Resoconto della Giornata di studi Musica e spazio urbano :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

 

Contributo di Resoconto

 

Giornata di studi Musica e spazio urbano

Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Musicologia, Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche

Cremona, Palazzo Raimondi, venerdì 19 maggio 2006

Coordinatore: Toni Geraci

 

 

Gli effetti socioculturali derivanti dalla concentrazione di una parte sempre maggiore di popolazione nelle città, unitamente agli aspetti specifici della vita urbana, sono di fondamentale importanza per tracciare un profilo della modernità. L’accelerazione tipicamente moderna delle trasformazioni infatti si è legata in modo determinante ai processi di urbanizzazione, sommati a quelli di industrializzazione. Il contesto urbano-industriale rappresenta pertanto qualcosa che difficilmente può essere ignorato da coloro che studiano le arti contemporanee. Tale contesto, con la relativa mutazione del paesaggio sonoro, è stato registrato dalla produzione musicale con modalità ed esiti assai diversi.

Più recentemente tuttavia, in concomitanza con i fenomeni di ristrutturazione industriale e con la nuova fase di terziarizzazione, l’attenzione per il legame preferenziale della città con l’industria moderna si è ridimensionato. Per contro, l’aumentata presenza di migranti, che si concentrano in città multietniche, ha spostato l’attenzione sui risultati prodotti dall’incontro dei più diversi flussi culturali. Non stupisce quindi che attualmente, in ambito musicale, il riferimento alla città porti spesso con sé quello alle nuove musiche urbane, nate dall’incontro di repertori tradizionali con la popular music dell’Occidente.

L’obiettivo del seminario è quello di mettere a fuoco la molteplicità di fenomeni legati al rapporto musica-spazio urbano e sviluppare prospettive metodologiche adeguate.

 

:: Toni Geraci (Università di Pavia-Cremona)

Introduzione

 

L’intervento d’apertura di Toni Geraci, coordinatore della Giornata di studi, ha avuto per oggetto l’inquadramento dal punto di vista storico e sociologico dei contesti in cui tale rapporto si è attuato in modo particolarmente significativo e problematico.

Lo spazio della città ha giocato fin dall’antichità un ruolo fondamentale per la nascita e lo sviluppo di molti dei generi musicali della tradizione colta e popular, tuttavia è solo con l’avvento dell’era industriale che la musica comincia a riferirsi al contesto urbano in modo massiccio e continuativo. Sebbene infatti lo spettacolo delle grandi masse in movimento e i problemi legati alla gestione di enormi quantità di merce appartenessero già alle metropoli dell’era preindustriale, come la Roma imperiale o la Baghdad dell’anno Mille, il fenomeno dell’industrializzazione ha drasticamente capovolto l’equilibrio demografico precedente, tanto che oggi i due terzi della popolazione mondiale vivono in città con più di 500.000 abitanti.

Questo processo di urbanizzazione si è accompagnato, da un lato, al dilagare disordinato dello spazio urbano nelle campagne e, dall’altro, a un’estrema razionalizzazione e mercificazione del lavoro, entrambi rispondenti ad un’unica logica di massimizzazione del profitto. La città industriale somiglia a un’impresa privata in cui prevale la filosofia del ‘lasciar fare’.

Geraci ha sottolineato come i profondi mutamenti nell’ambiente urbano connessi al sorgere e allo svilupparsi dell’era moderna abbiano prodotto, fra l’atro, un radicale cambiamento del paesaggio acustico. Le emanazioni acustiche incessantemente prodotte dalle automobili e degli stabilimenti industriali hanno dato luogo a un substrato sonoro che incide profondamente sulla percezione inficiando le normali comunicazioni.

Di tutti questi stravolgimenti fisici e sociali si sono occupate, a partire dal XIX secolo, le scienze sociali e le arti. Scorrendo le riflessioni espresse nei primi studi di Friedrich Engels, così come negli scritti di Charles Dickens, Émile Zola e Charles Baudelaire, si evince una lettura dell’universo urbano che, pur partendo da presupposti e seguendo traiettorie molto differenti, oscilla fra la celebrazione della modernità e la denuncia della condizione deformante della vita cittadina.

