Philomusica on line :: Rivista del Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche

 

Marta Gianotti

 

Il piffero delle Quattro Province nel repertorio attuale: l'esperienza di Stefano Valla

 

La zona appenninica delle Quattro Province (Pavia, Piacenza, Genova, Alessandria) (Immagine 1) ospita un repertorio di musiche e danze tradizionali attualmente eseguite dal piffero e dalla fisarmonica; tale repertorio, come tutti i repertori di musica tradizionale, deve il suo mantenimento e la sua conservazione alla trasmissione orale del sapere.

Gli argomenti che proporrò di seguito sono frutto di ricerche sul campo da me effettuate durante l’anno 2002-2003 a Cegni (PV) e nei territori limitrofi e sono rielaborazioni delle preziose testimonianze di Stefano Valla, musicista di tradizione e suonatore di piffero nella zona delle Quattro Province.[1]

Brevi note introduttive sugli strumenti musicali

Il piffero è un aerofono ad ancia doppia munito di 7 fori e intonato su una scala di Sol maggiore non temperata. Lo strumento è divisibile in 3 parti:

1. musotto (ancia doppia montata sul supporto di legno detto "bocchetta")

2. corpo in legno

3. campana (Immagine 2)

I legni maggiormente utilizzati sono il bosso e l’ebano e data la loro diversa consistenza materica producono 2 timbri leggermente differenti tra loro; l’analisi di tali timbri è stata verificata da me con lo studio di spettrogrammi sonori di una stessa nota (Sol3) e di uno stesso brano eseguito da Stefano Valla[2] il quale ha utilizzato la medesima ancia. L’ancia, infatti, è molto importante poiché è la parte dello strumento che dà origine al suono; i suonatori di questo repertorio preferiscono costruirsi personalmente le ance in modo tale da poterne adattare forma, dimensioni e consistenza alle proprie esigenze.

In un’intervista effettuata a Cegni,[3] Stefano Valla mi ha mostrato passo per passo la sua tecnica di costruzione delle ance evidenziando i passaggi di particolare importanza e quelli maggiormente delicati (per esempio, l’inserimento di un osso tra le due lamelle della canna non ancora formata, per creare il foro necessario all’innesto dell’ancia sulla bocchetta di legno) (Immagini 3 e  4).

Dall’inizio del XX secolo lo strumento "accompagnatore" del piffero è la fisarmonica; fino a tale data, però, il sostegno armonico al piffero era affidato alla cornamusa che con i suoi bordoni garantiva un appoggio sonoro adeguato per i balli di tradizione popolare eseguiti nel territorio delle Quattro Province (si veda di seguito).

Il passaggio dalla cornamusa alla fisarmonica e il conseguente cambiamento sonoro che ne risultò,[4] contribuirono a dar vita ad un repertorio di danze più recente, i cosiddetti "balli da liscio" (si veda di seguito).

Repertorio da piffero e fisarmonica

1. I balli

Una parte consistente del repertorio da piffero e fisarmonica comprende un corpus di danze tradizionali come Monferrine, Alessandrine, Gighe e un corpus di danze più recenti denominate balli "lisci" come Valzer, Polche, Mazurche. I primi sono balli di gruppo con una coreutica precisa che tuttavia presenta alcune varianti in base al paese in cui viene eseguita;[5] i secondi, invece, sono i più noti balli di coppia.

Tali danze vengono effettuate in diversi contesti tradizionali: durante feste di paese o dei coscritti, o durante feste rituali come matrimoni e carnevali.

2. Occasioni rituali

a. Matrimonio

Nelle Quattro Province esiste un corpus di canti attestati che risalgono ad un periodo molto antico; dal 1854 al 1888, Costantino Nigra[6] fece una ricerca sul territorio piemontese con lo scopo di rilevare i canti conosciuti fino a quel momento dalla popolazione locale. Egli intitolò la sua raccolta "Canti popolari del Piemonte" e la indicizzò inventando una serie di titoli convenzionali adatti per ogni argomento trattato nei canti raccolti.[7]

Il rituale del matrimonio nelle Quattro Province[8] prevede una prima parte, denominata "Levar della sposa" in cui i due suonatori di piffero e fisarmonica attendono la sposa fuori dalla sua casa paterna e intonano i canti appartenenti al titolo convenzionale la Sposa per forza (Nigra, 37); tali canti invitano la sposa a lasciare la casa in cui è cresciuta e i "vizi"[9] della madre per andare in casa del marito (e della suocera!). La Sposa per forza narra quindi di ragazze obbligate a maritarsi contro la loro volontà; si tratta dei tanto rinomati "matrimoni di interesse" di un tempo.

Dopo aver "chiamato" la sposa fuori da casa i due suonatori accompagnano il corteo verso la chiesa dove li attende un altro gruppo di persone.

Dopo la cerimonia nuziale i suonatori accolgono gli sposi con musiche del repertorio (sia strumentali che vocali) e con il corteo di invitati si prosegue verso il pranzo di nozze. Il pranzo viene intervallato da musiche dedicate agli sposi e momenti di ballo (sia balli antichi che balli lisci di coppia). Al termine del pranzo viene suonato il cosiddetto "Levar di tavola", brano strumentale lungo circa 9 minuti che ha un’importanza rituale molto forte nel repertorio delle Quattro Province.

