sembrati più significativi.

 

1. Criteri editoriali e distribuzione delle informazioni esecutive

È un dato acquisito che ciascun testo presenta delle problematiche specifiche e che, di conseguenza, l’impostazione di ogni edizione dovrà essere pensata in funzione di esse. D’altra parte però, a prescindere dalla tradizione di ogni singolo testo, nel repertorio considerato è possibile enucleare alcuni problemi ricorrenti che sono riconducibili da un lato al particolare status di gran parte delle partiture operistiche dell’epoca (niente più che ‘semplice’ materiale di lavoro realizzato in funzione di una determinata situazione pratica), dall’altro alle mutate convenzioni grafiche tra il sistema scrittorio settecentesco e quello odierno: la presenza pervasiva di segni di abbreviazione sia in senso orizzontale (ripetizione di parte di una linea melodica o di una sezione più ampia di un brano) che in senso verticale (come l’indicazione del raddoppio di una o più linee strumentali), la distribuzione disomogenea tra le parti di segni grafici quali legature, indicazioni di staccato o di dinamica, la presenza delle cosiddette armature di chiavi ‘incomplete’ (anche se, in questo caso, più che di diverse consuetudini grafiche sarebbe più opportuno parlare di residui di una diversa concezione dell’organizzazione dello spazio sonoro)[5] e di segni grafici caduti in disuso che, ad esempio, indicavano determinati colpi d’arco.

Si tratta, quindi, di problemi di non poca ricaduta sul piano della resa pratica dell’opera, verso i quali il moderno editore dovrebbe trovare soluzioni che siano contemporaneamente rispettose della sostanza del testo e comprensibili per il fruitore dell’edizione, tanto più se questi è esecutore. È vero che in passato si sono dati anche casi contrari: l’edizione di Griselda curata da Grout, ad esempio, prende le mosse dalla separazione del piano della restituzione del testo musicale da quello della sua immediata fruibilità pratica. Forse proprio concezioni così ‘speculative’ possono aver contribuito a formare nei musicisti un certo imbarazzo nell’adozione di edizioni critiche.

Entrando più nello specifico, un primo aspetto di discussione è dato dalle modalità di scioglimento di segni di abbreviazione e di rimando tra le parti che caratterizzavano l’usus scribendi dell’epoca. Tale operazione non può essere risolta meccanicamente perché, soprattutto nella derivazione di una linea strumentale dall’altra, un rischio sempre incombente è l’introduzione di note fuori registro. Di conseguenza, in molte edizioni i curatori hanno preferito differenziare lo scioglimento delle abbreviazioni con appositi segni, come parentesi tonde o quadre, introdotti nel testo dell’opera. Questo principio, scaturito da un rispetto fin troppo rigoroso della lettera del testimone settecentesco, porta con sé lo svantaggio di dar vita a un layout della partitura moderna appesantito da indicazioni supplementari che rendono indubbiamente più difficoltosa la lettura.

Analoghi provvedimenti sono talvolta adottati anche nel caso dell’estensione di indicazioni dinamiche, di segni di articolazione o di legature aggiunti per assimilazione: la partitura di Adriano in Siria, ad esempio, segue scrupolosamente questa politica editoriale. Ora, se è pur vero che, soprattutto tra famiglie strumentali diverse, le discrepanze presenti nel testimone settecentesco possono a volte esser dettate dalle loro differenti caratteristiche fisiche,[6] dall’altra parte la continua segnalazione di tali estensioni tra linee di strumenti della stessa famiglia o all’interno della stessa linea strumentale rischia talora di apparire più un puntiglio maniacale che non un servizio utile alla restituzione della sostanza del testo.

Una soluzione più economica potrebbe essere descrivere nel complesso questi problemi in una sezione specifica dell’introduzione o dell’apparato e compiere tacitamente (almeno nei casi più evidenti) sia lo scioglimento delle abbreviazioni che l’estensione dei segni di articolazione, dinamica e legatura, riservando solo ai casi più problematici elementi grafici supplementari o note in apparato.

