Francesco Filippo Minetti - Philomusica on line :: Rivista del Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche

 

Resoconto a cura di Massimiliano Locanto

 

Tracce di una tradizione sommersa: i primi testi lirici italiani tra poesia e musica
Seminario di studi. Cremona 19-20 febbraio 2004

 

Giovedì 19 e venerdì 20 febbraio scorsi si è svolto a Cremona il Seminario di studi Tracce di una tradizione sommersa: i primi testi lirici italiani tra poesia e musica, promosso dalla Facoltà di Musicologia e dal Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche dell’Università degli Studi di Pavia. L’evento aveva suscitato una forte aspettativa nell’ambiente dei letterati e musicologi interessati alla cultura romanza in genere. Gli specialisti hanno infatti partecipato numerosi – come rilevava Cesare Segre in apertura dei lavori – gremendo la sala "Alfredo Puerari" del Museo Civico "Ala Ponzone" di Cremona.

Motivo di tale attesa erano soprattutto i due documenti oggetto del Seminario: due preziose testimonianze di una tradizione molto antica di poesia profana in lingua di sì, per di più congiunta alla notazione musicale. La prima di esse – consistente in due componimenti amorosi trascritti tra il dodicesimo e tredicesimo secolo sul verso di una pergamena ravennate – era stata riportata solo da pochi anni all’attenzione degli studiosi da Alfredo Stussi. La seconda testimonianza, invece, era rimasta del tutto trascurata, sebbene Anna Riva ne avesse segnalato la presenza nell’archivio di Sant’Antonino di Piacenza già nel 1992 e poi nuovamente nel 1997, nel suo catalogo dei manoscritti dell’archivio ecclesiastico piacentino. Claudio Vela, venutone a conoscenza appunto grazie al catalogo della Riva, ne ha poi intuito il forte interesse storico, richiamando l’attenzione degli studiosi, in primis quelli direttamente coinvolti nel Seminario. Si tratta di un frammento di poesia volgare annotato verso l’inizio del tredicesimo secolo sulla coperta di un manoscritto della biblioteca antoniniana (ABCSA, cass. 49, framm. 10).

L’interesse dei due reperti risiede innanzitutto nella loro vetustà e nelle potenziali implicazioni circa gli esordi della poesia in lingua italiana e le modalità della sua diffusione ed esecuzione. Il frammento piacentino preserva infatti la musica relativa ad una breve porzione del testo poetico, con quest’ultimo chiaramente sottoposto alla notazione. Nella pergamena ravennate, diversamente, una notazione senza testo è vergata in modo corsivo sul medesimo lato che accoglie anche i versi amorosi, ma, come è risultato evidente ad un esame più attento, essa registra con ogni probabilità la musica destinata ai medesimi versi. L’idea di una diretta associazione tra i due testi (poetico e musicale), sostenuta con vari argomenti e a partire da diversi punti di vista dai relatori del Seminario, non era mai stata presa in seria considerazione in precedenza, ed è stata indubbiamente motivo di rinnovato interesse nei confronti del documento riscoperto dallo Stussi.

A suscitare ulteriormente l’attenzione per le due testimonianze si aggiungeva infine la loro problematica collocazione in seno alle principali direttrici della tradizione letteraria volgare coeva. Le caratteristiche formali e tematiche dei due testi evidenziavano infatti un rapporto quanto meno ‘obliquo’ con l’esperienza poetica dei Siciliani e, d’altro lato, una certa vicinanza alle tradizioni d’Oltralpe.

***

La prima giornata, presieduta da Cesare Segre si è aperta col saluto del Direttore del Dipartimento Maria Caraci Vela, e ha visto nell’ordine le relazioni di Claudio Vela, Anna Riva, Teresa De Robertis, Piera Tomasoni, Daniele Sabaino e Massimiliano Locanto. La seconda giornata si è aperta con l’ultima relazione, di Sofia Lannutti, ed è stata poi dedicata alla Tavola Rotonda che ha visto succedersi, sotto la presidenza di Domenico De Robertis, gli interventi di Pietro Beltrami, Luciano Formisano, Lino Leonardi, Maria Luisa Meneghetti, Francesco Filippo Minetti, Maria Teresa Rosa, Rodobaldo Tibaldi. Previsti anche gli interventi di Angelo Stella e Agostino Ziino, poi impossibilitati a presenziare.