Al termine del pranzo è consuetudine proseguire con la festa da ballo che dura in genere fino a tarda notte; è in questa occasione che vengono eseguiti i balli del repertorio da piffero e fisarmonica alternando i più antichi con quelli più recenti.

b. Carnevale

Il Carnevale possiede una valenza rituale molto forte nel repertorio delle Quattro Province.[10]

Il Carnevale è considerato una parodia del matrimonio e possiede connotazioni più profonde riguardanti il rito della fertilità accompagnata alla morte metaforica dell’inverno e alla nascita della primavera; il Carnevale è, di norma, un momento in cui il sovvertimento delle regole e l’idea di trasgressione sono molto forti. La vicinanza temporale con la Quaresima, che impedisce l’esercizio dell’attività dei suonatori e la conseguente sospensione delle danze popolari, rende più significativo ed evidente il contrasto tra i due momenti rituali valorizzando, quindi, i significati simbolici che il Carnevale porta in sé.

L’idea di morte e resurrezione e il sovvertimento delle regole stanno alla base anche della manifestazione del Carnevale di Cegni dove il ballo della Povera Donna è il simbolo allegorico centrale. Tale ballo ha preso il suo nome da una donna alla quale hanno ammazzato il marito, secondo l’interpretazione maggiormente diffusa a Cegni.[11]

Le maschere fisse che partecipano al rituale sono il Brutto e la Moglie (o Povera Donna da cui prende il nome il ballo finale), i Genitori della sposa (o dello sposo, a seconda dei casi) e gli Arlecchini che sono maschere molto colorate tipiche del rito carnevalesco.

Nella fase iniziale del rituale il Carnevale si presenta come una parodia del rito del matrimonio, con i due suonatori che attendono la coppia di "sposi" (il Brutto e la Moglie) fuori dalla loro casa e dedicano loro, talvolta, qualche canto rituale del filone della Sposa per forza (si veda sopra).

Il rito, poi, prosegue con un percorso per le vie di paese di tutto il corteo dei partecipanti e i suonatori in testa che suonano Sestrine (o Marce da strada, musiche strumentali di accompagnamento agli spostamenti del corteo); il percorso ogni tanto viene interrotto da soste nei cortili delle case dove vengono eseguiti dei balli tradizionali in accompagnamento a cibi e bevande offerti dai padroni di casa. Al termine del percorso, il corteo, le maschere e i suonatori si riuniscono in un piazzale dove viene eseguito il ballo della Povera Donna. Tale ballo ha un’importanza fondamentale nel rito del Carnevale poiché costituisce il momento allegorico più evidente; viene danzato esclusivamente dal Brutto e dalla Moglie e per questo può essere descritto come un ballo "di corteggiamento".

Tuttavia, si può asserire che questo ballo presenta anche un’allegoria della morte e della resurrezione: musicalmente e coreuticamente è diviso in tre sezioni (ABA) che, nella versione del Carnevale di Cegni del 2003, vengono ripetute 2 volte.[12] Nella prima e terza parte la musica è ritmata e veloce e sostiene un ballo basato sui passi di un’Alessandrina in cui i due ballerini si avvicinano e allontanano in un gioco di corteggiamento; la parte centrale crea, sia musicalmente che coreuticamente, un contrasto molto forte espresso dalla linea melodica del piffero, molto lenta, e da accordi tenuti della fisarmonica. È in questa fase che avviene il contatto, espresso da un abbraccio in posizione seduta, tra uomo e "donna" come apoteosi del corteggiamento e come metafora della fertilità della primavera, in contrasto all’inverno. Questo momento rappresenta anche il simbolo della morte (del marito o del figlio della Povera Donna) e assume, quindi, anche un connotato religioso; questa fase è seguita da una metaforica resurrezione espressa dalla ripresa del primo tema veloce e ritmato e dai passi di danza dell’Alessandrina.

Secondo i diffusissimi canoni di travestimento e sovvertimento dei ruoli tipici carnevaleschi, nel Carnevale di Cegni la sovversione dei valori viene espressa nella "mascherata" in cui sia la Moglie che la Madre della sposa sono uomini travestiti da donna. A proposito dell’idea di evasione dalla realtà espressa dal palese sovvertimento delle regole, «il ballo della Povera Donna rimanda […] alla contemplazione collettiva della "malattia" dell’individuo momentaneamente sottratto alla normalità sociale, alla salute o salvezza decretata dalla norma».[13]

Una variante del Carnevale tradizionale è il cosiddetto Carnevale Bianco che viene eseguito il 16 agosto di ogni anno a Cegni; durante il Carnevale Bianco non viene effettuato il percorso di paese, ma viene solo presentato al pubblico il ballo della Povera Donna accompagnato da una festa di balli tradizionali. Il Carnevale Bianco è la variante estiva del carnevale tradizionale invernale; è una tipologia nata nei primi anni ’70 del secolo scorso per iniziativa di un’Associazione del luogo che voleva "trasportare" in estate il rituale dell’inverno per poter mostrare ad un pubblico di turisti in cosa consiste il Carnevale di Cegni e soprattutto il ballo centrale della Povera Donna.

Stile del piffero

Il repertorio del piffero delle Quattro Province, oltre a presentare un vasto numero di brani cantati e ballati, differenti tra loro per struttura, melodia e funzione sociale, possiede una costante che vede nel particolare e caratteristico stile del piffero la sua colonna portante.

Per "stile del piffero" intendo l’insieme e la combinazione di varianti timbriche e abbellimenti utilizzati per dare allo strumento maggiore espressività e «umanità».[14]

Senza gli abbellimenti, il suono del piffero sarebbe privato di un tratto distintivo fondamentale per il suo timbro particolare; gli abbellimenti si distinguono sia a livello sonoro sia, di conseguenza, per la diversa tecnica di esecuzione. Per cercare di approfondire lo studio timbrico di tali abbellimenti e varianti timbriche ho ritenuto utile analizzarli con spettrogrammi sonori di cui riporterò qualche esempio.

