Maria Terea Rosa Barezzani
Una rilettura di Le Greygnour
Bien di Matteo da Perugia[*]
La ballade Le greygnour bien[1]
(vedine il facsimile nell’app. 1) è collocata
nel quarto fascicolo del codice Modena α.M.5.24 (cc. 32r–31v), che
costituisce – insieme ai due che lo precedono – il corpo centrale
del manoscritto. Quanto al luogo di redazione di questi fascicoli
(che potrebbe avere una relazione con il testo della ballade) e
sulla loro datazione esistono più ipotesi: secondo Sartori[2]
Pavia e il cenacolo di musicisti raccolti intorno al cardinale Pietro
Filargo, futuro papa Alessandro v, fra il 1406 e il 1408 sarebbe
stato il luogo di compilazione delle carte interne del codice. Più
precisamente una parte del repertorio sarebbe stata prodotta presso
la corte pavese dei Visconti,[3]
mentre la redazione dei fascicoli II–IV sarebbe avvenuta presso
la cappella del cardinale. Da parte sua, Anne Stone[4]
propone una redazione in più fasi, legate agli spostamenti di Matteo,
partendo da quella pavese profilata da Sartori, comprendendo poi
una fase pisana, connessa con la partecipazione di Pietro Filargo
ai lavori del Concilio, e una terza fase decorrente dal 1410. Esattamente
da quest’anno fino al 1414, avrebbe avuto luogo, stando a Pirrotta,[5]
la redazione dei fascicoli centrali del codice. Successivamente
sarebbero stati accorpati, magari in tempi diversi (secondo le ipotesi
di Anne Stone, che compariranno nell'edizione facsimile del codice,
di prossima pubblicazione) i fascicoli esterni.
Il compositore faceva parte probabilmente di quel
Collegium, al quale si rivolgeva con deferenza Corrado da
Pistoia,[6]
e forse proprio a uno dei membri era destinato il testo non convenzionale
della Ballade in oggetto; in quest’opera (che potrebbe essere
dello stesso Matteo) si parla della Facondia come della capacità
di esprimersi con proprietà di linguaggio e con equilibrata eloquenza.
Considerata in queste sue caratteristiche – che la allontanano dalla
vuota enfasi dell’oratore – la Facondia sarebbe il dono più grande
fatto all’umanità, dono che sarebbe comunque – stando al rammarico
dell’autore – ignorato dalle Scuole di retorica.[7]
Argomento di questo contributo è una nuova lettura
della ballade dal punto di vista notazionale, fenomeno grafico che
è l’espressione del componimento musicale; per giungere a porre
in discussione alcune soluzioni date a suo tempo da Apel e da Greene
e per poter affrontare (e confutare ?) qualche recente ipotesi,
è infatti necessaria la conoscenza dei mezzi di cui dispone lo scriba
(o lo stesso autore) e del suo modo di procedere in questa particolare
composizione.
La notazione
Come è noto l’Ars subtilior, una delle tendenze
stilistiche in atto in Europa tra la fine del Trecento e l’inizio
del Quattrocento (ma che culmina nel decennio 1380–1390), è un movimento
che ha origini nel sud della Francia e che – nella sua veloce diffusione
– è poi recepito in modi e misure differenti, soprattutto nelle
aree periferiche. In Italia queste nuove norme convivono con le
consuetudini locali più radicate: entrambe le realtà dipendono poi,
almeno in parte, anche dal livello del testo e dalla destinazione
del componimento.
Se l’innesto di nuovi modelli sulle tradizioni italiane
avviene con modalità che possono variare da caso a caso, resta però
chiaro che i conflitti mensurali appoggiati ai ben noti segni di
mensura e di proporzione (ma anche in loro assenza) sono decisi
attraverso l’uso di grafie che possono essere sia tradizionali sia
di nuova creazione.
È comunemente accettato che l’Ars subtilior
sia fenomeno in fase di sperimentazione, provvisto di forza tale
da agevolare la rottura nei confronti di schemi prestabiliti e di
portare – se occorre – alla negazione di norme ritenute inattaccabili.
Dal punto di vista notazionale porta con sé alcuni elementi variamente
distribuiti nelle aree compositive, sedi di orientamenti diversi,
ma come struttura di base restano queste componenti:
1) i simboli, pur conservando la loro fisionomia non
hanno valore univoco, ma cambiano di significato a seconda delle
necessità e del contesto;[8]
2) al contrario, risultati identici si possono raggiungere
attraverso morfologie diverse e differenti raggruppamenti:[9]
procedimento dalle radici profonde che possono arrivare fino alle
ligature delle notazioni pre-franconiane del mottetto del Duecento,
e anche a quelle che – già franconiane – necessitano talvolta di
una interpretazione empirica come accade nel codice di Las Huelgas.
