Resoconto della Giornata di studio interdisciplinare. Musica e Immagine. :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

 

Contributo di Resoconto

Giornata di studio interdisciplinare Musica e Immagine

Università degli Studi di Pavia, Facoltà di Musicologia, Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche

Cremona, Palazzo Raimondi, mercoledì 6 aprile 2005

Comitato organizzatore e scientifico: Gianmario Borio, Michela Garda

 

Il seminario si propone di approfondire il rapporto tra musica e immagine nella determinazione del senso nei prodotti intermediali. Per prodotti intermediali si intendono le forme di creazione artistica in cui intervengono due o più mezzi che collaborano nell’espressione di un senso unitario. Nonostante la centralità e la diffusione della pratica di integrare suono e immagine nella cultura e nelle forme di comunicazione contemporanee (pubblicità, cinema, video, televisione), la teoria estetica non ha ancora sviluppato una riflessione adeguata a partire dalla concreta analisi degli esempi. L’istituzionalizzazione delle ricerche intermediali, che si concreta non soltanto come disciplina nell’ambito più vasto della teoria della comunicazione, ma anche in riviste specializzate (per esempio la rivista canadese «Intermédialités») e in centri specializzati come il Zentrum für Kunst und Medienthechnologien di Karlsruhe, ha portato ad un amplissimo ventaglio di analisi e proposte interpretative.
L’obiettivo di questo seminario è di analizzare il rapporto tra suono e immagine in alcuni esempi paradigmatici e di mettere in relazione le analisi con alcune questioni aperte dell’estetica contemporanea, quali la natura del senso musicale, la nozione di autorialità multipla, la natura dell’opera d’arte. Fra i partecipanti, Nicholas Cook è autore del volume Analyzing Musical Multimedia.

 

 

: : Michela Garda (Università degli Studi di Pavia-Cremona)

Introduzione

 

La giornata di studi organizzata presso la Facoltà di Musicologia di Cremona e dedicata alla disamina delle relazioni tra Musica e Immagine nelle produzioni multimediali (videoclip, film, spot pubblicitari) è stata introdotta da un intervento di Michela Garda volto a ripercorrere i momenti cruciali della riflessione estetica otto-novecentesca sulle opere musicali frutto della collaborazione tra diversi linguaggi (sonoro, visivo, poetico, gestuale).

            Il mito dell’unione delle arti, risalente alla mousiké greca e al quale, nel corso dei secoli, è stata spesso contrapposta una visione gerarchica delle discipline artistiche, riemerse prepotentemente durante l’Ottocento e acquistò, in particolare in Herder e Hegel, una connotazione peculiare (in grado, per taluni aspetti, di anticipare riflessioni proprie dell’estetica multimediale). Attraverso il ricorso alle nozioni di sensorium commune (Herder) e muta ricezione del nostro animo (Hegel), i due filosofi individuarono infatti nella ricezione da parte dei fruitori (e non nella gerarchia tra i livelli testuali) il momento in cui si sarebbe concretizzata l’integrazione tra le diverse componenti di un’opera.

Un momento decisivo che condusse alle riflessioni estetiche novecentesche fu rappresentato dalla concezione wagneriana del Gesamtkunstwerk: imprescindibile in ogni discussione sulla multimedialità, nonostante le differenze rispetto alla progettualità novecentesca dell’opera in musica (emblematica la visione wagneriana del singolo autore ritenuto unico responsabile dell’assetto gerarchico dell’opera), il pensiero di Wagner non mancò di influenzare artisti quali Skrjabin, Kandinskij, Schönberg.

Durante i primi anni del secolo scorso iniziò ad affermarsi (soprattutto in Schönberg) la convinzione che lo sviluppo dell’arte avrebbe implicato non solo un potenziamento dei mezzi artistici, ma soprattutto un’evoluzione della sensibilità umana: un concetto, questo, che riemergerà in piena era digitale, quando gli artefici del perfezionamento delle tecnologie si riterranno responsabili anche del miglioramento delle capacità percettive e creative dell’uomo.

Si dovranno attendere gli anni Cinquanta-Sessanta per assistere ad una completa neutralizzazione dei confini tra le arti, facilitata dal riconoscimento del comune manifestarsi nel tempo della musica e dell’immagine: nel processo che ha condotto all’interazione tra componente sonora e visiva, possibile anche in virtù dell’intercambiabilità dei rispettivi principi, temporale e spaziale (teorizzata soprattutto da Adorno), un ruolo decisivo è spettato alle sperimentazioni artistiche del movimento statunitense denominato Fluxus.