Abbellimenti

Un metodo molto efficace per produrre abbellimenti sulla linea melodica principale sono i cosiddetti "colpi di lingua" che, a seconda che si effettui un movimento in verticale, orizzontale o misto, dànno origine a suoni ribattuti più o meno staccati.

Il mordente e l’acciaccatura sono abbellimenti molto utilizzati nel repertorio da piffero anche se la peculiarità che crea una leggera differenza con la musica "colta" è l’intonazione alle volte poco percepibile della nota o delle note brevi dell’abbellimento. Il motivo di ciò è da cercare nella rapida esecuzione di tali note che è causa di una «non perfetta coincidenza tra il colpo di lingua e il movimento delle dita»;[15] con ogni probabilità, un’altra motivazione di questo fenomeno è da ricercare nel fatto che il piffero ha una scala non temperata e tale caratteristica viene esaltata nel momento in cui le note sono eseguite in modo rapido, con un ritmo molto veloce.

Varianti timbriche

Oltre agli abbellimenti, per rendere "personale" e "umano" il timbro del piffero, i suonatori ricorrono alle varianti timbriche le cui esecuzioni si manifestano su diversi livelli di tecnica attraverso l’uso discriminato dell’emissione di fiato. A questo livello si può differenziare il cosiddetto suono mangiato o masticato caratterizzato da un timbro che, se associato alla voce, può dare come risultato sonoro sillabe come vèm o vàm. In sostanza il cosiddetto suono masticato può sembrare il prodotto, appunto, di una "masticazione"; riporto, di seguito, la testimonianza diretta di Stefano Valla:

…le note acute devono fare "ti", mentre nella mano bassa, la nota non deve fare "ta", ma "dèm" (o "vèm), che è poi il cosiddetto suono masticato.[16]

Dallo spettrogramma allegato (Immagine 5) si può notare come questa tipologia timbrica sia caratterizzata da un andamento "morbido" e "ondulato" senza pause di silenzio né stacchi netti; il suono, a tratti, è contraddistinto da una presenza maggiore e netta di armonici inferiori (colore grigio scuro), probabilmente generati dall’emissione del fiato attraverso un particolare movimento della mandibola. Tale movimento dà origine a dei brevi suoni vibrati che producono l’effetto di un timbro "masticato".

Attraverso l’emissione di fiato si può ottenere anche il vibrato prodotto dal diaframma, contraddistinto da un suono vibrato in modo lento e distribuito su note lunghe e tenute, caratteristica che lo differenzia dal mangiato che, in genere, viene praticato sulle note di breve durata.

Un’altra tipologia di "variante timbrica" consiste nel timbro drammatico, secondo un termine coniato da Stefano Buscaglia[17] in riferimento ad un particolare timbro di Ernesto Sala, suonatore di piffero di Cegni.[18] Per "timbro o suono drammatico" si intende la ricerca di suoni non temperati che, attraverso abbellimenti non codificati dall’esecuzione molto veloce intorno alla nota principale, producono l’effetto di un suono volontariamente "sporcato".

Caratteristica del piffero, come di altri strumenti a fiato, è anche la possibilità di creare, su una stessa nota, un timbro più "aperto" o "chiaro" e uno più "chiuso" o "scuro". Ciò avviene tramite la diteggiatura, ovvero l’apertura dei fori o la chiusura degli stessi e si può effettuare sulle note re, mi, fa, sol, e la. Anche queste diverse possibilità timbriche vengono scelte in base al gusto del suonatore, a ciò che il brano in quel momento richiede e, soprattutto, alla praticità e alla comodità di esecuzione. Per esempio, se la nota da suonare è un mi inserito in un abbellimento, quindi da eseguire velocemente, sarà controindicato suonare il timbro chiuso poiché comporta la chiusura di più fori e di conseguenza un tempo maggiore nell’esecuzione. Se, invece, la nota da suonare è di lunga durata, allora sarà possibile e più agevole effettuare la chiusura di più fori. La differenza timbrica che ne deriva è evidente e rappresenta un’ulteriore possibilità di rendere "personale" e "individuale" il suono del piffero.

L’utilizzo di queste tecniche durante l’esecuzione del repertorio non è mai fisso ma costituisce un potente mezzo a disposizione del suonatore di musica tradizionale per personalizzare ciò che suona; il repertorio di piffero e fisarmonica (come ogni repertorio di musica popolare) si fonda su un insegnamento orale non basato su tecniche scritte e questo permette di effettuare combinazioni variabili ed estemporanee di abbellimenti e varianti timbriche che rendono sempre diversa ogni esecuzione (sia di un singolo suonatore sia tra diversi suonatori).

Lo studio dei numerosi abbellimenti e delle varianti timbriche per il suonatore di piffero è un argomento vasto e denso di significato. Ogni suono, infatti, dal più evidente al meno percettibile, possiede un’importanza il cui valore può essere esaltato solo nel momento in cui il suonatore possiede la piena consapevolezza di ogni suono da lui prodotto. In questo modo potrà raggiungere la massima espressività e ottenere lo scopo di «far vivere l’anima del piffero».[19]

Trasmissione orale e Didattica

Il repertorio da piffero e fisarmonica, per mantenersi vivo nel corso degli anni, deve necessariamente fare affidamento alla trasmissione orale e alla didattica che permettono di tramandare, oltre alle musiche del repertorio, anche le tecniche necessarie per l’esecuzione.

