Philomusica on line :: Rivista del Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche

 

Recensione a cura di Vincenzo Borghetti

 

HONEY MECONI, Pierre de la Rue and Musical Life at the Habsburg-Burgundian Court, Oxford, Oxford University Press 2003, XXIII-385 pp.

 

Con il libro di Honey Meconi su Pierre de la Rue, la Oxford University Press torna, a quasi dieci anni dal volume di Rob Wegman su Jacob Obrecht, a proporre nel suo catalogo una monografia su un compositore "oltremontano" vissuto tra Quattro e Cinquecento. Atteso da alcuni anni dalla comunità dei rinascimentalisti, lo studio rappresenta il frutto di una ricerca almeno ventennale da parte dell’autrice, che a de la Rue aveva dedicato già la dissertazione dottorale (Style and Authenticity in the Secular Music of Pierre de la Rue, Ph.D. diss., Harvard University 1986), oltre ad una numerosa schiera di saggi centrati o sull’attività del compositore o su aspetti ad essa collegati. Suddiviso in cinque grandi capitoli (1. Biography; 2. The Grande chapelle and Musical Life at the Habsburg-Burgundian Court; 3. Aspects of the Sacred Music; 4. Aspects of the Secular Music; 5 PatternS of Influence), il libro ambisce a delineare il ritratto per quanto possibile completo e documentato di un compositore di spicco restato finora nell’ombra di alcuni suoi contemporanei (Obrecht e Josquin per esempio), privo ancora, a dispetto della sua importanza, di quello studio accurato e aggiornato capace di restituircene la statura artistica in tutta la sua grandezza.

Nel primo capitolo l’autrice traccia una biografia di de la Rue: alla luce dei documenti disponibili, Meconi passa al setaccio tutte le ipotesi finora formulate circa anno, luogo di nascita e di probabile formazione del compositore. Successivamente, sulla base di puntuali confronti incrociati, arriva a mettere in dubbio l’identificazione di de la Rue con Petrus van der Straten proposta a metà dell’Ottocento da Edmond Vander Straten. Con argomentazioni convincenti, l’autrice dimostra come si tratti di un caso di omonimia accompagnato da una fortuita e ingannevole coincidenza di date e luoghi: de la Rue e van der Straten erano due musicisti distinti, pressappoco coetanei e attivi in ambienti vicini; fu però il solo van der Straten - non de la Rue - a trovare impiego a Bruxelles, Gand, Niewpoort, Colonia, ’s-Hertogenbosch, mentre fu solo de la Rue – non van der Straten – ad entrare al servizio degli Absburgo. Meconi passa quindi a ricostruire la carriera di de la Rue nella cappella di corte absburgo-borgognona dagli anni del suo primo impiego (intorno al 1492) fino a quelli del suo ritiro (nel 1516) e della sua morte (1518). Nel ripercorrere le vicende biografiche e professionali di de la Rue, l’autrice traccia parallelamente una storia della stessa cappella negli anni tra la turbolenta reggenza di Massimiliano I e l’ascesa al trono di Carlo V, periodo in cui prestarono servizio alcuni dei musicisti più significativi dell’epoca quali Gaspar van Weerbeke, Alexander Agricola, Marbriano de Orto, Anthonius Divitis.

Dell’organizzazione interna della cappella ducale negli anni dell’impiego di de la Rue si occupa il secondo capitolo. Meconi analizza qui in dettaglio la struttura dell’istituzione, la politica dei benefici, le carriere dei cantori e il repertorio in essa circolante, in modo da ricavare elementi utili a circostanziare il più possibile sia il ruolo del compositore nella cappella sia i suoi legami con la corte. Rispetto agli studi precedenti Meconi disegna uno scenario per molti versi sorprendente. Contrariamente a quanto finora creduto, l’autrice rivela come non sia dimostrabile attraverso gli atti amministrativi una spiccata predilezione degli Absburgo nei confronti di de la Rue: sebbene i manoscritti prodotti nell’atelier di corte sotto la supervisione di Petrus Alamire fossero in larghissima parte destinati ad accogliere sue composizioni, de la Rue non raggiunse mai il vertice della cappella, né fu mai favorito in modo evidente dalla corte per l’acquisto di prebende e benefici particolarmente remunerativi. Ad onta della presenza di altri musicisti di spicco tra i suoi colleghi, de la Rue fu, sostiene Meconi, l’unico membro della cappella di corte ad essere attivo anche come compositore negli anni in cui era in servizio, uno dei fattori decisivi, secondo l’autrice, per spiegare il favore accordato alle sue opere nei codici di Alamire a fronte di un così scarso – stando ai documenti – supporto della Casa d’Austria alla sua carriera.