A conclusione del suo intervento, Michela Garda ha evidenziato il ruolo fondamentale svolto dallo sviluppo delle tecnologie nel determinare un nuovo rapporto tra componente sonora e visiva. In particolare, il progresso tecnico

  1. ha agevolato la trasformazione della relazione tra musica e immagine che, da momento effimero della fase performativa, è divenuta parte immanente e stabile dell’opera;
  2. ha reso possibile neutralizzare le barriere all’interno dei generi musicali (‘colti’ e popolari) e tra esigenze estetiche e meramente comunicative (ad esempio quelle pubblicitarie);
  3. ha indotto l’artista ad avvalersi delle innovazioni tecnologiche per potenziare la propria creatività, ed ha quindi favorito, attraverso un continuo scambio di ruoli, l’abolizione della concezione autoriale unica ed egemonica.

[a cura di Angela Carone]

 

 

: : Nicholas Cook (Holloway University of London)

«Song into video into film: from Bohemian Rhapsody to Wayne’s World»

 

Due spot commerciali, uno inglese realizzato per la Renault Espace, l’altro americano per la Mountain Dude, devono il loro successo all’uso della Bohemian Rhapsody (1975) dei Queen, mediata attraverso una sequenza del film Wayne’s World del 1991.

Il video dei Queen, girato nel novembre 1975 per sostituire il gruppo impossibilitato a partecipare a un programma della BBC, è considerato il primo video musicale. Sulla sua genesi esistono voci discordanti, sia per il tempo impiegato per realizzarlo (due giorni o poche ore), sia per la cifra richiesta. Rimane, comunque, la sua importanza, perché vi sono già presenti tutti gli elementi della grammatica visiva propri del nuovo genere. Alcuni di questi sono veramente innovativi, mostrano cioè aspetti high tech, altri vanno letti in prospettiva storica. È interessante notare come una delle fonti per la costruzione del video sia la stessa copertina del secondo album dei Queen, idea ripresa anche per lo spot della Mountain: l’immagine viene trasposta in una sequenza in movimento, che diventa il materiale per la parte centrale, ispirata all’opera, del video. Altro elemento da considerare è il modo con il quale le sequenze visive sono state direttamente elaborate su principi musicali, in una costante corrispondenza fra l’aspetto visivo, la sua costruzione, il suo montaggio e la struttura musicale. Si prenda ad esempio l’immagine multipla ottenuta con l’utilizzo della lente prismatica, che rispecchia direttamente l’impiego del multitracking per la realizzazione del coro partendo dalla voce del solista. Il taglio delle sequenze filmiche è poi, nella stessa parte centrale, sempre regolato dal susseguirsi delle linee musicali. Si può quindi affermare che la struttura della canzone sia stata riversata nella parte visiva del video. Un legame ancora più profondo è dato dalla tecnica usata sia per la musica sia per le immagini, cioè quella dell’utilizzo di registrazioni multiple della stessa performance e del multitracking per il brano musicale nell’album. L’eccessiva regolarità con la quale le immagini seguivano l’andamento della struttura musicale dava al video un che del cartone animato, contribuendo a renderlo in qualche modo datato. Nel giro di qualche settimana la BBC produsse un secondo edit, introducendo una certa sfasatura fra la musica e il taglio delle immagini. Nella stessa versione si tentò anche di cambiare o aggiungere elementi, come le fiamme durante l’introduzione, o il cambio di angolazione per le due camere di ripresa, che venne invertito.

Se si passa a considerare l’impiego di Bohemian Rhapsody nel film Wayne’s World si potrebbe pensare che il regista abbia aggiustato la dimensione musicale per adattarsi alla narrazione visiva. Invece accade il contrario: la sequenza della macchina è montata secondo schemi musicali, di ripetizione. Si possono distinguere cinque tipi di riprese, che ritornano e vengono combinati insieme, proprio come gli elementi musicali della canzone. Più in generale si può dire che la musica nel film sia usata per esprimere il contatto fra un microuniverso e la cultura dominante che se ne appropria, per delineare i margini fra fantasie e realtà.

Esiste poi una molteplicità di prodotti multimediali basati sulla canzone e sul video: cartoni di amatori, specialmente nordamericani, che dimostrano come si debba parlare di una catena sintagmatica, basata su un elemento, la canzone, che diventa canonico, proprietà comune. Ciò si spiega con la tendenza tipica della pop-art ad una partecipazione amatoriale, diffusa, svincolata dal concetto di rielaborazione professionale.