Lo stesso tipo di riflessione si ritrova anche negli scritti e nelle opere di molti compositori ottocenteschi e novecenteschi: a partire dalla novella Heuphonia, ou la ville musicale (1852) di Hector Berlioz, nella quale viene descritta una città utopica in cui la segmentazione degli spazi e dei tempi avviene esclusivamente sulla base delle attività musicali svolte dai cittadini. A questo modello ideale, l’autore contrappone un’ipotetica Italia del Ventiquattresimo secolo, caratterizzata dallo stridore delle macchine, dall’avidità e dal caos.

Il tema dell’isolamento dell’individuo nella grande città è osservato poi da Giuseppe Verdi nella Traviata (1853), in cui la città di Parigi, «popoloso deserto» è contrapposta alla vita semplice e rozza della campagna, rappresentata anche in termini musicali. L’aria Di Provenza il mar, per esempio, manifesta l’idiotismo rurale del personaggio di Germont padre, incapace di comprendere il rapporto irregolare di Alfredo e Violetta perché alieno alle dinamiche sociali metropolitane.

Fra i compositori del secolo scorso nella cui opera si tematizza il rapporto fra musica e città, Geraci ha ricordato il futurista Luigi Russolo, autore di uno scritto programmatico intitolato L’arte dei rumori (1913) in cui si celebrano i frastuoni della città come nuovo materiale sonoro da orchestrare nella musica del futuro; per dar vita a questo ideale compositivo Russolo realizzerà strumenti meccanici appropriati, chiamati «intonarumori» con i quali realizzerà anche alcune composizioni fra cui Risveglio di una città. Un esempio ancora più recente è quello di Die Schachter (1962), l’ultimo lavoro di Franco Evangelisti, in cui il compositore, integrando i suoni caratteristici della metropoli a quelli dell’orchestra, paragona il reciproco sopraffarsi degli uomini della società contemporanea al fenomeno di mascheramento del suono, mostrando come la prevaricazione continua generi un incremento incontrollabile del caos nella vita quotidiana dei cittadini.

[a cura di Nicola Bizzaro]

 

:: Angela Ida De Benedictis (Università di Pavia-Cremona)

Città e tecnologia elettronica nella musica del Novecento

 

Nel contesto della musica del Novecento, e in particolare nell’ambito della musica prodotta con l’ausilio di strumentazioni meccaniche, proto-elettroniche ed elettroniche, il tema dello spazio urbano gioca un ruolo centrale. La città e i suoi rumori vengono infatti fin da subito prescelti quale simbolo emblematico per rappresentare la stessa modernità e le sue innovazioni tecnologiche.

Nella sua relazione Angela Ida De Benedictis ha esemplificato (e proposto all’ascolto) tre differenti modi in cui la città è entrata nell’orizzonte della produzione elettroacustica e/o sperimentale del secolo scorso, tentando una classificazione in base alla funzione che i suoni della città o la dimensione urbana rivestono nell’opera.

Il primo esempio si è concentrato su una dimensione imitativa, per la quale l’ambientazione acustica della città viene riprodotta o riecheggiata nel prodotto musicale senza altra aggiunta o manipolazione che possa mutare il senso e/o l’immagine del modello. Tale prassi è riscontrabile fin nelle sperimentazioni futuriste, e questo nonostante le teorie di Russolo prescrivessero l’astensione dalla semplice imitazione. Paradigmatico è l’esempio di Dramma di distanze (1933), la seconda delle sintesi radiofoniche di Filippo Tommaso Marinetti, in cui i diversi scenari urbani sono rappresentati da musiche e suoni caratteristici, giustapposti l’uno all’altro.