In passato, in una realtà più povera rispetto ai giorni attuali, lo studio del piffero implicava l’acquisto dello strumento, fattore di non poca rilevanza sul piano dell’apprendimento personale e di non poco peso economico, e il pagamento delle lezioni private. Per questi motivi imparare la tecnica del piffero e il suo repertorio dal punto di vista musicale non era cosa accessibile a tutti. Infatti, solitamente il sapere veniva tramandato da padre a figlio o da nonno a nipote. Come spiegano Citelli e Grasso,[20] i vantaggi che si ricavavano dall’apprendere la tecnica di tale strumento in famiglia erano molti: in primo luogo si aveva la possibilità di esercitarsi sullo strumento del padre, il quale, oltre allo strumento in sé, forniva anche lezioni private e gratuite, in secondo luogo c’era la prospettiva di sostituire il padre qualora questi avesse abbandonato l’attività di suonatore,e in questo modo il guadagno rimaneva assicurato alla famiglia. Molti aspetti sociologici della vita attuale sono cambiati: prima di tutto in questi ultimi anni si è assistito ad un arricchimento generale della popolazione e ciò ha fatto decadere il motivo primario per cui un uomo era incentivato ad imparare il mestiere, ovvero la povertà. Oggi, chi impara a suonare il piffero è spinto da scelte artistiche e non da problematiche economiche; quindi anche l’apprendimento si presume venga svolto in modo attivo da parte del principiante senza essere dettato da altri tipi di esigenze se non quelle di affermazione della propria personalità.

Un’altra conseguenza di questo cambiamento delle condizioni sociali si può riscontrare nel fatto che oggi, a differenza degli anni passati, si assiste ad un atteggiamento più generoso da parte degli insegnanti di piffero i quali si prefiggono lo scopo di tramandare un repertorio, senza temere la concorrenza. Infatti in passato il repertorio da piffero si imparava direttamente dalle occasioni in funzione, in quanto il suonatore stesso, se da una parte trovava soddisfazione nell’insegnare il suo sapere, dall’altra era geloso di tutta la fatica fatta a propria volta per imparare il repertorio, temendo che il suo allievo diventasse più abile e lo sostituisse nel mestiere, privandolo di una fonte di sostentamento economico.

Per questo, al giorno d’oggi l’approccio all’apprendimento della tecnica e del repertorio del piffero assume una valenza differente rispetto al passato. L’apprendimento di un repertorio orale comporta una grande capacità, da parte del principiante, di memorizzare linee melodiche, tecniche e aneddoti che non trovano riscontro in fonti scritte; l’ascolto attento è condizione basilare per poter dapprima comprendere, successivamente apprendere e di conseguenza tramandare il repertorio.

Per meglio esemplificare la didattica odierna, basata sulla trasmissione orale del sapere e quindi soggetta a variazioni da insegnante a insegnante, è opportuno descrivere il metodo didattico di Stefano Valla.

Stefano Valla ha appreso la tecnica e il repertorio del piffero da Ernesto Sala, suonatore di piffero e da Andrea "Taramla" Domenichetti, suonatore di fisarmonica. Soprattutto quest’ultimo, però, ha svolto un ruolo fondamentale non solo per quello che riguardava la trasmissione del repertorio e delle melodie, ma anche dei modi di vivere della sua epoca e del contesto in cui tale musica veniva suonata. Questo particolare rapporto ha implicato alcune conseguenze sul piano dell’apprendimento e della comprensione: prima di tutto non vi erano ore fisse in cui il giovane Stefano andava a casa di Domenichetti a imparare a suonare il piffero, bensì capitava che si incontrassero a casa di "Taramla" nel pomeriggio e restassero insieme anche fino a notte inoltrata. Durante il tempo passato a contatto con l’insegnante, Valla non ha imparato esclusivamente a suonare il piffero, ma attraverso «un passaggio continuo, costante, quotidiano, intimo»[21] con chi trasmette il sapere musicale «passavano il contesto, i racconti di modi di vivere, di situazioni di vita e di stile» in cui «l’interpretazione, la memoria e la melodia coincidono».[22] Questa testimonianza è la conferma del fatto che la trasmissione orale del sapere musicale non era solo un fatto esclusivamente musicale, ma anche un insegnamento di storie e di aneddoti.

A questo proposito mi sembra indicativa una frase detta da Andrea Domenichetti e riportata testualmente da Valla:

La musica non scritta è musica cervellotica che morde direttamente sulla fase.[23]

Questa testimonianza dimostra come la musica di trasmissione orale, ed in questo specifico caso, la musica da piffero, sia cervellotica in quanto deve tutta la sua trasmissione alla memoria individuale e collettiva, e «morda direttamente sulla fase», poiché si riempie di significato ogni volta che è eseguita, senza tuttavia presentarsi mai uguale nel momento in cui viene suonata in funzione.

Didattica di Stefano Valla

Stefano Valla, oltre ad essere un suonatore di piffero molto attivo nella zona delle Quattro Province e all’estero, dedica parte della sua vita a insegnare le musiche, le tecniche e gli aneddoti legati alla storia del piffero a persone di diversa età e provenienza, interessate a tali argomenti. Nella didattica, Valla segue sia norme che egli stesso ha appreso dai suoi maestri, sia alcune fasi, frutto dell’esperienza personale, che ritiene indispensabili per l’apprendimento e per la comprensione del repertorio. Tali fasi, però, non sono da considerarsi staccate l’una dall’altra e perfettamente consequenziali, ma tutte strettamente legate e, alle volte, addirittura contemporanee.

Va precisato che, durante queste fasi di apprendimento, Valla insegna ai suoi allievi come costruirsi le ance. Questo momento, che anche in passato rivestiva un ruolo di grande importanza, secondo Valla è indispensabile per la completezza di un suonatore da piffero, in quanto ogni tipologia di ancia deve rispondere alle esigenze individuali di ogni suonatore e il fatto di non essere in grado di costruirsele costituisce un limite alla propria potenzialità sonoro-espressiva.