Alla categoria dei ‘casi problematici’ appartiene la questione dell’utilizzo dell’oboe per il raddoppio dei violini e del fagotto come rinforzo dei bassi: com’è noto, le indicazioni presenti nelle partiture d’epoca non sempre sono univoche né coerenti e per questo l’editore moderno è costretto a trarre informazioni ‘in negativo’ dal testimone principale (quando ad esempio un’indicazione dinamica di forte, accompagnata dalla dicitura «tutti», è seguita da un passo in piano esplicitamente affidato ai soli violini) o a lavorare facendo continuo ricorso a testimoni secondari, quali le parti staccate dei singoli strumenti o copie redatte da un copista che tenta di interpretare le intenzioni dell’autore.

L’edizione di Tamerlano costituisce un buon esempio in proposito: il curatore Terence Best dedica al problema una dettagliata discussione nell’introduzione.[7] In essa dapprima descrive le indicazioni provenienti dalla partitura autografa, poi si sofferma sul modo con cui un copista contemporaneo a Händel le ha interpretate, sottolineando come i casi più ambigui della partitura abbiano indotto il copista a introdurre delle varianti nel testimone da lui realizzato. All’atto della restituzione del testo, Best riporta senza differenziazione grafica solo quei raddoppi che evidentemente erano previsti. Invece, se dalla collazione emerge una situazione più incerta (come per l’aria n. 20 Più d’una tigre altero, per la quale il solo testimone che sicuramente indica il raddoppio è un set di parti staccate risalente a circa venti anni dopo la prima rappresentazione), il curatore rinuncia all’indicazione del raddoppio a testo e discute la questione in una nota dell’apparato.

Se in questo frangente la Hallische Händel-Ausgabe dimostra opportunamente una buona dose di cautela, senza però che la qualità grafica del testo ne sia condizionata, in altre circostanze le soluzioni editoriali prospettate muovono contro una chiara e immediata fruibilità del testo dell’edizione. Ciò è emerso, ad esempio, nel caso dell’aggiunta di legature: i criteri editoriali, infatti, impongono l’uso di legature tratteggiate sia che esse provengano da testimoni secondari (dei quali fa parte anche la Direktionspartitur), sia che esse costituiscano aggiunte editoriali. Il risultato è l’utilizzo di un medesimo grafema per rendere due forme di integrazione diverse, senza che esse siano immediatamente riconoscibili se non nelle note dell’apparato critico.[8] Anche a questo proposito sarebbe utile prospettare soluzioni alternative adeguate sia alle esigenze scientifiche che a quelle pratiche di un’edizione critica.

Un altro aspetto di discussione è dato dalla resa nell’edizione moderna di segni grafici che nel tempo sono caduti in disuso: un caso interessante è fornito dalla partitura di Adriano in Siria. Nell’aria di Emirena Quell’amplesso e quel perdono (n. 29), a partire dalla b. 9 agli archi è affidato un accompagnamento in semicrome sulle quali è presente una linea ondulata. Per lo più i trattati dell’epoca associano a essa l’indicazione di un ben determinato colpo d’arco (il cosiddetto ‘tremolo legato’ o ‘balancement’)[9] che, all’atto pratico, si realizzava eseguendo una serie di note per lo più parigrado in una stessa arcata, separandole l’una dall’altra in modo più o meno marcato a seconda della velocità e del carattere del brano. In termini grafici moderni, questa modalità esecutiva – alla quale ci si riferisce con le espressioni ‘staccato nell’arco’ o ‘separato nell’arco’ a seconda della maggiore o minore cesura tra i suoni – è resa attraverso una legatura sui gruppi da eseguire in una stessa arcata e con punti di staccato o trattini orizzontali sulla testa delle note. Anche il curatore dell’edizione dell’opera sembra attribuire al segno questo significato.[10] Tuttavia, anziché modernizzare la grafia, il curatore dell’edizione critica non solo ha deciso di mantenere il tratteggio ondulato, delegando a una nota di apparato la spiegazione in termini pratici,[11] ma lo ha esteso ai gruppi di note che nella partitura settecentesca ne sono sprovvisti, e, coerentemente con i criteri editoriali, differenzia graficamente quest’ultimo intervento.