Il secondo esempio messo a fuoco da Angela De Benedictis rimanda a una dimensione rappresentativa o evocativa, grazie alla quale la musica delinea il corso degli eventi. In tal modo con i suoni si giunge a marcare potenzialmente il tempo di una giornata e lo scandire delle attività umane urbane, ripercorrendone le tappe dall’alba al tramonto, notte e giorno. Questo scorrere degli eventi può essere sia ‘fotografato’ dal reale attraverso la stessa captazione dei suoni urbani nei singoli momenti della giornata, sia essere ‘evocato’ dai suoni con tecniche di elaborazione sonora. La maggiore o minore similarità al modello urbano ‘rappresentato’ condiziona la percezione dell’immagine cittadina, rendendo così possibile la riproposizione di modelli urbani esistenti o la ‘costruzione’ nell’immaginario dell’ascoltatore di città o paesaggi del tutto inventati. L’opera che per prima esemplifica questa seconda tipologia è l’audiomontaggio realizzato nel 1930 da Walter Ruttmann, Week-end: un lungo collage di parole, rumori e frammenti musicali miscelati per rappresentare un paesaggio urbano. Ruttmann, regista cinematografico, si servì della pellicola sonora utilizzata per i film tagliandola e montandola secondo un principio quasi musicale. In questa seconda tipologia rientra anche il radio play Under the Milk Wood di Dylan Thomas (1954), la cui scansione temporale del corso degli eventi è riproposta anche e soprattutto attraverso i rumori dell’ambiente urbano. Questa tecnica di ‘narrazione’ sonora ricorda molto da vicino un’altra produzione radiofonica di poco posteriore, Ritratto di Città (1954), frutto della collaborazione tra Luciano Berio, Bruno Maderna e Roberto Leydi. In questo documentario si tenta un nuovo stile di rappresentazione radiofonica: i singoli contesti urbani sono intesi quasi come ‘istantanee’ scattate dall’alto e montate con una consequenzialità solo apparente; il tutto era interamente ottenuto e/o reinventato con i mezzi della musica concreta ed elettronica, cioè con suoni reali opportunamente trattati e con frequenze prodotte da un generatore.

Musica e città possono infine essere inquadrate in una terza dimensione di tipo tecnico-elaborativa, per la quale la città e i suoi suoni divengono un vero e proprio materiale compositivo soggetto a trasformazioni e manipolazioni di vario tipo (talvolta fino a perdere ogni rapporto con i contesti e la dimensione acustica originali). Un compositore che tra i primi ha sfruttato questa potenzialità dei suoni della città è stato John Cage, che cominciò ad elaborare suoni del panorama urbano fin dagli anni Trenta-Quaranta. Se nella sonorizzazione del radio play The City Wears a Slouch Hat (1942, su testo di Kenneth Patchen) Cage comincia ad elaborare relazioni fra suoni tipicamente urbani registrati e musica strumentale, l’opera in cui il compositore esalta questa dimensione tecnico-elaborativa è Fontana Mix, per nastro magnetico, realizzata nel 1958 a Milano presso lo Studio di Fonologia della RAI. Per quest’opera elettroacustica Cage ha dapprima ripreso vari eventi sonori captati in diversi spazi del capoluogo lombardo, quindi li ha successivamente tagliati (in frammenti anche brevissimi) e rimontati secondo criteri aleatori. Il risultato finale perde pertanto ogni sorta di relazione connotativa o denotativa con la sorgente sonora, la città: l’ambiente urbano è trasmutato in materiale sonoro e non più riconducibile alla sua dimensione originaria.

La città, divenuta materiale, arriva così a dimostrare come l’arte possa essere davvero una operazione da compiersi concettualmente non fuori del mondo ma dentro il mondo, usando i suoi stessi suoni.

[a cura di Nicola Bizzaro e Angela Ida De Benedictis]

 

:: Steven Feld (University of New Mexico)

Motori, clacson e musica

L’esperienza di ricerca sul campo finalizzata allo studio dei paesaggi sonori iniziata da Steven Feld oltre trent’anni fa nella foresta pluviale dell’America del Sud e proseguita in diversi paesi europei, lo ha condotto recentemente ad Accra, una delle principali città del Ghana, dove lo studioso ha potuto entrare in contatto con una realtà musicale fino ad allora assolutamente sconosciuta alla musicologia africana e mondiale e alla maggior parte della stessa popolazione ghanese.