L’approccio al piffero e al suo timbro richiesto da Valla ai suoi allievi consiste nell’ascolto sia di registrazioni passate del repertorio da piffero, sia delle occasioni in funzione che si attuano durante l’anno. Dopo tale operazione di introduzione e di conoscenza del repertorio, il passo successivo prevede l’utilizzo del flauto dolce che, in questa fase iniziale,[24] come d’altronde era prassi fare anche in passato, è utile poiché l’insufflazione dell’aria in uno strumento privo d’ancia risulta più semplice.

A questo punto subentra la fase imitativa, caratterizzata proprio dall’imitazione dei "gesti" e del suono del maestro; in questa fase, infatti, si apprendono la diteggiatura e alcuni brevi incisi melodici.

Da questo momento l’allievo è musicalmente pronto per utilizzare il piffero e affrontare la difficoltà dell’ancia. In questa sede, o fase dell’emissione del fiato, l’allievo impara ad emettere note lunghe per abituarsi a usare l’ancia imparando, così, a utilizzare il suo potenziale d’aria per finalizzarlo alle proprie esigenze e capacità.

Una volta acquisite queste conoscenze "tecniche" indispensabili per emettere un suono chiaro e pulito, l’insegnante invita l’allievo ad apprendere le melodie a memoria. Ciò avviene secondo una pratica imitativa in cui l’insegnante suona un brano musicale suddividendolo in brevi frasi melodiche che l’allievo riproduce.

Dopo che l’allievo ha appreso a memoria una melodia, Valla la analizza dandole un senso, trovando, per esempio incisi melodici di domanda e risposta, in modo tale che l’allievo non suoni mettendo freddamente note in fila, bensì dia un senso musicale alla melodia.

A questo punto dell’insegnamento l’attenzione di Valla si incentra sul rapporto con la fisarmonica; tale relazione sonora è indispensabile ai fini di una buona riuscita dell’esecuzione poiché l’affiatamento musicale tra i due suonatori determina una base solida per il popolo che partecipa attivamente alle occasioni in funzione (per esempio, i ballerini, durante la danza, attendono precisi segnali musicali dai due suonatori per poter effettuare determinati movimenti). Il suonatore di piffero, per essere completo, deve conoscere la ritmica della fisarmonica per poi essere in grado di creare una comunicazione sonora efficace con il suo compagno.

Il tempo che richiede tale insegnamento non ha durate determinate, bensì varia in base alla capacità e alla velocità di apprendimento di un allievo; Valla sostiene che si può arrivare ad imparare la tecnica e il repertorio del piffero in almeno 5-6 anni, se l’allievo è abile e ha voglia di apprendere, ma si potrebbe anche non impararlo mai in modo completo.

Stefano Valla, come il suo maestro Andrea "Taramla" Domenichetti, non effettua una sola ora di lezione ad orari fissi, bensì sostiene che per far apprendere questo tipo di repertorio, con i suoi vissuti e le sue tradizioni, sia necessario un rapporto più spontaneo tra maestro e allievo; in questa maniera, le ore di lezione diventano, solitamente, anche 4 o 5 consecutive. Questo modo di trasmettere il repertorio è perfettamente coerente con l’idea di Valla che «dietro il suonatore esiste la vita, il suo quotidiano»[25] e in quanto tale, è condicio sine qua non per apprendere il repertorio in tutte le sue sfaccettature.

Il debutto dell’allievo avviene durante l’apprendimento, in un momento che non si può decidere a priori poiché dipende dalla bravura e dall’emotività dello stesso.

Secondo Valla, il problema dell’affrontare il pubblico è una questione che non va sottovalutata in quanto è il primo momento in cui il principiante mostra non solo la sua abilità tecnica, ma anche il suo vissuto e la sua emotività. Pur essendo consapevole che il confronto con il pubblico è una questione personale, Valla ritiene che, comunque, il debuttante vada aiutato a vincere la paura; per mettere in atto ciò, si approfitta di un’occasione di festa in cui il debuttante suona un solo brano, sostenuto dal fisarmonicista del suo maestro. L’idea di Valla è quella di un approccio al pubblico lento e graduale, senza strappi che potrebbero limitare le potenzialità dell’allievo. Così, man mano che il principiante acquisisce sicurezza, verranno aumentati anche i suoi interventi sonori, inizialmente sempre all’interno di feste in cui il suo maestro è il suonatore principale; poi, quando sarà pronto e con più capacità di controllo sulle proprie emozioni, potrà sostenere un’occasione in funzione completa senza più alcun tipo di sostegno.

Con ciò, Valla è consapevole del fatto di non potersi sostituire all’allievo, bensì sostiene che il «superamento del vetro tra il suonatore e il pubblico è un fatto personale che non si può insegnare»;[26] in sostanza, il maestro può solo arrivare a rendere consapevole l’allievo del "problema" fornendogli più mezzi possibili per superarlo.

Durante il Carnevale di Cegni del 1 marzo 2003, oltre a Valla hanno suonato anche due suoi giovani allievi, che si sono alternati al loro maestro suonando il repertorio dei balli da piffero.

La tradizione e il contesto sociale

Ogni suonatore di musica tradizionale opera in un contesto sociale molto particolare: il suo contatto diretto con la popolazione del luogo, la sua partecipazione alla maggior parte delle feste di paese o ai riti annuali, lo rendono una figura di riferimento indispensabile per il mantenimento di quella determinata tradizione.