Un’operazione del genere appare inopportuna tanto sul piano scientifico quanto su quello pratico: dal punto di vista scientifico, il curatore si sottrae al proprio compito di resa critica del testo edito per mezzo dell’adozione di una soluzione diplomatico-interpretativa. Ma il fine di un’edizione critica si distingue da quello di un’edizione diplomatica proprio perché nella prima si mira al rispetto della sostanza del testo, non necessariamente della sua forma. Dal punto di vista pratico, questa scelta rischia di rendere poco funzionale l’edizione per un esecutore moderno, poiché questi può non avere confidenza con simili forme di scrittura. Con questo vengono disattesi due principi fondamentali di un’edizione critica, ribaditi anche dai Pergolesi Works:[12] la «chiarificazione dei passi ambigui ed oscuri» e i «cambiamenti che non mutano il contenuto musicale o letterario, ma ne migliorano la leggibilità per il pubblico moderno». Questo principio appare tanto più valido quanto più si considera che proprio le uniche due riprese moderne di Adriano in Siria (al Maggio Musicale Fiorentino nel 1985, e al Teatro Pergolesi di Jesi nel 1986) non si sono avvalse di un’orchestra di specialisti di musica barocca, ma di compagini solitamente impegnate nel cosiddetto repertorio della common practice e, come tali, non adusi a confrontarsi con forme di scrittura arcaiche.

Il mantenimento del segno settecentesco ha senso se si presuppone che esso si riferisca a un effetto esecutivo tipico della prassi dell’epoca ma che poi è andato perduto e che, di conseguenza, non può essere reso esaustivamente con la scrittura in uso oggi:[13] se così fosse, però, sarebbe stato opportuno trattare esaustivamente l’argomento in sede di edizione critica o, quantomeno, fornire i riferimenti bibliografici alla letteratura specifica sull’argomento. Se si ritiene, invece, che tale indicazione corrisponda semplicemente al colpo d’arco sopra descritto, una diversa soluzione del problema poteva consistere nel modernizzare a testo il segno grafico e riservare all’introduzione, o tutt’al più a una nota dell’apparato, la trattazione sulla grafia originale, sul suo significato e sul modo in cui è stata ‘tradotta’ in termini moderni. In ogni caso, una trattazione più articolata della questione nell’introduzione era auspicabile anche in funzione di una minore dispersione di informazioni di carattere pratico.

 

2. Indicazioni di prassi esecutiva

A prescindere da problemi relativi a un brano specifico dell’opera che, come abbiamo appena visto, spesso vengono affrontati in una nota d’apparato, tutte le edizioni considerate dedicano un capitolo più o meno ampio dell’Introduzione alle questioni di prassi esecutiva, con l’unica eccezione di Tamerlano, in cui il curatore tratta solo quegli aspetti pratici che hanno una ricaduta sul contenuto del testo edito (raddoppi, segnalazione della conclusione dei da capo delle arie). È questa, pertanto, la sede alla quale il musicista interessato a un’esecuzione ‘storicamente informata’ dell’opera farà maggiormente riferimento.

Anche in questo caso, l’articolazione interna del capitolo, la natura dei problemi e il modo con cui essi sono affrontati sono piuttosto eterogenei.