[a cura di Massimiliano Guido]

 

 

: : Roberto Calabretto (Università di Udine)

«La musica di Bach nel film: Pasolini, Tarkovskij, Kubrick» 

 

Al fine di cogliere la specificità dell’uso della musica di Bach in Pier Paolo Pasolini e Andrej Tarkovskij, argomento centrale del terzo intervento della giornata, Roberto Calabretto ha introdotto la sua relazione tratteggiando le differenti soluzioni impiegate dai registi intenti ad affrontare la problematica del commento sonoro nel film.

Mossi da finalità di ordine differente (ricercare una musica funzionale all’immagine o creare una dialettica tra contesto del suono e dell’immagine, tralasciando ogni preoccupazione audiovisiva), i registi, nel corso della storia del cinema, hanno optato per il ricorso ad un compositore di fiducia – sorta di alter ego musicale – o hanno utilizzato composizioni tratte dal repertorio classico. In questo secondo caso, è possibile individuare un triplice impiego dei brani composti da Johann Sebastian Bach, tramutati in soggetto cinematografico (si pensi a Cronaca di Anna Magdalena Bach di Straub e Huillet), musica in grado di condizionare la struttura del racconto o commento sonoro (scarsamente utilizzato nel cinema muto perché, a differenza ad esempio di quella wagneriana, la musica di Bach era ritenuta inadatta a ‘comunicare’ lo scorrimento del tempo). All’interno dell’uso della colonna sonora bachiana è possibile individuare un’ulteriore sottoproblematica: quella della citazione, finalizzata a introdurre nel racconto un fattore estraniante (ad esempio ne La dolce vita di Fellini) o resa dal regista strumento per meglio esplicitare la propria poetica, come avviene in N. U. di Antonioni, e, soprattutto, in Accattone di Pasolini.

L’impiego dei brani della Passione secondo Matteo per esplicitare quella ‘sacralità’ appartenente anche alla vita degli uomini di borgata – ma spesso oscurata dalle contingenze quotidiane – confermerebbe emblematicamente come Pasolini si sia servito delle composizioni di Bach per esprimere in modo profondo le proprie esigenze e convinzioni poetiche. Pasolini ha sfruttato l’elemento sonoro non per accentuare il realismo dell’immagine, ma per conferire ad essa un senso diverso: la musica bachiana, con la sua sedimentazione di significati, è divenuta un mezzo per allontanare la scena dalla realtà e trasferirla in una dimensione epica.

Calabretto non ha trascurato di illustrare le due fondamentali applicazioni musicali, orizzontale e verticale, descritte dal regista bolognese: se nel primo caso la colonna sonora scorre in superficie, sovrapponendosi alle immagini al fine di accrescerne l’espressività, attraverso l’applicazione verticale la musica ‘sfonda’ l’immagine, neutralizza i ritmi audiovisivi e si impone come unico fattore rilevante.

Il relatore ha quindi descritto la poetica di Tarkovskij, sottolineandone la distanza da quella pasoliniana. Condividendo le proposte innovative della Nouvelle Vague, il regista russo, in modo quasi affine a Robert Bresson, ‘incriminò’ la colonna sonora, rea di condizionare lo spettatore e alterare la sua personale visione delle immagini. Nel corso della propria attività, Tarkovskij intravide due possibilità per far fronte al carattere ‘oppiaceo’ della musica da film: l’impiego, grazie alla collaborazione con il tecnico del suono Edward Artemiev, della musica elettronica (ininfluente al livello di organizzazione del racconto e funzionale allo scorrimento delle immagini) e il ricorso al repertorio classico.

Calabretto è ricorso a Solaris per esemplificare l’impiego della musica bachiana da parte di Tarkovskij, illustrando come il registra si sia servito del corale Ich ruf zu Dir, Herr Jesu Christ (BWV 639) nelle fasi cruciali del film, ad esempio durante lo scorrimento dei titoli di testa (che, dal punto di vista musicale, rappresenta un ideale riassunto della colonna sonora stessa) o in conclusione, quando l’abbraccio tra il protagonista e suo padre si pone in perfetta sintonia con l’immagine evocata dal brano: il rifiuto dell’uso tradizionale della colonna sonora indusse Tarkovskij a tramutare la musica di Bach in ‘ritornello poetico’, in commento didascalico e, soprattutto, in fattore determinante nella strutturazione del racconto.