La relazione d’apertura di Claudio Vela (Nuovi versi d’amore delle origini con notazione musicale in un frammento piacentino) – il cui titolo riprende quello del saggio di Stussi che diede notorietà alla carta ravennate – si incentra sul reperto che ha rappresentato, da un certo punto di vista, la maggiore novità del Seminario (il frammento piacentino). Vela riassume dapprima brevemente le vicende che hanno portato al suo ritrovamento, cogliendo opportunamente l’occasione per ricordare l’importanza dei cataloghi di archivi e biblioteche ai fini della ricerca. Nelle intenzioni espresse dallo stesso Vela, la relazione si prefiggeva il compito limitato di rendere noto il testo e di proporne una prima lettura ed interpretazione. In realtà la trascrizione semidiplomatica, la ricostruzione del testo, l’analisi metrica e linguistica, l’esegesi e la proposta di edizione interpretativa approntate dallo studioso, pur costituendo l’inizio di un lavoro che dovrà ancora proseguire, ne pongono le basi essenziali, e in modo metodologicamente impeccabile. Vela propone una struttura metrica con ritornello di un settenario doppio, e quattro strofe costituite da un numero variabile di settenari doppi – con varie escursioni anisosillabiche – ed endecasillabi (più precisamente: una strofa tetrastica di un endecasillabo iniziale più tre settenari doppi monorimi; due strofe tristiche di settenari doppi monorimi; una quarta strofa tetrastica di tre settenari doppi più endecasillabo finale monorimi, col primo settenario doppio mancante del secondo emistichio). Un assetto formale, quindi, senza riscontro esatto nella produzione lirica volgare coeva, ma i cui singoli aspetti sono tutti facilmente reperibili in essa. Sul piano linguistico Vela individua un ibridismo di forme prettamente settentrionali ed altre più geograficamente diffuse, forse interpretabile come la settentrionalizzazione di un testo originariamente non settentrionale. Nella sua lettura, poi, la terza strofa sarebbe pronunciata da un interlocutore (la bella) differente da quello delle strofe circostanti (l’amante). Si ipotizza così l’appartenenza del testo ad un genere ben caratterizzato – il contrasto – e quindi a quel filone dialogico il cui punto di arrivo sarebbe «l’arte più consumata di un Cielo d’Alcamo». In conclusione la relazione allude suggestivamente alla possibilità che il testo del frammento piacentino testimoni un’antica tradizione poetica nord-italiana dal carattere popolareggiante, della quale ci è rimasta per il resto ben poca traccia.

La relazione di Anna Riva (I testi latini del frammento piacentino) offre una panoramica sul contesto nel quale è inserito il componimento piacentino. La presenza di un testo volgare all’interno della biblioteca antoniniana rappresenta un caso unico: la collezione libraria di Sant’Antonino, formatasi come strumento funzionale alla scuola capitolare della basilica, contempla infatti essenzialmente testi latini. La Riva si sofferma sulla tipologia del testo cui è annessa la coperta contenente il frammento volgare, sforzandosi anche di identificare gli altri testi presenti su di essa. Il corpo principale del manoscritto (un trattato grammaticale del XIII secolo), entrò a far parte della biblioteca piacentina con ogni probabilità all'inizio del secolo XIII, insieme ad un altro gruppo di codicetti della stessa disciplina. La Riva nota come in questo secolo siano registrate diverse nuove accessioni nel fondo delle opere grammaticali, in relazione al mutare dei programmi di insegnamento e all'evoluzione della disciplina. Quanto ai testi annotati sulla coperta, vergati da mani diverse ma tutte del XIII secolo, la studiosa vi scorge annotazioni e appunti di maestri, utili ai fini delle lezioni o di interesse personale.