L’oggetto dell’intervento di Steven Feld è dunque la descrizione del repertorio di brani eseguiti dai membri dell’Unione degli autisti «Trotro», un consorzio di conducenti di mezzi di trasporto pubblici istituito nel quartiere La della città di Accra prima della proclamazione dell’indipendenza del Ghana dall’occupazione britannica (1957). Tale repertorio costituisce la componente essenziale dei rituali funebri celebrati per commemorare i conducenti defunti, e viene interamente eseguito con uno strumentario di trombe di segnalazione dei primi veicoli utilizzati dai pionieri del trasporto ghanese, unitamente a campane e percussioni, all’interno di una cerimonia completamente fissata nelle sue parti che si ripete ormai da sessantacinque anni. Le celebrazioni delle esequie degli appartenenti all’unione si sono sempre svolte segretamente, ed è solo grazie al fortuito incontro del professor Feld con alcuni dei depositari di questa tradizione che tale repertorio ha potuto raggiungere la comunità musicologica e la stessa cittadinanza di Accra.

Oltre alla chiara rilevanza antropologica di questa scoperta, il rituale funebre del consorzio «Trotro» rivela anche un significativo interesse dal punto di vista musicologico. I brani eseguiti in tale contesto manifestano infatti profondi legami con un ventaglio di fonti quanto mai ricco, che va dai tradizionali repertori in stile di hoquetus eseguiti con corni animali, al dixieland e alle musiche dei rituali funebri di New Orleans, rivelando una stretta affinità con la dimensione spiccatamente cosmopolita che caratterizza gli abitanti del Ghana. Si tratta di musica vocale e strumentale, dal carattere marcatamente poliritmico, suonata con strumenti che vengono venerati assieme ai primi veicoli della storia dell’Unione come oggetti rituali. Feld ha ricordato infatti la fondamentale importanza del valore spirituale che queste celebrazioni assumono: il suono del clacson, per esempio, si associa all’idea dell’ultimo viaggio del defunto che dalla dimensione terrena lo condurrà a quella ultraterrena.

I testi dei brani cantati, della durata di circa quindici minuti ciascuno, raccontano gesta epiche dei primi conducenti d’autobus, figure particolarmente rilevanti nel tessuto sociale ghanese, in quanto emblemi del processo di emancipazione che portò al raggiungimento dell’indipendenza politica. Steven Feld ha inoltre sottolineato l’importanza nel contesto di queste celebrazioni dell’aspetto coreografico, che comprende sia una componente prettamente coreutica, rappresentante il movimento del gonfiare una ruota con una pompa, sia una serie di interventi ‘solistici’ dei musicisti, direttamente ispirati alle «section» di sassofoni della tradizione jazz statunitense. I risultati delle ricerche di Feld confluiranno in un documento audiovisivo che sarà presentato in occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza ghanese.

[a cura di Nicola Bizzaro]

 

:: Marco Santoro (Università di Bologna)