Si è detto che l’edizione di Griselda separa il piano della presentazione dei risultati del lavoro filologico da quello della prassi. Ciò nonostante un capitolo dedicato ad alcuni problemi esecutivi è comunque presente:[14] i nodi in esso affrontati riguardano l’ormai noto caso dei raddoppi di oboi e fagotti, l’orchestrazione del continuo, la realizzazione di determinate forme di scrittura ritmica delle note (ad esempio l’interpretazione ternaria delle figurazioni puntate o la questione del doppio punto), l’esecuzione delle cadenze dei recitativi, sia dal punto di vista vocale (aggiunta di appoggiature) che strumentale (realizzazione degli accordi del basso in simultanea alla voce). Brevi cenni sono dedicati alla prassi dell’ornamentazione e per lo più riguardano la realizzazione delle cadenze alla fine delle varie sezioni di un’aria. Notizie relative al cast della prima rappresentazione e alla vocalità dei cantanti sono date in un’altra sezione dell’introduzione. Tuttavia, ciascun argomento è affrontato e risolto in poche righe e in rarissimi casi la trattazione dei singoli problemi è accompagnata da indicazione bibliografiche utili per ulteriori approfondimenti. Fatto, questo, che non facilita sicuramente l’utilizzo dell’edizione con fini esecutivi.

Diverso il caso di Adriano in Siria. L’edizione critica, infatti, fu pubblicata a seguito di due convegni pergolesiani in cui furono affrontati diversi aspetti di prassi esecutiva, alcuni dei quali studiati proprio da Dale Monson.[15] Molte delle informazioni contenute nella sezione introduttiva dell’edizione derivano, più o meno esplicitamente, da quelle sessioni di lavoro. Gran parte degli argomenti toccati da Grout su Griselda si ritrovano anche nel volume dell’opera di Pergolesi. Oltre a questi, però, il curatore elabora anche un’ipotesi sulla composizione dell’organico orchestrale del Teatro di San Bartolomeo (luogo della prima rappresentazione dell’opera) e discute la necessità di integrare in sede esecutiva le scarse indicazioni dinamiche della partitura settecentesca.

Ancor più convinto della funzione propositiva di un’edizione critica è Reinhard Strohm, che nell’edizione di Giustino non solo dedica paragrafi consistenti ai problemi finora menzionati, ma si addentra anche nelle questioni di messinscena (facendo riferimento a una ricca bibliografia specifica) e di riproposta a un pubblico moderno. Proprio in vista della funzionalità scenica dell’opera, l’appendice della partitura include due brani (realizzati da Alan Curtis)[16] da utilizzare in corrispondenza di movimenti che rischierebbero di provocare un vuoto musicale: una «Sinfonia di trombe» per la scena dell’incoronazione di Anastasio in apertura del primo atto e una «Sinfonia per la battaglia» destinata alla decima scena del terzo atto. La necessità di entrambi i brani è suggerita fra l’altro dalle didascalie del libretto.

Una questione di notevole peso affrontata da Strohm è quella relativa ai tagli di brani o parte di essi. Anche in questo caso, le sue considerazioni muovono da osservazioni di carattere pratico e partono dalla distinzione fra l’esecuzione destinata all’incisione discografica e quella teatrale. Il valore documentario di una registrazione, infatti, dovrebbe suggerire una proposta esecutiva rispettosa dell’integralità del testo. Viceversa, in un contesto performativo dal vivo Strohm ammette la possibilità di abbreviare l’opera, purché ciò venga effettuato senza stravolgere la sua struttura drammatica o quella metrica del libretto (soprattutto nel caso di soppressione di alcuni passi di recitativo). A questo proposito, una delle ipotesi formulate dal curatore consiste nel far riferimento a versioni abbreviate del libretto messe in musica dai contemporanei di Vivaldi, com’è ad esempio il caso del Giustino di Händel, oppure, in relazione all’‘economia’ della produzione, nell’eliminare personaggi secondari come Andronico e Polidarte. In ogni caso per Strohm tagli, spostamenti e altre operazioni simili sono plausibili solo alla luce di una profonda conoscenza dei meccanismi dello spettacolo operistico settecentesco e in nessun modo devono essere strumento di sfoggio dell’estro creativo di chi li attua.

 

3. Proposte esecutive: Giustino di Vivaldi, Tamerlano di Händel

Proprio il diverso approccio degli esecutori all’integrità della partitura costituisce una delle maggiori differenze tra le due edizioni in commercio di Giustino, entrambe registrate nel 2001.