Agli aspetti più prettamente paleografici è invece dedicata la relazione di Teresa De Robertis (Osservazioni sulla scrittura della carta ravennate e del frammento piacentino). Dopo aver ulteriormente chiarito la natura del manoscritto in questione (un libercolo di pochi fogli, di un tipo molto diffuso nelle scuole capitolari medievali, ma estremamente deperibile) la studiosa avanza, sulla base del confronto tra le varie mani complessivamente presenti e delle loro caratteristiche grafiche e morfologiche, una datazione della scrittura del testo volgare attorno al primo quarto del Duecento. Quanto invece alla scrittura della carta ravennate, le osservazioni della De Robertis non mirano tanto a rettificare o raffinare la datazione già proposta da Petrucci e Ciaralli (tra il 1180 e il 1210), quanto ad individuare significative analogie morfologiche con la scrittura del testo volgare del frammento piacentino.

Piera Tomasoni (La lingua dei versi d’amore ravennati. Consuntivo delle prime interpretazioni) si incentra sulla componente linguistica del primo – e più lungo – dei due componimenti poetici (siglato con la lettera A dallo Stussi) della carta ravennate, proponendo un sunto, ma anche una critica, delle varie ipotesi formulate in altre sedi. In particolare vengono presi in esame e messe a confronto il fondamentale studio di Stussi in «Cultura Neolatina» del 1999 e quello di Castellani nel capitolo conclusivo della sua Grammatica storica della lingua italiana (2001). I due contributi, nota la Tomasoni, interpretano in modo divergente il marcato ibridismo che caratterizza il testo, nel quale fatti grafici e linguistici ascrivibili con sicurezza all’area settentrionale coesistono assieme ad altri decisamente afferenti all’area mediana e meridionale, senza che uno di questi aspetti sia qualificabile come originale. Stussi ipotizza una stratigrafia dovuta all’opera di più copisti, i cui effetti sarebbero anche visibili in diversi errori grafici, linguistici e metrici, e propende per l’ipotesi di un prodotto settentrionale passato attraverso la penna di un copista mediano attivo a Ravenna. Diversa la visione di Castellani, che rifiuta la premessa di Stussi di un ibridismo per trasmissione: il testo sarebbe un originale, non una copia, e la sua collocazione geografica e letteraria dipenderebbe quindi dall’interpretazione della lingua dell’autore, che secondo Castellani rispecchierebbe la condizione del più antico romagnolo. La Tomasoni evidenzia puntualmente vantaggi e limiti delle due ipotesi, soffermandosi in particolare su quella del Castellani, a verifica della quale suggerisce un confronto con gli antici testi volgari ravennati raccolti da Giancarlo Breschi in un volume di prossima pubblicazione.

La parte musicologica del Seminario è rappresentata dalle relazioni congiunte di Daniele Sabaino (Intonazioni d’amore in lingua di sì. Riflessioni e ipotesi sul rapporto musica-poesia nella carta ravennate e nel frammento piacentino) e Massimiliano Locanto (Osservazioni paleografico-musicali per la datazione e la localizzazione della carta ravennate e del frammento piacentino). La scelta di riunire le due esposizioni in una sola nasce anche dalla collaborazione e dallo scambio reciproco che hanno costantemente caratterizzato il lavoro di ricerca dei due relatori. La parte principale della relazione (Sabaino) riguarda la ricostruzione del testo musicale della carta ravennate. Sabaino illustra punto per punto le ragioni paleografiche che hanno indotto a riconoscere nella scrittura neumatica vergata di seguito ai versi amorosi, la musica da adattare ad essi. Identifica quindi un nesso tra la disposizione della notazione sulla pagina e la struttura musicale, e tra questa e la struttura poetica. Il testo musicale, di difficile lettura sia per il cattivo stato di conservazione, sia per la natura corsiva della scrittura, è quindi decifrato e ricostruito. Vengono proposte e discusse diverse possibilità di abbinamento musica-testo, per giungere infine ad una proposta di trascrizione. Il risultato trova significativi riscontri nelle ipotesi circa la struttura poetica che Sofia Lannutti aveva autonomamente e precedentemente formulato. In particolare risulta avvalorata dall’aspetto musicale l’ipotesi della Lannutti seconda la quale il secondo componimento trascritto sulla pergamena (una strofe di 5 versi, etichettata come testo B dallo Stussi), non costituirebbe un testo autonomo, ma sarebbe stato aggiunto al testo A, come suo refrain.