Produzione musicale ed ecologia urbana

L’intervento è incentrato sui rapporti fra sociologia della musica e sociologia urbana. La sociologia urbana è uno dei rami più solidi, fiorenti e genealogicamente più sviluppati della tradizione sociologica. Attraverso gli studi eseguiti a Chicago si ha una legittimazione accademica della sociologia. E Chicago svolge un ruolo importantissimo, perché in quella città e in quella università sono nati il primo dipartimento e la prima rivista di Sociologia, e in virtù del fatto di essere un luogo di forte istituzionalizzazione e identificazione, ancor oggi riconosciuto come punto di riferimento. La metodologia sviluppata lì si basa sullo studio dell’articolazione urbana, dei quartieri, dei gruppi che li abitano e che confliggono per il controllo sul territorio, delle pratiche di svago e di associazione, delle categorie devianti. Chicago è peculiare perché negli anni Venti-Trenta del Novecento si presentava come uno straordinario laboratorio in cui osservare i processi sociali legati alla concentrazione, appropriazione e distribuzione del territorio urbano da parte dei gruppi sociali, delle collettività che dalle varie parti del mondo arrivavano a Chicago. Fra gli oggetti di questi studi è assente la musica (che in quegli anni fioriva in città, soprattutto nella forma jazz). Uno dei primi studiosi a gettare uno sguardo sulla complessa attività musicale urbana fu Howard Becker, il quale diventò uno degli autori di riferimento della sociologia mondiale e di quella dell’arte in particolare. Becker è autore di un classico contemporaneo della disciplina, Art Worlds (1982). Nella produzione della sociologia dell’arte di Becker, la musica compare in modo preponderante. L’approccio è quello tipico della scuola chicaghese, ossia l’osservazione dei livelli bassi: la scuola di Chicago studia infatti principalmente la città e le occupazioni.

La tradizione della sociologia della musica è molto antica e vanta nomi illustri: Georg Simmel pubblicò il suo primo articolo su argomento musicale, per poi occuparsi diffusamente a Berlino di sociologia urbana. Nel 1908 pubblica La metropoli e la vita dello spirito: l’autore si interroga su cosa significa conoscere il mondo a partire da un certo tipo di condizionamento storico sociale, nella fattispecie quello della grande metropoli; e la conclusione cui Simmel giunge può essere riassunta così: «il rapido affollarsi di immagini mutevoli, la netta discontinuità di oggetti raccolti da un solo sguardo, il susseguirsi di impressioni inaspettate: sono queste le condizioni psicologiche create dalla metropoli». L’idea è che la metropoli sia un’entità che sovrasta ed espone a una quantità di stimoli talmente elevata da rischiare di distruggere gli individui. Per questo, la vita psichica cambia, si protegge da questa stimolazione incessante così da consentire la sopravvivenza. Simmel delinea i caratteri della personalità metropolitana, identificabili nell’individuo blasé: colui che non si lascia più sorprendere da nulla, non approfondisce nulla, che diventerà un locus classico degli studi sulla modernità.

L’indicazione simmeliana, importata a Chicago proprio da Robert Parker, una delle figure predominanti del panorama sociologico statunitense, si traduce nel concetto di subcultura, teoria coltivata principalmente negli studi di popular music e, in particolare, nei british cultural studies della scuola di Birmingham (Stuart Hall, Iain Chambers). Tale teoria fu elaborata proprio nel contesto di Chicago per rendere conto di tutti i fenomeni di aggregazione collettiva parziale.

Un altro grande pilastro della sociologia che si è occupato di musica è Max Weber; I fondamenti razionali e sociali della musica è sicuramente uno dei testi più elevati della sociologia della musica; è un esempio di testo in cui l’autore riesce a superare i limiti prospettici della disciplina e si sforza di entrare nel materiale per rintracciare il processo di razionalizzazione che ne sta alla base. Ma la sociologia della musica, pur vantando nomi così illustri, non è per nulla una disciplina coltivata; nemmeno la scuola di Chicago se n’è occupata a lungo. Recentemente però ha cominciato a prendere piede, proprio grazie all’intervento di figure come quella di Becker: sociologo urbano di formazione, studioso delle occupazioni e fortemente inclinato verso il mondo delle arti e della musica. The professional dance musician and his audience (1951) è uno dei suoi primi saggi, divenuto poi parte del volume The outsider; si tratta delle contraddizioni insite nella vita del musicista jazz, anche se di jazz nel saggio si parla veramente poco.