All’opera di de la Rue, all’influenza su di essa di predecessori e contemporanei autorevoli, e alla sua fortuna nella teoria, nella letteratura e nella storia della musica è dedicata l’intera seconda parte del libro. Nei capitoli terzo e quarto, infatti, Meconi passa in rassegna la produzione sacra e quella profana, delle quali cerca di stabilire sia una possibile cronologia delle opere – problema tipico delle messe – sia la paternità di lavori con attribuzioni conflittuali – una caratteristica della musica profana - facendo reagire insieme elementi codicologici, tecnico-compositivi e stilistici. Il capitolo conclusivo riflette invece sull’opera del compositore nel suo insieme, esaminandone per esempio il rapporto col passato e col presente di una tradizione compositiva prestigiosa (i casi di Ockeghem e di Josquin, entrambi collegati in qualche modo con l’attività di le Rue), la diffusione, le citazioni nella teoria musicale e nella letteratura, e, per finire, la crescente fortuna critica dagli albori della musicologia ai giorni nostri. Chiudono il volume una corposa appendice (comprendente cronologie degli avvenimenti, delle fonti, tutti i passi teorici e letterari in cui de la Rue è menzionato, il catalogo delle opere), la bibliografia e una serie di utilissimi indici (dei manoscritti e delle stampe, delle composizioni di de la Rue, e generale).

Come già l’indice rivela, per ricostruire la figura di Pierre de la Rue Meconi adotta un modello di narrazione suddiviso in "vita e opere", secondo una consuetudine consolidata e autorevole ma non necessariamente scontata per un musicista franco-fiammingo del Quattro- Cinquecento. Per quanto radicata nel senso comune, l’idea che la biografia sia indispensabile per la comprensione dell’opera è una convinzione da decenni al centro di importanti dibattiti in seno alla storiografia musicale, dibattiti che hanno reso il Life and Works un genere, se non impraticabile, quanto meno problematico nella più recente storia della musica. Riconoscere le radici storiche e culturali di tale modello storiografico da una parte ha reso consapevoli delle difficoltà insite nel suo utilizzo quale strumento di approccio valido per tutte le epoche e per tutti i compositori, mentre dall’altra ha costretto chi comunque se ne serviva ad interrogarsi sui rischi e sui vantaggi dell’operazione che stava compiendo. In nessun caso, quindi, la "biografia monumentale" può esser oggi imposta come impresa ovvia, tanto meno per la ricostruzione di quelle figure vissute in epoche del passato in cui sia la definizione dell’individuo, sia la funzione dell’individuo nei confronti della propria opera erano ancora lontane da quei paradigmi ottocenteschi su cui questo genere storiografico si è formato.

La maggiore perplessità emerge non tanto dalla scelta di applicare al XV secolo il modello Life and Works, quanto dal farlo presupponendo che questo sia un meta-modello del fare storia della musica, sulla cui validità di esportazione nel Rinascimento non valga neppure la pena di discutere. L’autrice infatti dipana il frutto delle sue ricerche passando dalle vicende biografiche all’analisi delle composizioni nella convinzione che sia il lettore da solo a dovere, e potere, supplire quel legame di consequenzialità e, di più, di necessità tra opera e biografia, divenuto invece ormai così problematico da esplicitare. È però proprio questa tacita fiducia a creare problemi. Infatti, se la sete di romanzo, storicamente alla base di questo tipo di approccio, può essere non pienamente soddisfatta dalla vita di de la Rue, questa vita, come qualsiasi esistenza umana, possiede comunque una interna motivazione narrativa. Tuttavia tale interna motivazione diviene molto labile nella ricostruzione della cronologia delle opere fondata sull’analisi, poiché l’idea stessa di ‘progresso’ alla base di una narrazione biografica (magari secondo la classica tripartizione in fase giovanile, maturità, fase tarda) si lascia applicare al repertorio della messa e della chanson polifoniche quattro- cinquecentesche solo in modo molto mediato. Meconi invece preferisce non interrogarsi su come sia possibile integrare biografia ed analisi e, fiduciosa in un loro ‘evidente’ vincolo naturale, rinuncia a trovare nella sezione dedicata alle opere una giustificazione ‘forte’, capace di agganciarle agli ingranaggi di quella vita che dovrebbe essere, invece, secondo i presupposti teorici e culturali del genere-biografia, la loro ragione d’essere. In tal modo è lo stesso modello storiografico, applicato con gli occhi chiusi, per così dire, a nuocere in maggior misura alla monografia su de la Rue: il lettore si trova infatti a fare i conti con le realtà eccentriche e tra loro non reciprocamente vincolanti di un’esistenza ‘orientata’, auto-giustificata, e una situazione dell’opera visibilmente indolente nei confronti di una simile organizzazione del materiale.