Nel codice di Modena, che contiene quasi tutta l’opera
di Matteo, appare un sistema che comprende procedimenti francesi
e italiani, e, in più, nuove forme rappresentanti valori sempre
più sottili. Qui, come in codici paralleli, rileviamo la presenza
sia di figure particolari e di raggruppamenti speciali che introducono
rapporti proporzionali o iniziano una sincopazione, sia la molteplicità
di significati assegnati a una stessa figura (e in questo settore
possiamo collocare anche le note vuote, il cui valore varia all’interno
della composizione perché deve essere in continuo contrasto con
le piene, a loro volta condizionate dal segno di mensura).
Tutti i modelli di notazione adottati da Matteo (note
nere, rosse e nere, piene e vuote) entrano indistintamente in ogni
tipo di componimento e costituiscono un elemento di continuità attraverso
tutto il periodo di creazione. Il sistema di base prevedere che
i rapporti tra i valori non dipendano soltanto dalla forma delle
figure, ma anche dal segno che le sovrasta, segno che può variare
da una voce all’altra della composizione e/o da sezione a sezione
della stessa voce. In questo modo, escludendo l’equivalenza della
M di origine francese, le parti risultano già metricamente in conflitto.
Ma, al di là della consueta decifrazione della scrittura, occorre
tener presente che la chiave di lettura utile per l’una o l’altra
delle composizioni, non è necessariamente valida per tutti i brani
dello stesso autore o di altri.
Inoltre sembra opportuno pensare che la complessità
della scrittura richiedesse espressamente da parte dello scriba
la preventiva programmazione di ogni sua componente, che si trattasse
di agglomerati delle diverse colorazioni o di calcolo dei singoli
valori, ossia che fosse indispensabile la cautelare definizione
dei valori da assegnare a ciascun tipo di figura all’interno delle
particolari situazioni metriche e proporzionali al fine di avere,
in ogni caso, il valore esatto al posto giusto. In altre parole,
nei giochi sottili e all’interno di conflitti mensurali di ogni
genere il lettore doveva essere in grado di individuare ciò che
l’autore intendeva tramandare e questo doveva avvenire su un terreno
privo di ambiguità. Una volta accettate queste condizioni, sembra
facile convincersi che le modifiche, quando necessarie fossero apportate
direttamente dal compositore; sembra anche evidente che le correzioni
risultino per noi più facilmente giustificabili se abbiamo preventivamente
individuato le chiavi di lettura di «quella» particolare composizione.
Matteo (ma non escludo i suoi contemporanei) sapeva
perfettamente quale era il risultato che intendeva ottenere e, nello
stesso tempo, aveva presenti le norme che lui stesso si era prefissato
di seguire. A queste norme si atteneva con un rigore tale da rifiutare,
come vedremo, soluzioni alternative per le quali fosse necessario
l’uso di figure diverse da quelle preventivamente stabilite.
Nel caso in esame, ossia nella ballade Le greygnour
bien, l’effetto della sincopazione e le sottigliezze dei valori
sono forniti unicamente dall’accorto uso di figure nere e rosse,
piene e vuote.
Numericamente limitate e di modesto rilievo sono le
morfologie poco consuete,
certamente meno estrose di altre utilizzate da Matteo
per avviare sincopazioni con modelli metrici più pungenti, per delineare
veloci fioriture,[10]
o per rimpiazzare rapporti proporzionali:
I rapporti tra una figura e l’altra sono stabiliti
non soltanto dalla forma delle figure stesse, ma anche dal segno
di mensura che le sovrasta: in questa composizione Cantus e Tenor
si svolgono da cima a fondo in
(non indicato), mentre
il Contratenor, più complesso da questo punto di vista anche se
ugualmente nella norma, passa da
a
–
–
–
–
–
, ponendosi pertanto in costante rapporto proporzionale nei confronti
delle altre due voci, dato che in questa composizione è negata l’equivalenza
della M, procedimento che secondo il principio francese permetteva
la sovrapposizione di mensure differenti senza che entrassero in
competizione fenomeni proporzionali.[11]
All’interno delle singole mensure dove le tre parti
risultano metricamente in contrasto, esiste poi una seconda relazione
tra le figure (stabilmente rispettata per la durata dell’intero
componimento e inalterata in qualsiasi rapporto proporzionale),
una relazione che è definita e utilizzata attraverso la loro differente
coloratura.