[a cura di Angela Carone]

 

 

 : : Gianmario Borio (Università degli Studi di Pavia-Cremona)

«L’Andante con moto del Trio op.100 di Schubert nella scena 26 di Barry Lyndon  

 

Il rapporto tra struttura e significato nell’ambito della musica strumentale è una delle vecchie questioni dibattute dalla musicologia. I saggi di Nicholas Cook e di Lawrence Kramer si soffermano su tale questione e sottolineano come la sfera multimediale sia un campo privilegiato per l’osservazione della costituzione del senso. Un possibile oggetto di indagine, relativamente a questo problema, è l’opera di Stanley Kubrick, non solo perché il regista praticava la musica, ma soprattutto perché è stato in grado di realizzare un prodotto ‘intermediale’, nel quale le tre dimensioni di immagine, testo e musica si intrecciano profondamente e il cui significato non è più separabile da questa fusione. Per illustrare queste circostanze, sarà qui indagato il modo in cui Kubrick ha impiegato l’Andante con moto del Trio op. 100 di Schubert nella scena 26 di Barry Lyndon.

Il punto di partenza è duplice. In primo luogo è necessario considerare che la musica strumentale, nella catena ricettiva, non porta in sé solo la prospettiva dell’organizzazione strutturale, ma anche residui semantici. Ad esempio l’Andante con moto del Trio op. 100 ha un contesto preliminare in una canzone popolare svedese che Schubert aveva ascoltato prima di comporre il pezzo. Naturalmente la conoscenza del testo letterario della canzone ha una grande importanza per individuare il significato veicolato dal brano schubertiano. Il secondo punto riguarda la distinzione tra significati musicali intrinseci ed estrinseci, cioè tra l’organizzazione sintattica, il senso logico-linguistico che cogliamo nell’ascoltare una musica strumentale, e il significato, il rimando a qualcosa che non è notato in partitura, a qualcosa di esterno.

L’idea è che la struttura del brano possa pilotare la comunicazione, non solo della musica, ma della creazione intermediale, consentendoci di accedere a un orizzonte di significato che trova espressione nel lavoro di Kubrick. Fondamentale in questo processo è la conoscenza preventiva della musica da parte del regista, in modo che lo strato semantico residuo della musica stessa sia ridefinito in un’operazione ermeneutica e venga convogliato nel campo che Kramer chiama image-text.

Il brano di Schubert è in forma bipartita: l’esposizione è seguita da una sorta di ripetizione elaborativa. Il primo decorso, l’unica parte utilizzata da Kubrick, procede da battuta 1 a battuta 109, ed è formato da due versioni del tema principale (TP1 e TP2), che si distinguono tra loro perché il ruolo di archi e pianoforte si inverte nel passaggio dall’una all’altra, e dal tema secondario, anch’esso in due versioni (TS1 e TS2). La composizione procede poi con una transizione (TR) che porta alla ripetizione variata di TP2 (TP3), con la quale si conclude la prima parte. Il tema principale segue solo in parte la tipica forma periodica, strutturata in gruppi di 4+4 battute o di 8+8 battute. Schubert inserisce infatti in questo modello alcune ‘distorsioni’, come le due battute introduttive basate sul ritmo del Wanderer – evidente rimando semantico – o il momento di ‘sospensione’ realizzato tramite la ripetizione del Sol alle battute 15-16, momento che diventerà il perno strutturale della scena 26 di Barry Lyndon.

Il film ha molto in comune con l’orizzonte mentale schubertiano, poiché narra l’ascesa del giovane eroe e la sua successiva rapida decadenza. Il culmine del percorso del protagonista è segnato dall’entrata dell’Andante con moto (che tornerà anche al termine della pellicola). Kubrick sembra avere progettato e montato le sequenze che compongono la scena 26 a partire dalla musica di Schubert. La scena è quadripartita secondo il seguente schema:

 

1. Giardino TP1, TP2 narratore no suoni ambientali
2. Sala da gioco continuazione TP2, TS1, TS2,
TP1, TP1 (al posto di TR)
no narratore suoni ambientali
3. Terrazza continuazione TP1, TP2, TS1 no narratore no suoni ambientali[1]
4. Giardino continuazione TS1,
TP3 (cambio di scena)
narratore no suoni ambientali

 

L’importanza strutturale della musica di Schubert è testimoniata, ad esempio, dalla funzione svolta dal momento di ‘sospensione’ in TP. Verso la fine del punto 3 dello schema assistiamo al bacio tra Barry e Lady Lyndon; è il momento centrale del film, che si svolge mentre ascoltiamo le battute di ‘sospensione’ di TP2. Le inquadrature precedenti e successive, la loro lunghezza e i tempi della loro successione stanno in stretto rapporto con le strutture formali del brano di Schubert. Sullo stesso inciso, ma questa volta di TP3, si situa anche il cambio di scena. Per Kubrick i diversi elementi strutturali del brano di Schubert sono, dunque, materiali che vengono formalizzati, ed è proprio grazie a questa formalizzazione che diventa possibile accedere ad un nuovo contesto di significato derivante dall’interazione di immagine, testo e musica.