L’ultimo risultato della scuola di Chicago in relazione alla musica, sul solco di Becker, è il testo di David Grazian, etnografo e sociologo, intitolato Blue Chicago, in search of authenticity in Urban Blues Clubs: uno studio sui mondi sociali dei club blues nella Chicago contemporanea, alla ricerca dell’autenticità del blues. La conclusione è che non esiste un blues autentico: esiste piuttosto un’economia simbolica dell’autenticità, un’economia di segni (come in questo caso il colore della pelle, l’appartenenza al ghetto) e spazi (i locali di Chicago).

[a cura di Marida Rizzuti]

 

:: Raffaele Pozzi (Università di Roma Tre)

Città e Natura in «Central Park in The Dark» di Charles Edward Ives

Il relatore ha affrontato l’argomento per la prima volta sulla «Nuova rivista musicale italiana» nel 1985 e ne ripropone ora una nuova lettura, sfumando alcuni contorni rispetto a quell’intervento.

Alla fine della guerra civile negli USA, con la vittoria del Nord industriale sul Sud agricolo, si avvia un accelerato processo di industrializzazione in Nord America. La nuova politica «urban industrial America» sostituisce il vecchio «agrarian order». Industrialismo e urbanizzazione sono ovviamente collegati. La popolazione di New York, dal 1860 al 1910, cresce di sei volte, quella di Chicago cresce di 20 volte. I 2/5 dei centri rurali degli USA decadono in questo ventennio. Il mondo agrario democratico e quello industriale repubblicano si scontrano. I due modelli si rispecchiano anche nell’acceso dibattito sul city planning e sul town design: come organizzare dal punto di vista urbanistico la città americana. La cultura del trascendentalismo di Concord, che tanta importanza avrà nella formazione e nella musica di Ives, si interroga sul rapporto con la natura. Per i trascendentalisti romantici la natura è fondamento e modello del vivere sociale; s’intrecciano questioni di etica del lavoro, spazio urbano e natura nel suo rapporto con lo spazio urbano. Democrazia, individualismo e ideali nazionalistici sono elementi di contorno a questa mutazione culturale. I temi del nuovo industrialismo e la crisi di valori che ne consegue investono la scena culturale nordamericana. Nell’ambito della letteratura minore si verificano eventi piuttosto importanti che fanno da sfondo a quello che vedremo in Central Park: nel 1893, la fiera colombiana a Chicago che celebra il nuovo grande futuro urbano e industriale nordamericano; nel 1894 l’uscita di scrive A Traveller from Altruria di William Dean Howells, un romanzo utopico in cui si attacca il nuovo mondo industriale e urbano.

In quel ventennio compaiono ben 45 romanzi utopici che reagiscono al cambiamento culturale, economico e sociale. È il caso anche di Hamlin Garland che pubblica Main-Travelled Roads (1891) e Prairie Folks (1893). Nel 1910 si assiste a un ritorno di una figura fondamentale per la cultura americana, Frederick Jackson Turner; l’inventore del concetto di frontiera scrive: «la frontiera si sposta dalla grandi pianure dell’ovest alla metropoli». La nuova frontiera è appunto quella urbana.

Contemplating nothing serious o Central Park in the Dark in the «Good Old Summertime» di Charles Ives è una breve composizione a programma per orchestra. Fu composta fra il luglio e il dicembre del 1906, ma pubblicata post mortem nel 1949 con il titolo Tree outdoors scenes. Concepita inizialmente come un dittico assieme a A Contemplation of a Serious Matter o The Unanswered Perennial Question.

«Questa composizione si propone di rappresentare musicalmente i suoni della natura e degli avvenimenti che si sarebbero uditi circa trent’anni fa prima che le macchine a combustione e la radio monopolizzassero la terra e il cielo, stando seduti su una panchina a Central Park in una calda notte d’estate. Gli archi rappresentano i suoni della notte e l’oscurità silenziosa interrotta da echi, il resto dell’orchestra, provenienti dal Casinò oltre il laghetto, voci di cantanti da strada che salgono dal circle cantando frammenti di canzoni di quei tempi, qualche barbagianni notturno che ritorna dall’Illis Bar fischiettando l’ultima novità, o la marcia goliardica delle matricole di Yale, l’ubriaco occasionale, un corteo o una rissa in lontananza. Strilloni che gridano, pianole che gareggiano a base di Rag-time da un appartamento all’altro. Un tram e una street band si uniscono al coro; un’autopompa, una carrozza passa e se ne va, i passanti vociano, di nuovo torna l’oscurità. Ancora un’eco oltre il laghetto e noi torniamo a casa».