L’aspetto più strettamente paleografico-musicale è approfondito invece dallo scrivente, che individua nella notazione della carta ravennate e in quella del frammento piacentino due differenti esiti del processo di ibridazione delle notazioni italiane settentrionali con la notazione detta ‘metense’, una varietà assai diffusa e multiforme, ma originaria della Lorena. La relazione si allarga quindi ad alcune considerazioni circa la diffusione di questo modello grafico nell’Europa tra dodicesimo e tredicesimo secolo. Rispetto alla datazione, si mostra come l’esame paleografico-musicale non consenta di giungere a conclusioni certe, ma offra nondimeno diversi elementi che avvalorano le ipotesi basate sull’esame della scrittura verbale.

Spunti suggestivi provengono dal confronto dello stile melodico dei due brani musicali, che mostra una forte affinità a quello liturgico, in particolare dei tropi nord-italiani e aquitani, ma che sembra anche riflettere alcune caratteristiche proprie di altri repertori, come quello del laudario cortonese. Altrettanto interessante è la forte analogia tra le due melodie dal punto di vista dell’ornamentazione e della distribuzione melismatica.

La relazione di Maria Sofia Lannutti (Poesia cantata, musica scritta alle origini della lirica italiana) chiude il Seminario con un’ampia riflessione che mira ad inserire le due testimonianze nel frammentario quadro della lirica volgare tra dodicesimo e tredicesimo secolo. Dopo aver adeguatamente dimensionato la portata delle due testimonianze rispetto all’annosa questione del ‘divorzio’ tra poesia e musica nella lirica romanza, ed aver ulteriormente chiarito i termini stessi della questione, la Lannutti pone a confronto le strutture formali dei due componimenti con la produzione lirica volgare sia italiana che d’Oltralpe. Da questo punto di vista è interessante la corrispondenza individuata tra la struttura del componimento ravennate, che nell’ipotesi della Lannutti comprende tanto il testo A quanto il testo B di Stussi, con quest’ultimo in funzione di refrain, e un genere metrico tipicamente oitanico (la chanson à refrain). Similmente, la studiosa riscontra forti similitudini tra la struttura metrica del frammento piacentino e quella del genere oitanico della rotrouenge. Dopo un’interpretazione complessiva della canzone ravennate, la relazione giunge infine ad un tentativo di contestualizzazione dei due componimenti nel quadro di una produzione lirica, non necessariamente settentrionale, articolata in due distinti filoni: uno dal carattere semiaulico – nel quale si inserisce la carta ravennate – ed uno più popolareggiante – cui afferisce il frammento piacentino; filoni la cui assenza nelle sillogi che tramandano la poesia italiana del Duecento si deve evidentemente all’opera di selezione dei compilatori.

Gli interventi della Tavola Rotonda e la discussione finale (che ha visto coinvolti anche Pär Larson, Maria Caraci Vela, Furio Brugnolo, Umberto Carpi e Irmgard Lerch) hanno poi ulteriormente allargato la riflessione a problematiche di ampio respiro, toccando punti e avanzando proposte e suggerimenti che qui è impossibile riassumere individualmente. Nel complesso, gli interventi sono stati sostanzialmente concordi nel giudicare che i due documenti, sebbene non modifichino gli assetti storiografici attualmente consolidati, si pongono come preziose testimonianze di un filone profano i cui esiti furono probabilmente secondari rispetto a quelli della tradizione confluita nei canzonieri, ma che ebbe comunque un posto nella cultura volgare italiana del Duecento, i cui confini e il cui peso vale la pena di approfondire ulteriormente.

Logo del seminario

Tracce di una tradizione sommersa: i primi testi lirici italiani tra poesia e musica

Web del Seminario

 Copyright © 2001-04 :: Università  degli  Studi  di  Pavia
 Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologicheFacoltà di Musicologia


Registrazione presso la Cancelleria del Tribunale di Pavia n. 552 del 14 luglio 2000 – ISSN elettronico 1826-9001 | Università degli Studi di Pavia Dipartimento di Musicologia | Pavia University Press

Privacy e cookies