[a cura di Federico Fornoni]

 

 

: : Sara Gennaro (Università degli Studi di Pavia-Cremona)

«Opera, evento, multimedia: a proposito di Untitled Event a Black Mountain College, 1952» 

 

Il cosiddetto Untitled Event di Black Mountain, organizzato da John Cage nel 1952 in un college in North Carolina, può essere visto come il primo esempio di ‘multimedialità’ moderna. Pittori, poeti, musicisti, danzatori (tra i quali Robert Rauschenberg, David Tudor, Merce Cunningham) si esibirono contemporaneamente, ciascuno nella propria disciplina, in un libero intreccio di arti diverse. L’Untitled Event presenta alcune delle caratteristiche tipiche di eventi multimediali che comprendono una molteplicità di discipline artistiche diverse: l’assenza di una partitura, o di un testo (a parte alcuni appunti sull’intervallo temporale da assegnare all’esibizione di ciascun partecipante); l’autorialità collettiva; la conseguente difficoltà a caratterizzarlo come opera d’arte: viene chiamato «event», «happening», ma anche «piece». L’assenza di un testo deriva anche dalla difficoltà di individuare un codice comune alle diverse discipline. Oggi la tecnologia digitale è vista da alcuni come un meta-codice che rende possibile l’unione di diversi linguaggi artistici in lavori multimediali. D’altra parte la tecnologia ha sempre avuto un ruolo importante nel processo di avvicinamento tra le arti: basti pensare al Padiglione Philips di Bruxelles a cui collaborarono Le Corbusier, Varèse e Xenakis nel 1958, ma anche a Variations V (1965), organizzato da Cage, Cunningham, Gordon Mumma e altri, in cui immagini proiettate si sommavano a suoni – registrati e live – connessi ai movimenti dei danzatori grazie ad un complesso sistema di fotocellule sul palco.

L’evento di Black Mountain ha avuto una notevole importanza storica nell’ambito dei processi di sconfinamento tra le arti e di avvicinamento tra musica e arti visive: è stato a posteriori considerato il primo happening, ed è stato preso ad esempio dagli artisti fluxus, alcuni dei quali furono allievi di Cage alla New School for Social Research alla fine degli anni ’50. Negli events musicali fluxus l’aspetto visivo della performance acquista un valore pari o maggiore di quello acustico: suono e immagine vengono accostati con intento provocatorio o di messa in discussione delle situazioni istituzionali della musica e di frustrazione delle aspettative musicali del pubblico, o di enfatizzazione dell’aspetto rituale del momento esecutivo, come in Composition 1960 n. 2 di La Monte Young, in cui pubblico e performer osservano e allo stesso tempo ascoltano il suono di un fuoco acceso sul palco. Questa carica provocatoria e sperimentale sembra oggi essersi esaurita: suoni e immagini si intrecciano in esperienze multimediali che sono entrate a far parte della pratica artistica contemporanea.

 

Bibliografia di riferimento

Fetterman, William, John Cage’s Theater Pieces: Notation and Performances, Harwood Academic Publishers, Routledge, 1996.

[a cura dell’autrice]

 

 

: : Elena Mosconi (Università degli Studi di Pavia-Cremona)

«Per un’archeologia dell’audiovisivo: il cinema italiano degli anni Dieci» 

 

In Italia il processo di istituzionalizzazione del cinematografo si compie a partire dal secondo decennio del XX secolo con modalità, forme e caratteri peculiari. Dal punto di vista produttivo, infatti, la lavorazione dei lungometraggi inizia nel 1911, sulla scia di alcune cinematografie europee (come ad esempio la danese Nordisk) e grazie all’immissione di capitali freschi ad opera di esponenti di classi nobiliari e altoborghesi che offrono un contributo alla promozione e divulgazione della cultura letteraria e, in generale, umanistica. Non a caso, il primo lungometraggio italiano iscritto al registro delle opere tutelate dal diritto d’autore, Inferno della Milano Film (1911, Adolfo Padovan e Francesco Bertolini), è tratto dal poema dantesco.

Con il lungometraggio si modificano i modi e i luoghi dell’esperienza filmica: l’attenzione dello spettatore deve mantenersi desta per tempi più lunghi, mentre le proiezioni si susseguono a intervalli temporali stabiliti (in sequenza lineare, non più per accumulo) e in sale più ampie e accoglienti. Ma il concetto di istituzionalizzazione si riferisce a un sistema di regole che guidano sia la ricezione sia la produzione dei testi a un insieme di pratiche codificate e normalizzate. Bisogna, quindi, verificare quando il cinema abbandona stilemi appartenenti ad altri campi espressivi per assumere una connotazione più squisitamente cinematografica. Pertanto, il cinema si istituzionalizza quando esce dalla serie culturale ‘pittorica, ‘scenica’, ‘letteraria’, o ancora ‘fotografica’ per raggiungere una dimensione pienamente filmica, caratterizzata dal primato dell’integrazione narrativa.