In quella di Alan Curtis, basata su alcune recite dal vivo, il testo è stato sottoposto a ingenti interventi di accorciamento, dichiarati dal direttore nelle note di copertina del cd: la soppressione del personaggio di Andronico (presa in considerazione anche da Strohm) è giustificata dall’analogo provvedimento adottato da Händel, mentre l’eliminazione di molte arie è stata dettata o dal loro scarso interesse musicale o dalla loro inefficacia drammaturgica. In altre situazioni, tuttavia, Curtis ha optato per il mantenimento di brani in apparenza meno significativi perché stimolato dalla ricerca di soluzioni musicali originali a specifici problemi esecutivi: è il caso ad esempio dell’aria di Arianna Augelletti garruletti dove è prevista la riproduzione del cinguettio degli uccelli che il direttore ha realizzato facendo ricorso a delle copie di fischietti d’epoca. Tuttavia, questi criteri non sembrano giustificare appieno la scelta di eliminare un’intera scena dell’atto terzo che costituisce uno snodo drammatico rilevante della vicenda: il momento in cui Giustino riconosce Vitaliano come suo fratello e i due decidono di unire le forze per liberare il legittimo sovrano Anastasio.

Al contrario, l’incisione di Estevan Velardi[17] mira alla completezza della partitura. Questo obiettivo è perseguito al punto tale da suggerire al direttore di realizzare una propria edizione critica dell’opera, basata sul manoscritto conservato nel Fondo Giordano della Biblioteca Universitaria di Torino, in cui sono riaperti anche quei tagli riconducibili a Vivaldi stesso. Così facendo, però, in nome dell’integralità dell’opera viene compiuto un errore filologico non di poco conto: quello cioè di scegliere di ripristinare una lezione scartata dall’autore. Sebbene si possa obiettare che, forse, tali varianti destitutive siano state introdotte successivamente alla prima rappresentazione, esse costituiscono comunque uno stadio evolutivo del testo più avanzato all’interno del processo compositivo di Vivaldi. Operare in senso contrario comporta il rischio di tradire la volontà d’autore.

Un problema analogo sorge nell’incisione discografica di Tamerlano diretta da John Eliot Gardiner.[18] L’opera costituisce un caso complesso di filologia d’autore, dal momento che, oltre alle due versioni licenziate da Händel nel 1724 e nel 1731, ne esiste una precedente di cui il compositore non ha mai autorizzato l’esecuzione. Gardiner, pur dimostrando nel testo accluso al cd di conoscere bene la genesi dell’opera, opta consapevolmente proprio per la versione mai eseguita, scegliendo così una redazione scartata dall’autore perché ritenuta meno convincente dal punto di vista drammaturgico. Anche in questo caso, è opportuno interrogarsi su quanto la ricerca della ‘primizia’ esecutiva sia conforme alle aspettative dell’autore nei confronti del proprio testo.

Non che il rispetto della ‘volontà d’autore’ (le virgolette sono d’obbligo dal momento che tale espressione delinea più un obiettivo-limite sempre sfuggevole verso cui indirizzare il lavoro e non un punto fermo raggiungibile una volta per tutte) debba per forza porsi come l’unico criterio-guida per l’esecuzione di una partitura; lo diventa allorché si tenta di giustificare tale esecuzione su dati storicamente fondati.

In conclusione, questi ultimi casi dimostrano che l’incontro tra musicologi e musicisti è più che mai auspicabile soprattutto nel senso di un avvicinamento delle rispettive posizioni, senza però dar luogo a ‘invasioni di campo’. Il rispetto delle funzioni e delle esigenze reciproche, la dialettica e il confronto possono forse apparire come vie meno veloci e immediate, ma sono senza dubbio più sicure per realizzare un comune obiettivo: l’interpretazione e la restituzione dell’opera nel rispetto delle sue caratteristiche precipue e del progetto artistico del suo autore.

 

 

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[Bio] Diplomato in violino e laureato in Musicologia con una tesi sull’ornamentazione nell’opera italiana del primo Ottocento, sta attualmente godendo di una borsa di studio Erasmus per ricerche sulle esecuzioni viennesi delle opere italiane di Donizetti, in vista della tesi di laurea specialistica.