Ma cosa si intende per tradizione? Hobsbawm[27] sostiene che il concetto di tradizione è collegato con l’idea di passato e distingue la tradizione inventata da quella autentica sostenendo che la prima sottintende un rapporto discontinuo e fittizio con il passato. L’affermazione di una tradizione inventata avviene attraverso la ripetitività degli elementi simbolici caratteristici di quella determinata cultura con il rischio che l’idea di un cambiamento o di un’innovazione all’interno della tradizione siano visti come fattori-limite per la preservazione del sapere.

Hobsbawm afferma che una tradizione inventata si distingue da una autentica poiché la prima si prefigge lo scopo di recuperare il materiale andato perso e, quindi, denota una rottura con il passato; la seconda, invece, cerca di adattare al presente un passato ancora vivo senza, quindi, la necessità di inventare nulla che vada a sostituire qualcosa di mancante.

Un’altra distinzione tra le due tipologie di tradizione si trova nel fatto che la tradizione inventata tende a dare «definizioni aspecifiche e vaghe dei valori, dei diritti e degli obblighi inculcati dal senso di appartenenza al gruppo»; la tradizione autentica, invece, offre delle «pratiche sociali specifiche e fortemente vincolanti».[28] Da queste due diverse definizioni di tradizione si può comprendere come la prima tipologia sia una ricerca dall’esterno di qualcosa andato perso, mentre la seconda nasca da un’esigenza dall’interno di tramandare un sapere e di mantenerlo vivo nel presente, seppur con qualche inevitabile modifica.

L’idea di tramandare una tradizione autentica invita a porsi qualche domanda: qual è il limite oltre il quale spingersi per modificare quella tradizione senza rischiare di snaturarla? Fino a dove si può ampliare e allargare il sapere tramandato ai fini di un’attualizzazione o di un rinnovamento?

Un repertorio di tradizione autentica va incontro ad inevitabili modifiche, anche se queste ultime non minano i significati profondi della tradizione da cui provengono. Una tradizione autentica, in quanto tale, non è mai caduta in disuso e quindi, attraverso il filtro umano di chi la pratica, è soggetta a continue innovazioni per mantenersi viva e attuale.

Le innovazioni che formano un’identità sono le risultanti di un processo che si effettua dall’interno secondo un obiettivo perseguito in modo costante:

La formazione dell’identità è dunque un potente mezzo di cui i gruppi dispongono nella lotta per le risorse; ma, sotto un altro profilo, è essa stessa un obiettivo (non più soltanto un mezzo) che i gruppi perseguono costantemente. Ovvero, se è consigliabile rintracciare nei conflitti e nella competizione delle risorse i condizionamenti delle varie forme di identità, pare opportuno anche soffermarsi sulle ragioni intrinseche dell’identità, sulla logica che ispira […] le sue varie manifestazioni.
Prospettiva esterna, dunque, e prospettiva interna.[29]

È nell’interesse di una comunità di persone voler difendere dall’oblio la propria tradizione; è l’esigenza di voler mantenere viva la propria identità (in questo caso specifico del repertorio da piffero e fisarmonica si tratta di identità musicale).

Intorno agli anni ’70 del secolo scorso, con il diffondersi di un certo benessere economico, in contrasto con il periodo precedente caratterizzato dalla povertà, si è sviluppata l’idea di innovare il "vecchio" e di superarlo, rompendo così quel legame con una condizione sociale ed economica che portava a mantenere viva ogni tipo di tradizione locale.

Nel repertorio da piffero e fisarmonica delle Quattro Province il legame con il passato, intorno agli anni ’60, si è molto affievolito, tuttavia non si è verificata una rottura netta con il passato, poiché in quegli anni, Ernesto Sala manteneva vivo il repertorio attraverso le feste popolari e i rituali. I giovani (come Valla) lo ascoltavano e cercavano di carpirne le melodie. Per questioni che saranno discusse in seguito, poche persone, all’epoca, erano incentivate ad imparare il repertorio locale del piffero e della fisarmonica; negli anni ’70, però, gli studi etnomusicologici e le ricerche sul campo (mi riferisco, in questo caso, a Bruno Pianta che ha effettuato interviste e registrazioni a Sala stesso), hanno ridato un considerevole vigore a queste tradizioni popolari. Infatti in quel periodo i giovani che avevano ascoltato il loro repertorio locale da Ernesto Sala (prendo come esempio sempre Stefano Valla), hanno fortemente voluto mantenerlo vivo e preservarlo dall’oblio. Così, oggi, è nata una nuova generazione di suonatori che, forti dell’esempio del loro maestro Valla e del predecessore Sala di cui possiedono registrazioni, stanno tuttora imparando le melodie e i rituali della loro tradizione.

Questo discorso introduttivo sul contesto sociale in cui opera un suonatore di tradizione è utile per specificare meglio la figura di Stefano Valla e il ruolo che copre all’interno del suo repertorio.

Stefano Valla. Professionista di tradizione tra presente, passato e futuro

Stefano Valla, oltre a suonare il piffero a Cegni, è impegnato in Festival Internazionali di musica popolare, fa parte di un gruppo di canto polifonico genovese (il trallallero) e insegna in stage di danza tradizionale in Italia.