Il parere di Elena Mosconi è che il cinema italiano si sia istituzionalizzato negli anni Dieci più in quanto linguaggio audio-visivo, pluricodico, che, come avviene nel cinema americano, come forma narrativa. Le ragioni di questa ‘resistenza’ alla forma cinematografica sono forse da ricercarsi nelle pieghe dell’identità socio-culturale italiana, che ha ampiamente accreditato arti e pratiche espressive diverse (dalla letteratura alla arti plastiche/visive, al teatro, alla musica), e che preme per ricondurre a queste forme espressive anche il cinema, oppure nell’influenza della grande forma di spettacolo teatrale e melodrammatico (la cui scomposizione per unità discorsive, le scene o i quadri, è più netta che nel cinema) o ancora in un diverso e più rilevante peso attribuito alla componente musicale, piuttosto che in una prudente rielaborazione della modernità nelle sue forme più destabilizzanti.

Se da un lato il letterato viene coinvolto in produzioni cinematografiche per far presa sul pubblico potenziale e calamitarne interessi e attese (quasi una griffe, una firma più che un artefice), dall’altro al musicista viene richiesto un intervento diretto, un incontro materiale con il film in fase di lavorazione o di montaggio. I primi esempi di composizioni musicali d’autore accertate testimoniano proprio il modo in cui avviene quest’incontro tra musicisti e direttori di scena: Ballo Excelsior (1913) di Luca Comerio, che realizza una trasposizione cinematografica della pantomima di Luigi Manzotti, musicata da Romualdo Marenco; Histoire d’un Pierrot (1914) di Baldassarre Negroni, con musiche di Pasquale Mario Costa; Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, con la collaborazione di Gabriele D’Annunzio e la celebre Sinfonia del fuoco di Ildebrando Pizzetti; Rapsodia satanica (1915) di Nino Oxilia e con musiche di Pietro Mascagni; Christus (1916) di Giulio Antamoro e su musica di Giocondo Fino; Frate Sole (1918) di Ugo Falena e Mario Corsi, musicato da Luigi Mancinelli.

[a cura di Marco Gurrieri]

 

 

: : Roberto Agostini (Università degli Studi di Pisa)

«In missione per la Nike: musica e immagine nella pubblicità» 

 

L’intervento di Roberto Agostini, frutto di un suo lavoro condotto presso l’Università degli Studi di Pisa assieme a studenti di cinema, mira ad analizzare il ruolo della musica ed il funzionamento del suo peculiare linguaggio nei processi multimediali, in particolare nello spot pubblicitario. I caratteri propri di questa forma di comunicazione sono la brevità e la concentrazione, che derivano dall’evidente necessità di comunicare un messaggio in pochi secondi e che fanno sì che uno spot pubblicitario risulti difficilmente segmentabile.

Agostini ha presentato l’analisi di un video del 2000, che pubblicizzava un sito creato dalla Nike nell’ambito di una più estesa operazione commerciale legata ai campionati europei di calcio; lo spot in questione, prodotto da specialisti del settore, dura 90 secondi ed è stato diffuso prevalentemente tramite internet. Fin dalla prima visione risulta evidente che il linguaggio audio-visivo utilizzato richiama da vicino quello dei videoclip e dei videogiochi, e questa caratteristica è confermata dal fatto che dallo spot fu tratto effettivamente un videogioco.

L’azione presentata dal video consiste in una partita-combattimento tra alcuni famosi calciatori, incaricati di recuperare un pallone custodito nell’EUR, e dei guerrieri-robot rispondenti all’immagine che un occidentale moderno può avere dei ninja. La musica riveste ovviamente un ruolo importante ed ha fondamentalmente tre caratteri: retorico, emotivo-affettivo e narrativo. Gli elementi sonori del video sono un trascinante groove che dà continuità alla struttura musicale, diverse parti contrastanti che regolano la tensione delle scene e vari suoni e rumori, oltre ad un breve dialogo iniziale. Il relatore, per classificare tali elementi sonori, ha usato nella sua analisi le categorie di Philip Tagg «indicatori di stile musicale» ed «effetti di messa in scena sonora».