In questa ballade, esemplificati con le S, ci sono
tre tipi di colorazione in rapporto fra loro:
1) la S nera, che nella mensura binaria in cui si
muovono dall’inizio alla fine Cantus e Tenor, vale due M,
2) la S rossa che perde un terzo del valore rispetto
alla nera anche nella mensura binaria e che pertanto apparirà in
gruppi ternari che riempiono la stessa battuta,
3) la S nera vuota che invece nei confronti della
nera piena aumenta di valore e corrisponde a tre M,[12]
4) le note rosse vuote che subiscono – in
– una doppia terzinatura:
la prima perché sono rosse, la seconda perché sono vuote,[13]
5) la figura bicolore: ciascun colore deve essere
valutato secondo la misura che gli è propria.[14]
Date queste norme di base, che costituiscono lo strumento
di interpretazione per la ballade in esame (ma non necessariamente
per qualsiasi composizione di Matteo o di altro autore), si possono
ora esaminare le modalità del loro impiego per giungere all’interpretazione
delle correzioni apportate nel Contratenor forse da Matteo stesso.
La trascrizione del componimento non presenta grandi difficoltà,
ma qualsiasi edizione risente della necessità di racchiudere i valori
entro le moderne stanghette di battuta. Esigenza poco avvertita
nella parte di Tenor, la meno turbolenta dal punto di vista ritmico,
dove l’assetto delle battute non presenta sfasature, a parte qualche
sporadico sconfinamento del tipo che si può osservare alle bb. 50–52
dove il valore complessivo di cinque M della B bicolore resta a
cavallo della stanghetta.[15]
Anche se la mensura è in
dall’inizio alla fine,
la notazione del Cantus mostra una complessità già evidente nel
frazionamento dei valori e nel conseguente aumento del numero delle
note; questa evidente complessità richiede, ovviamente, la debita
programmazione di ogni componente della scrittura, che si tratti
di agglomerati delle diverse colorazioni o di calcolo dei singoli
valori.[16]
L’illustrazione dell’esempio risulta facilitata se
si tengono presenti le regole date in precedenza: le note rosse
perdono un terzo del loro valore rispetto alle nere non solo nella
mensura ternaria, ma anche in quella binaria e nella trascrizione
moderna dovranno apparire in terzina. Le nere conservano la natura
binaria che è loro propria nel segno di
; tuttavia – poiché non
sono raggruppate fra loro in una formuletta ben distinta dai gruppi
di rosse, ma vi si trovano inserite in forma isolata – al momento
della trascrizione saranno coinvolte nella terzinatura generale.
A causa di ciò, e perché il loro valore non sia diminuito da questo
procedimento (ossia perché una parte del loro valore possa essere
eliminata senza danno dall’effetto della terzinatura), esse dovranno
assumere un aspetto ternario. In altre parole: per evitare il coinvolgimento
delle note nere nella generale terzinatura e – di conseguenza –
per conservare la loro naturale binarietà si dovrebbero terzinare
soltanto le note rosse, ma il loro continuo alternarsi alle nere
rende impossibile, quanto meno a livello pratico, uno svolgimento
in tal senso. Il chiarimento che Apel (CMM 53/1, p. 99, bb. 13-14)
pone al di sopra della sua versione in realtà non riesce a dare
l’idea della situazione e contraddice la sua trascrizione che invece
è assolutamente corretta.
Sistemati i valori, si può cominciare a osservare
la sincopazione: secondo i precetti teorici;[17]
se in una misura binaria uno e due elementi di piccolo valore cominciano
la sezione, il completamento della mensura deve essere posto alla
fine dell’episodio; il risultato finale deve dare un totale pari
(o binario) nelle mensure binarie, un totale dispari (o meglio ternario)
nelle mensure ternarie.
Nell’esempio che stiamo esaminando le partes separatae
sono costituite all’inizio dalla pausa di M (che deve essere intesa
rossa come la nota successiva), e alla fine dalla M e dalle due
Sm rosse. Le S nere creano un gioco tutto loro inserendosi come
piccole colonne tra le figure rosse. I valori che stanno fra le
partes possono essere calcolati complessivamente oppure separatamente
come li ho predisposti nell’esempio per chiarire l’intreccio dei
valori. Il totale è di otto ternarietà che, tolto l’effetto della
terzinatura, sono ridotte a otto binarietà corrispondenti a quattro
battute di 2/4.[18]
Anche la progressione ritmico-melodica che si trova
alla fine della prima riga del Cantus (note nere piene e vuote)
può essere osservata come esempio di sincopazione:[19]
Le S nere conservano la loro binarietà e valgono,
quindi, quanto due M dello stesso colore; accanto a loro Sm nere
(= ½ M) il cui valore deve essere calcolato insieme a quello delle
S. Tutto il materiale nero, esclusivamente binario, corrisponde
al valore complessivo di dodici M nere. Le M vuote devono avere
– per contrasto con quelle piene – un valore ternario; calcolate
tutte insieme danno un valore pari a sei M nere. Ed ecco il gioco
della sincopazione: si estrapolano i pilastri rappresentati dalle
M vuote e si indicano poi le partes relative alle note nere.