Valla non svolge altre attività lavorative al di fuori di quella di suonatore e trova sostentamento economico nell’esercizio della sola musica. Valla è da considerare, quindi, un musicista professionista a tutti gli effetti, a differenza di Ernesto Sala che svolgeva anche il lavoro di agricoltore. Citando Alan Merriam, professionalità «[…] significa devozione totale alla professione e dipendenza economica dalla sola musica […]».[30] La scelta dei professionisti avviene attraverso uno scambio relazionale diretto o indiretto tra il professionista stesso e la società di appartenenza; Valla si è affermato nella sua tradizione come suonatore da piffero grazie alle sue competenze e abilità, ma anche grazie alla società che l’ha riconosciuto come tale, direttamente o indirettamente. Il ruolo sociale di Valla è da considerarsi status acquisito, che, secondo una definizione di Merriam, è da distinguersi dallo status assegnato:

Lo status assegnato viene dato a prescindere dall’abilità dell’individuo, e si conosce già al momento della nascita di questo. Lo status acquisito, invece, viene dato sulla base di qualità speciali e non si raggiunge con la nascita ma con la competizione e lo sforzo.[31]

La differenza sostanziale tra i due stati sociali si trova, prevalentemente, nell’appartenenza o meno ad una famiglia di suonatori; i genitori di Valla non erano musicisti di tradizione, quindi la sua affermazione in qualità di suonatore è dipesa esclusivamente dalle sue risorse personali e non da un background familiare.

Come accennato precedentemente, l’interscambio tra suonatore e popolazione è imprescindibile per il mantenimento di una cultura tradizionale: la società riconosce l’importanza della figura del musicista, il quale ricambia la fiducia offrendo alla popolazione tutto il suo sapere.

Ma che cosa si intende con il termine sapere? Nel caso di un repertorio di natura popolare, il sapere è quel bagaglio di memorie, di valori, di significati, di musiche (in questo specifico caso) che fa parte di ricordi condivisi di una determinata comunità:

[…] tutte le comunità, per essere tali, devono elaborare una "struttura connettiva" che leghi gli individui mettendoli in grado di pensarsi nella forma di un "noi". Tale struttura connettiva è costituita […] da valori comuni, da un lato, e dal ricordo di un passato condiviso, dall’altro.[32]

Se non c’è un luogo, una figura, un tempo di riferimento nel passato, non può esistere la memoria. Tuttavia, per mantenere viva la memoria è necessario applicare due processi indispensabili:

a) la ripetizione;

b) l’attualizzazione.

La ripetizione è necessaria in quanto tramanda le strutture portanti e significative di quella tradizione evitando di perderle con il passare del tempo; l’attualizzazione è un processo attraverso il quale quei riti, quei simboli del passato vengono modificati in base al presente per mantenerli vivi e per evitare una riproposizione fredda e atemporale del repertorio tramandato.

In sintesi, l’evocazione di un passato avviene attraverso quelle che Maurice Halbwachs chiama le tappe del ricordo:[33]

1. in primo luogo è necessario un riferimento a specifici luoghi e a specifici tempi nel passato;

2. in secondo luogo deve esistere un gruppo che sia, in qualche modo, legato e in stretta relazione con questo passato;

3. in terzo luogo è necessaria una continua attualizzazione della memoria tramandata.

Per poter tramandare il passato, inoltre, una comunità necessita di un referente,[34] di una figura che svolga il ruolo da tramite tra il passato e il presente e che ne evochi la memoria.

Attualmente, nella zona del piffero delle Quattro Province, Ernesto Sala è la figura del passato a cui fare riferimento per trarre esempio e Valla è la figura del presente che ha il ruolo di ponte con il passato. Per continuare con i giochi di parole, Sala è il passato a cui la popolazione si àncora per riconoscere una propria identità culturale, Valla è il mezzo tramite il quale il passato prende forma nel presente.

Ernesto Sala, ai suoi tempi, era la figura-simbolo del repertorio delle Quattro Province a cui la popolazione faceva riferimento per una ricerca della propria identità musicale. Valla, nonostante la sua giovane età, a Cegni è considerato il detentore del repertorio da piffero, anche se la figura di Sala è ancora viva nei ricordi di chi l’ha conosciuto. In diverse interviste, Valla mi ha ribadito spesso il concetto che la sua "colpa" (e ribadisco: "colpa" tra virgolette), è quella di «non essere vecchio abbastanza»; questa frase, dall’apparenza ironica e spiritosa, mette in evidenza come l’età, non in quanto tale ma in termini di "presenza" sul territorio, sia una condizione importante per il riconoscimento sociale di un suonatore. La differenza tra i due suonatori, in questo senso, è riscontrabile anche nel tema del ricordo: il ricordo e la memoria fanno acquisire alla persona ricordata (in questo caso, Ernesto Sala) una sorta di potenza e di magia nei confronti della popolazione su cui egli aveva esercitato un’influenza significativa quando era in vita. Da una parte, Sala è una figura ferma nel ricordo, ormai immutabile; dall’altra, Valla è un portatore dinamico di musica, ed è considerato un esempio in evoluzione riconosciuto dalla società di cui è membro. Egli desidera rispolverare il passato filtrandolo attraverso la sua esperienza e sostiene che prima di far evolvere il repertorio verso il futuro, sia necessario avere una base solida in quello passato per evitare così che quest’ultimo venga snaturato e, di conseguenza, perso.

Prendendo spunto da una terminologia usata da Fabietti,[35] Valla (e prima Sala) può essere considerato un centro tramite il quale si irradiano i rami della memoria verso una periferia? I concetti di centro e periferia sottintendono un unico punto di partenza dominante su diversi punti di ricezione; presuppongono l’esistenza di un ruolo attivo (centro) e uno passivo (periferia). Nel caso del repertorio musicale del piffero e della fisarmonica, la musica è condicio sine qua non per permettere la sussistenza di tale tradizione, ma il ballo, il popolo che è a conoscenza dei passi da eseguire e che danza alle feste, è anch’esso condizione indispensabile senza la quale il repertorio sarebbe incompleto. Valla, in questo senso, può essere considerato il detentore della musica, colui che offre il terreno su cui erigere gli "alberi della tradizione", ma non bisogna tralasciare l’aspetto di collaborazione che si innesca nel momento in cui una popolazione intera decide, in modo più o meno cosciente, di mantenere vivo il suo repertorio.