Gli effetti sonori non propriamente musicali, che Tagg chiama «anafonie soniche», sono sempre legati ad azioni rappresentate, come un movimento di un attore o di un oggetto, e spesso non sono realistici, ma simili a quelli – ancora una volta – dei videogiochi, ed in quanto tali costituiscono associazioni di suono ed immagine a cui tutti gli spettatori sono abituati.

Agostini ha inoltre diviso lo spot in diverse micro-sequenze visive e narrative, soffermandosi soprattutto sui «giochi di sincronizzazione» fra azione e musica; ha notato in proposito tre possibilità basilari:

  1. l’azione e la musica sono sincronizzate, cioè mutano nello stesso momento; ciò avviene in punti nodali con funzione di cesura;
  2. nell’ambito della stessa azione si ha un cambiamento della musica, per suscitare nello spettatore un diverso stato d’animo;
  3. in corrispondenza di un cambio di azione, la musica non subisce un mutamento notevole.

È interessante notare come spesso ci sia un piccolo sfasamento della sincronizzazione, in quanto la musica e l’azione possono cambiare non proprio contemporaneamente, ma con un leggero gioco di anticipo di una delle due componenti rispetto all’altra.

L’analisi di Agostini dimostra chiaramente che il linguaggio musicale utilizzato negli spot pubblicitari è peculiare e, per essere analizzato, ha bisogno di una visione d’insieme della musica e dell’immagine, che sono intimamente legate. Inoltre, come per la maggior parte delle musiche popolari contemporanee, chi si accinge ad analizzare questo tipo di linguaggio non può disporre di un testo scritto, ma deve limitarsi a guardare ed ascoltare il documento sonoro e, al massimo, a tentare di trascriverne alcune parti.

[a cura di Luisa Anzolin]

 

 

: : Alessandro Cecchi (Università degli Studi di Pavia-Cremona)

«Sovrabbondanza dello stereotipo e articolazione del senso nel videoclip Toxic di Britney Spears, regia di Joseph Kahn» 

 

L’intervento – nato all’interno del seminario per dottorandi su «Musicologia e popular music», coordinato da Gianmario Borio e Serena Facci – ha preso in considerazione un prodotto multimediale tipicamente mainstream, il videoclip Toxic di Britney Spears, regia di Joseph Kahn (2005). È stata proposta un’analisi del rapporto tra testo, musica e immagine, sulla base di uno schema analitico proiettato in sala.

La struttura del brano risulta convenzionale: introduzione; strofa 1, strofa 2, ponte, ritornello; strofa 3, ponte, ritornello; interludio; ritornello (due volte), coda. Musicalmente si nota la particolare insistenza di un musema (strumentale) di due battute, caratterizzato dalla presenza degli archi in un figurazione ritmica veloce (prima battuta) e poi del «violino indiano», che compie una breve linea melodica caratterizzata dalla presenza di una seconda eccedente (seconda battuta). Tra la strofa 3 e il ponte il musema del violino compare per moto retrogrado. L’atmosfera ‘indiana’ viene ripresa nell’interludio, una parentesi musicale sospesa tra evocazione di melismi vagamente ‘indiani’ e techno music. Altrettanto caratteristica e ricorrente (alla fine dei ritornelli, poi soprattutto nella coda) la sonorità del banjo, che costituisce un musema secondario (su un accordo di settima minore). Decorso armonico, batteria e basso tipicamente pop-dance.