* L’intervento riassume l’attività di un gruppo di lavoro di studenti nell’ambito del corso di Storia della prassi esecutiva tenuto da Angela Romagnoli presso la Facoltà di Musicologia nell’a.a. 2004-2005; hanno contribuito e fornito materiale per l’estensione della relazione Paolo Giorgi, Livio Marcaletti e Francesco Saggio.

[1] GIOVANNI BATTISTA PERGOLESI, Adriano in Siria. Dramma per musica, edited by Dale Monson, New York-Milano, Pendragon Press-Ricordi, 1985 (Complete Works/Opere Complete, 3).

[2] The Operas of Alessandro Scarlatti, vol. III: Griselda, edited by Donald Jay Grout, Cambridge (Mass.)-London, Harvard University Press, 1975 (Harvard Publications in Music, 8).

[3] ANTONIO VIVALDI, Giustino, a cura di Reinhard Strohm, Milano, Ricordi, 1991.

[4] GEORG FRIEDRICH HÄNDEL, Tamerlano. Dramma per musica in tre atti HWV 18, hrsg. von Terence Best, Kassel (ecc.), Bärenreiter, 1996 (Hallische Händel-Ausgabe, II/15).

[5] Per una prima introduzione al problema dal punto di vista storico e teorico si rimanda a GREGORY BARNETT, Tonal Organization in Seventeenth-Century Music Theory, in The Cambridge History of Western Music Theory, edited by Thomas Christensen, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 407-455.

[6] Cfr. ad esempio CLIVE BROWN, Classical & Romantic Performing Practice 1750-1900, Oxford-New York, Oxford University Press, 1999, p. 199: nell’autografo della Sinfonia Jupiter di Mozart la presenza di note legate ai fiati in corrispondenza del raddoppio ai bassi senza l’indicazione di legatura è costante e si ripresenta in tutte le occorrenze del passaggio. La discrepanza di scrittura in questo caso è evidentemente intenzionale.

[7] Cfr. HÄNDEL, Tamerlano, cit., pp. XXIII-XV e XXIV-XXVI.

[8] Cfr. il caso dell’aria n. 12 Benché mi sprezzi l’idol che adoro.

[9] Cfr. ROBIN STOWELL, Violin Technique and Performance Practice in the Late Eighteenth and Early Ninteenth Centuries, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, p. 176.

[10] Cfr. PERGOLESI, Adriano in Siria, cit., p. XXXI: «È interessante notare che a volte le arcate nelle parti di violino sono indicate con un segno ondulato, come nell’aria n. 29 Quell’amplesso e quel perdono […]. Sono da interpretare come note prese in un’unica arcata con una leggera separazione, un legato separato».

[11] Ibidem, p. 279: le affermazioni di Monson, tuttavia, non sono accompagnate da una documentazione storica che le giustifichi.

[12] Cfr. PERGOLESI, Adriano in Siria, cit., pp. XXXIII. Da qui le citazioni che seguono.

[13] È ciò che avviene, ad esempio, in ANTONIO VIVALDI, Le quattro stagioni da "Il cimento dell’armonia e dell’inventione" op. VIII, a cura di Paul Everett e Michael Talbot, Milano, Ricordi, 1996, p. 121, per il segno che indica il ‘close shake’, un particolare abbellimento che non ha un esatto corrispettivo moderno e che, pertanto, viene indicato con il grafema settecentesco.

[14] Cfr. The Operas of Alessandro Scarlatti, cit., pp. 9-11.

[15] Cfr. Studi pergolesiani/Pergolesi Studies, voll. 1 e 2, a cura di Francesco Degrada, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1986 e 1988.

[16] ANTONIO VIVALDI, Il Giustino, 2 cd Virgin 7243-5-45518-2-6 (2001).

[17] ANTONIO VIVALDI, Giustino, 4 cd Bongiovanni GB 2307/10-2-8 (2001).

[18] GEORG FRIEDRICH HÄNDEL, Tamerlano, 3 cd Erato 2292-45408-2 (1987).

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