La relazione esistente tra passato e presente si palesa, dunque, con il rapporto tra Ernesto Sala e Stefano Valla, con la trasmissione orale tra maestro e allievo o tra anziano e giovane; in un qualsiasi repertorio di tradizione orale, come quello del piffero e della fisarmonica delle Quattro Province, il passaggio tra il passato e il futuro è strettamente correlato con l’esistenza del presente. Un presente desideroso di sapere, di mantenere e di conservare le proprie tradizioni (qualsiasi esse siano), getta, volontariamente o involontariamente, le basi per la sopravvivenza nel futuro di tali costumi e usanze. Sala, Valla e successori formano, quindi, una catena di memorie, abitudini, costumi e tradizioni che consegnerà al futuro i valori e la storia di una comunità.

 

________________________

[1]  Stefano Valla è nato a Genova nel 1962.

[2]  L’esecuzione di tale brano è stata registrata a Cegni (PV) il 30 Ottobre 2002.

[3]  30 Ottobre 2002.

[4]  Tale passaggio venne effettuato da Giacomo Sala (1872-1962), suonatore di piffero a Cegni, e Giolo di Pej (PC) (1863-1937), fisarmonicista.

[5]  Per un approfondimento della coreutica dei balli delle Quattro Province, rimando alla lettura del saggio di ANNALISA SCARSELLINI - PLACIDA STARO - MASSIMO ZACCHI, Osservazioni sui balli "da piffero", in Pavia e il suo territorio, a cura di Roberto Leydi, Bruno Pianta, Angelo Stella, Milano, Silvana Ed., pp. 461-494.

[6]  Costantino Nigra nacque a Villa-Castelnuovo (TO) l’11 giugno 1828; fu poeta e collaboratore di Cavour (GIUSEPPE COCCHIARA, I «Canti popolari del Piemonte», prefazione a COSTANTINO NIGRA, Canti popolari del Piemonte, Torino, Einaudi, 1957, pp.VII-XXIII).

[7]  Sotto ciascun titolo convenzionale possono coesistere canti raccolti in diverse province e paesi del Piemonte con le varianti dialettali tipiche di quel territorio.

[8]  Per la descrizione di tale rituale mi avvalgo della ricerca da me effettuata a Torrazza Coste (PV) e a Cencerate (PV) (Immagine 1) in occasione del matrimonio di due giovani del paese il 31 Maggio 2003.

[9]  "Vizi" è un modo di dire dialettale che sta per "carezze".

[10]  Data la sua importanza nel repertorio è noto anche come "Carnevale di Cegni". Per la descrizione mi avvalgo della ricerca sul campo da me effettuata a Cegni (PV) l’1 marzo 2003.

[11]  AURELIO CITELLI - GIULIANO GRASSO, La tradizione del piffero della montagna pavese, in Pavia e il suo territorio, cit., pp. 391-403.

[12]  Il numero delle ripetizioni effettuate dipende dai suonatori e non è mai fisso.

[13]  PAOLO FERRARI, Il ballo della Povera Donna, in «World Music» XII/54, 2002, pp. 10-14: 14.

[14]  Riprendo il termine "umanità" dalle interviste effettuate a Valla: secondo lui, lo scopo da raggiungere nel momento in cui si suona il piffero è quello di avvicinarsi il più possibile alle inflessioni della voce umana. (Cegni, 30 ottobre 2002, 5 febbraio 2003).

[15]  MAURO BALMA, La musica del piffero pavese, in Pavia e il suo territorio, cit., pp. 405-439: 413.

[16]  Stefano Valla riferisce una frase di Ernesto Sala in un’intervista di Mauro Balma del 25 luglio 1986 (op. cit., p. 415).

[17]  Stefano Buscaglia, giovane suonatore di piffero e allievo di Stefano Valla, durante un’intervista da me registrata a Milano il 14 marzo 2003.

[18]  Ernesto Sala (1907-1989), agricoltore di Cegni e suonatore di piffero attivo negli anni ’70-’80.

[19]  Da un’espressione di Stefano Valla.

[20]  CITELLI - GRASSO, La tradizione del piffero della montagna pavese, cit., pp. 391-403.

[21]  Intervista a Stefano Valla, Cegni, 5 febbraio 2003.

[22]  Ibidem.

[23]  Ibidem.

[24]  Ho attribuito personalmente i nomi alle diverse fasi di insegnamento per rendere più agevole la suddivisione del percorso didattico.

[25]  Stefano Valla durante l’intervista del 5 febbraio 2003 a Cegni.

[26] Ibidem.

[27]  ERIC HOBSBAWM, Introduzione: come si inventa una tradizione?, in L’invenzione della tradizione, a cura di Eric Hobsbawm, Terence Ranger, Torino, Einaudi, 20022, pp. 3-17.

[28]  Op. cit., p. 13.

[29]  FRANCESCO REMOTTI, Contro l’identità, Roma - Bari, Laterza, 20032, p. 59.

[30]  ALAN MERRIAM, Antropologia della musica, Palermo, Sellerio Editore, 2000, p. 135.

[31]  Op. cit., p. 140.

[32]  UGO FABIETTI, L’identità etnica, Roma, Carocci, 19982, p. 146.

[33]  Op. cit., p. 147.

[34]  JEAN-LOUP AMSELLE, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.

[35]  FABIETTI, L’identità etnica, cit.

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