Il Pierre de la Rue di Meconi non è certo un esperimento isolato nel panorama degli studi sulla musica del Rinascimento. Come ricordato in apertura, esso è stato preceduto da un altro tentativo di rispolverare la biografia monumentale per un compositore franco-fiammingo del Quattrocento: il libro di Rob Wegman su Jacob Obrecht (Born for the Muses: The Life and the Masses of Jacob Obrecht, Oxford, Clarendon Press 1994). Qui l’autore, contrariamente a Meconi, aveva cercato di riflettere in via preliminare su come – ma anche grazie a quali compromessi – fosse possibile motivare all’interno di una narrazione biografica un’analisi che deve tenere conto di istanze di cambiamento lontane dai modelli sette- ottocenteschi (per esempio attraverso l’uso rigorosamente cosciente e controllato dell’alternanza di angolazione prospettica nell’approccio al repertorio, considerato sia dall’interno, sia inserito in più ampie tendenze di trasformazione osservabili solo dal nostro punto di vista). Nonostante le difficoltà rimaste comunque irrisolte nell’uso del modello biografico ‘romantico’ per l’epoca in questione, anzi forse proprio a causa di queste, l’Obrecht di Wegman poteva rappresentare un utile termine di confronto per Meconi, che, però, rinunciando a qualsiasi discorso preventivo sul metodo, evita di fatto la parte davvero spinosa del suo lavoro su Pierre de la Rue.

A parte queste perplessità di ordine generale, Pierre de la Rue and Musical Life at the Habsburg-Burgundian Court risponde sicuramente ad esigenze sempre attuali nella musicologia rinascimentalista, poiché arriva a riempire un vuoto nell’ideale casellario dei più importanti compositori vissuti tra Quattro e Cinquecento. Il libro di Meconi sarà quindi un punto di passaggio obbligato per chiunque vorrà accostarsi a de la Rue o conoscere i documenti della cappella di corte absburgo-borgognona nell’epoca cruciale tra Massimiliano I e suo nipote Carlo V. Uno dei maggiori pregi di questa monografia è di ritornare, alla luce di un puntiglioso studio documentario, su una serie di questioni poco chiare sia nella biografia di de la Rue tout-court, sia in quella di alcuni suoi contemporanei e colleghi nella cappella ducale, sia nella storia e nell’organizzazione interna di questa istituzione.

Però qualche dubbio rimane. Nel voler inquadrare de la Rue nel suo immediato contesto, Meconi pone grande enfasi sui meccanismi di funzionamento di una cappella musicale così come sono oggi recuperabili dagli atti amministrativi, ma, a dispetto del sottotitolo del libro (Musical Life at the Habsburg-Burgundian Court), tutta quest’implacabile acribia documentaria lascia in ombra proprio quella vita musicale della corte absburgica la cui ricostruzione non può esaurirsi nel rileggere correttamente i dati archivistici. De la Rue fu forse uno dei dominatori della vita musicale di corte negli anni tra il 1500 e la sua morte, come testimoniano sia gli splendidi codici di Alamire destinati ad accogliere quasi esclusivamente sue composizioni e ad essere diffusi presso tutti i potentati d’Europa, sia il gradimento manifestatogli dai suoi committenti – come Margherita d’Austria, che gli lasciava intonare i suoi versi. Tuttavia di questa sua posizione singolare, se non di eccellenza, nei documenti non c’è traccia, anzi, essi ci restituiscono l’immagine di un de la Rue eterno secondo nei ranghi della sua istituzione, sorprendentemente scavalcato nell’avanzamento di carriera da musicisti di cui i manoscritti di corte quasi non conservano memoria. Meconi però non prova ad andare al di là della registrazione del dato e non cerca di mettere a frutto in modo decisivo questo contrasto tra fonti d’archivio e fonti musicali per tentare di tracciare, in tutta la sua complessità extra-documentaria, il ritratto di un compositore sullo sfondo della vita di una corte rinascimentale. E in tal modo resta nel lettore la sensazione di trovarsi di fronte ad un quadro incompleto e frammentario, dove il fiducioso pragmatismo di molti tentativi di spiegazione dei fenomeni (si pensi alla più volte citata presenza massiccia di de la Rue nei codici di Alamire) non riescono a stornare l’impressione che tutto questo lavoro intorno a de la Rue sia in fondo solo un ottimo lavoro preliminare per un Pierre de la Rue and Musical Life at the Habsburg-Burgundian Court ancora da scrivere.

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