Il video si articola in tre momenti. 1) All’introduzione e alla prima sezione corrisponde una carrellata dall’esterno all’interno della fusoliera, e qui dalla cabina di pilotaggio alla performer: Britney Spears bionda hostess in minigonna, che beve dello champagne e poi ballando accudisce i passeggeri; seduce uno stereotipo di uomo ‘grasso, brutto, impacciato’ e lo smaschera nella scena della toilette dell’aereo (poco prima del bacio...) rivelandolo come stereotipo opposto, ‘magro, biondo, sicuro di sé’, al quale la hostess sottrae un non precisato oggetto. 2) Veniamo immediatamente proiettati a Parigi (si scorge la Tour Eiffel) di cui è messo in evidenza il lato ‘notturno’. Dopo una cavalcata su una moto guidata da un uomo ancora stereotipato (nero, muscoloso, a torso nudo) la performer (totalmente trasformata: capigliatura rosso schocking, trucco pesante nero e rosso, abbigliamento in pelle da ‘dominatrice’), con un salto mortale elaborato grazie alla computer graphic, passa all’azione: il misterioso oggetto diventa chiave d’accesso – ambientazione tipicamente videogame in cui la Spears veste i panni dell’eroina – a un laboratorio (compare la scritta «Toxic») evidentemente segreto dove viene prodotta la sostanza misteriosa evidentemente tossica (come indica il colore stereotipato: verde fosforescente). L’uscita dal laboratorio (tra i raggi ultrarossi da film d’azione) è una sorta di danza vagamente ispirata alle arti marziali (corrisponde all’interludio). 3) Segue l’assalto della performer (nuovamente trasformata: capelli neri, trucco scuro, vestita in pelle, ma coperta di veli) verso l’antagonista maschile, inaugurata dalla salita (con ventose) sulla parete di un grattacielo di Londra. È l’ultimo atto di quella che sembra una ‘seduzione’: in realtà la performer inscena la ‘vendetta’ per il tradimento che intravediamo nel taglio rapidissimo del montaggio, intossicando l’uomo (mentre lui cede alla tentazione amorosa, come anche alla forza fisica dimostrata dalla assalitrice) con la sostanza mortale. L’intossicazione è seguita da un balzo giù dal grattacielo che riconduce la protagonista – circolarmente – all’identità iniziale della hostess e lo spettatore all’interno dell’aereo, in un contesto normale. Rivolgendosi allo spettatore, la hostess strizza l’occhio, alludendo alla complicità nel mantenimento del segreto (qui termina il brano musicale). Una nuova carrellata conduce all’esterno dell’aereo, dove cinque volatili neri (intravisti all’inizio del video) seguono in schiera l’aereo. Tutto il video è inframmezzato da una scena in cui la performer è da sola e nuda (rivestita di una scintillante e trasparente calzamaglia attraverso un’elaborazione grafica) e danza in un alone bianco etereo (il labiale è costantemente in sincrono con la musica). è una scena ‘epifanica’, e un fondamentale hook del video. Uno schema a colori indica la particolare ricorrenza di questa sequenza dall’inizio alla fine del video.

Il gioco degli stereotipi investe tutte le dimensioni del videoclip e del brano musicale. In questo è facile intravedere le finalità ‘di mercato’ del prodotto: l’evocazione musicale dell’India (il musema citato) nonché la presenza della danza, di melismi orientaleggianti rimanda al vasto mercato legato al cinema e al pop indiano (la produzione ‘Bolliwood’); i teenager di entrambi i sessi trovano più di un motivo di identificazione, dal momento che gli stereotipi presentati coprono una vasta gamma tipologica; la provocazione sessuale esplicita, nel testo e nelle immagini, la presentazione stessa riservata a questo video da parte dei produttori, allude alla ricerca di un pubblico più adulto, che si affianca a quello dei teenager, caratteristico di Britney Spears. Questo tipo di prodotto multimediale rimanda chiaramente più alla figura del produttore, che appronta uno staff per finalità di mercato, costruendo il personaggio, che a quella dell’autore: in primo piano è la performer, l’icona pop, che non coincide con l’autore (o gli autori) in nessun senso.

Per quanto riguarda il problema dell’articolazione del senso nel prodotto multimediale, valgono le considerazioni svolte da Nicholas Cook in Analysing Musical Multimedia (1998) sul videoclip Material girl di Madonna. Come in questo, anche in Toxic il senso articola per antitesi. Mentre il testo fa riferimento a una ‘intossicazione’ amorosa subita dalla protagonista, il video inscena – ironicamente – la situazione opposta: è la protagonista a intossicare il traditore.

Ci si riallaccia infine alle considerazioni introduttive di Michela Garda, con un salto al Romanticismo tedesco. Friedrich Schlegel avanzava la proposta di una convergenza tra le arti unitamente al rifiuto del concetto razionalistico di espressione, ancorato al primato della comunicazione di concetti determinati: per lui «Un’idea è un concetto compiuto sino all’ironia, una sintesi assoluta di antitesi assolute, l’alternanza continuamente autogenerantesi di due pensieri in conflitto».[2] Quel particolare tipo di idealismo filosofico, còlto nelle sue origini storiche, sembra permeare l’ideologia del prodotto multimediale, che al momento di articolare il senso su piani diversi – il testo, le immagini, la musica – deve in qualche modo articolarlo per antitesi, diciamo pure ‘disarticolarlo’, ai fini di un arricchimento del livello ‘estetico’. Il prodotto multimediale – in conclusione – è dunque cifra dell’esplosione del senso, dell’anti-realismo che sembra pervadere ogni aspetto della società contemporanea?

[a cura dell’autore]

 

 

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[1] In questa parte si sentono, oltre alla musica, significativamente solo i passi di Barry.

[2] FRIEDRICH SCHLEGEL, Frammenti critici e poetici, Einaudi, Torino, 1998, p. 45.

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