Si ha una rappresentazione dicotomica di questo parco, progettato peraltro raccogliendo le istanze della ‘città giardino’ di ascendenza romantica. Gli strumenti vengono contrapposti con precise funzioni: archi in ostinato a cui sono sovrapposti fiati, pianoforti e percussioni che organizzano una rappresentazione additiva del caos urbano. Ives crea un effetto di crescendo timbrico e dinamico, per giungere a una climax «con fuoco», dal carattere poliritmico e polimetrico, che sovrappone i fiati in fortissimo agli archi sempre in pianissimo, per poi tornare al calo di tensione e all’adagio iniziale. Si disegna un moto simbolico, una metafora della natura che scorre immota, con tutte le caratteristiche di qualcosa che sta a fondamento e che si mantiene statico, su cui si verifica un caos di asimmetrie accentuative e diastematiche. Un dettaglio molto importante: alla fine del brano, è il violino solista che intona una melodia discendente per quarte; considerando un song coevo dello stesso autore, The cage, ritroviamo una traccia semantica di queste quarte e quinte, che qui rappresentano un leopardo in gabbia, ossia la natura imprigionata.

Nella recente ricerca ivesiana, il trascendentalismo, pur rimanendo al centro della vicenda creativa di Ives, viene in qualche modo letto diversamente. Si pensi alle ricerche molto puntuali di Peter Burkholder, il quale ha studiato «l’idea dietro la musica», sottolineando l’importanza della prima formazione a Danbury nel Connecticut, non solo per lo sperimentalismo che Charles eredita da George Ives, suo padre, ma anche per le ascendenze ideali protestanti, assolutemente fondamentali per comprendere l’etica che sta dietro questa estetica. Il rapporto tra natura e città, per esempio, non è visto dai trascendentalisti Thoreau ed Emerson come conflittuale: questa dicotomia proviene invece dalla lettura della corruzione urbana di matrice protestante.

Il relatore rispetto agli anni Ottanta sfuma l’aspetto antiurbano, lasciandolo sullo sfondo, perché in Ives sembra esserci anche una forma di entusiasmo urbano che traspare in altre composizioni: la città diviene anche un elemento propulsivo, il cui fondamento sono l’americanismo e la concezione progressista.

[a cura di Marida Rizzuti]

 

:: Gianmario Borio (Università di Pavia-Cremona)

Riproduzione dell’esperienza urbana con mezzi audiovisivi

Gli esempi di riferimento considerati nell’intervento sono: Walter Rutmann, Berlin: Die Sinfonie der Großstadt (1927), con musica di Edmund Meisel; Wim Wenders, Der Himmel über Berlin (1986), con musica di Jurgen Knieper; Godfrey Reggio e Philip Glass, Koyaanisqatsi, con musica di Philip Glass (importante anche il ruolo del direttore della fotografia Ron Frick).

Ciò che convince di più nell’Analysing Musical Multimedia di Nicholas Cook è l’idea che la dimensione audiovisiva sia fondamentale per la diffusione del messaggio contemporaneo, e che il ruolo della musica sia, in questo processo, determinante. Si verifica una certa tendenza da parte dei sociologici e teorici dell’informazione ad analizzare i media senza osservare la musica, ma se si modificano i messaggi pubblicitari privandoli della musica ne risalta prepotentemente l’importanza.

Oggi il tipo di comunicazione audiovisiva implica una competenza di tipo musicologico. Le tre dimensioni del multimedia sono l’immagine, la parola ed il suono, con sovrapposizioni e interpolazioni.

L’esperienza urbana, come emerge per esempio in Sigfried Krakauer, così come è stata vissuta dall’uomo occidentale è, come emerge per esempio in Sigfried Krakauer, un’esperienza sinestetica par excellence, ed essendo, nell’era elettronica, il cinema il campo operativo della sinestesia, esso costituisce sicuramente la forma artistica più indicata per questo tipo di rappresentazione. Con l’audiovisivo, l’esperienza della città si completa.

Rutmann e Wenders sembrano essere collegati da un rapporto di lettura, reinterpretazione e citazione; il significato delle immagini è influenzato dalla musica, il messaggio semantico può essere drasticamente cambiato dalla scelta della colonna sonora.

L’artista elabora con pochi vocaboli rapporti quali natura-città, città come distorsione della naturalità o come potenziamento delle energie creative. La musica, che a queste città è associata, ha caratteristiche localizzabili e facilmente rilevabili, spesso ripetute. Ciò che fa la differenza è il modo in cui questi macrovocaboli sono variati e modulati e segna anche la differenza fra un prodotto coinvolgente e uno che non supera il semplice orientamento del fruitore. Ciò avviene attraverso processi tecnici, in quanto musica e immagine scorrono «da sinistra a destra», nel tempo, e sono pertanto segmentate, sincronizzate o desincronizzate, sovrapposte, dissolte l’una nell’altra. L’insieme delle tecniche artistiche porta a focalizzare quel particolare messaggio, l’audiovisivo.

Nel primo esempio, Berlin: Die Sinfonie der Großstadt di Walter Rutmann, si arriva da altrove (astratto) in città (concreto);, si ha la costruzione di una prospettiva esterna e la musica è descrittiva. La musica è sempre sincronizzata sull’immagine e sui tagli del montaggio; nell’esempio di Wenders la musica è creata dal sovrapporsi dei pensieri degli utenti, cui si aggiunge il materiale composto ex novo.

Sia Rutmann che Wenders scelgono di entrare nella città: per Rutmann l’entrata è una grande introduzione alla storia che la città racconterà e a mano a mano che si entra in città aumenta l’input tecnologico. In Der Himmel über Berlin l’arrivo è dall’alto, dall’aereo. Si ha una sequenza di immagini che mostrano la città; Wenders legge la città anche dagli interni, peculiarità propria del regista, e alla colonna sonora si contrappone la musica diegetica, usata per caratterizzare gli spazi. In Rutmann la telecamera è l’occhio silente dello spettatore-visitatore, che coglierà la storia della città raccontata dagli edifici e dalle persone, anonime. È possibile riassumere in quattro princìpi le idee di Ruttmann: realizzazione conseguente dei principi ritmico musicali del film; il film si deve allontanare dal teatro filmato; i movimenti degli uomini sono spiati dalla telecamera; ogni processo parla da se stesso.

Anche nell’esempio di Reggio, Koyaanisqatsi, si ripropone ancora il viaggio. Questa volta è un osservatore esterno al pianeta: egli vede dall’alto (per la prima volta) gli elementi fondamentali, acqua, terra, fuoco. In questo caso la musica non precisa l’immagine, ma pone le condizioni per capire il senso completo dell’opera d’arte. Musica e montaggio sono, per ora, indipendenti. Il compositore utilizza dei vocaboli noti (colpi di gong e richiami di trombe). La natura e la città sono in opposizione (è un film dal messaggio politico ecologista preciso). In quest’opera esistono due città: quella disagiata, che viene distrutta, e quella moderna, che diventa astratta, diventa un circuito elettronico. Identificazione fra la città e la mente di chi la vive. Il messaggio ecologista passa attraverso la città del futuro, la città sincronizzata, che sta in equilibrio con la natura; il minimalismo si manifesta nelle costruzioni geometriche perfette. Il significato si palesa solo alla fine attraverso un processo di avvicinamento progressivo sviluppatosi nel corso del film.

[a cura di Marida Rizzuti]

 

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