Un gioco ancora più sottile – ossia una doppia sincopazione
– si osserva alle bb. 43–49 del Cantus (corrispondente alla sezione
che incomincia con l’ultima ligatura della seconda riga), dove gli
elementi che costituiscono le partes separatae risultano
dissociati nella colorazione:
Mentre le figure binarie si accordano facilmente fra
loro, le note bianche (in questo caso M e Sm) trovano invece il
loro completamento nella Sm nera che chiude l’episodio, secondo
un procedimento che prende il nome di ‘coloratura sincopata incompleta'.[20]
Il fenomeno avviene appunto quando le partes soggette al
color non si integrano fra loro, ma trovano la loro perfezione
accostandosi a una differente colorazione: nel nostro caso l’episodio
in note vuote trova la parte separata più conveniente in una Sm
nera, dato che una Sm bianca avrebbe un valore superiore al dovuto
(come appare evidente osservando la battuta 49 dell’edizione citata).[21]
Di fronte a certe situazioni si può essere tentati
di risolvere i casi complessi restringendo o allargando i valori
come può sembrare più opportuno: è quanto accade all’altezza delle
bb. 83–84 delle edizioni, all’interno del frammento che si propone
come esempio:
Come abbiamo già osservato, quando la M nera è posta
fra le rosse resta sottoposta – per esigenze redazionali – alla
generale terzinatura e deve, pertanto essere scritta a valori aumentati.
Non per questo, tuttavia, si è autorizzati a diminuire il valore
della S rossa che la precede, la quale perde già la sua parte di
valore nella stessa terzinatura. La soluzione data dai due editori
semplifica le cose nel senso che si può chiudere subito la battuta
84 senza ulteriori sconfinamenti, ma certamente questo modo di procedere
può sollevare qualche perplessità.
Una trascrizione alternativa potrebbe essere la seguente
Si è rilevato nel precedente esempio 8 che S e M rosse
vuote del Cantus – che è in
– subiscono nella trascrizione
una ulteriore terzinatura rispetto alle rosse piene; nel frammento
corrispondente alle bb. 59–62 le rosse vuote e piene creano una
momentanea proportio dupla sesquiquarta (9:4) a livello di
M rispetto al Contratenor sottostante che corre in una mensura binaria
corrispondente al nostro 2/4. Nella trascrizione con stanghette
di battuta le rosse piene non possono essere estrapolate dalla doppia
terzinatura; si dovrà quindi predisporre per loro un valore aumentato
perché non siano danneggiate dalla doppia terzina.
Come ho già fatto osservare, la notazione del Contratenor
– contrariamente a quella di Cantus e Tenor – passa sotto diversi
segni di mensura; oscilla infatti fra
(creando così la sesquialtera
a livello di M con il
di Cantus e Tenor), ,
da intendersi come
ma in diminutio[22]
e , dove dà
origine a un rapporto di sesquialtera di S con
di Cantus e Tenor.
In , ovviamente,
la S nera è perfetta, le M nere vuote, che appaiono soltanto in
coppia, hanno la stessa funzione di due Dr, mentre il dragma caudato
a sinistra vale, come nella mensura binaria, una M e mezza; in
(che indica,
come abbiamo detto, con
diminutio) questo stesso valore è indicato dalla S nera con
punctus augmentationis. Come in qualsiasi altra mensura le
ligature bicolori conservano i valori indicati dalle rispettive
colorazioni.
Gli interventi emendativi
Tutti i preliminari esposti fino a questo momento
sono necessari per comprendere e valutare le revisioni operate forse
dallo stesso Matteo in più sezioni del Contratenor: le modifiche,
che hanno – come accade di consueto – una logica giustificazione,
stanno a dimostrare ancora una volta la coerenza nell’uso dei diversi
simboli all’interno della singola composizione. Di natura differente,
entrambe le revisioni si prestano alla formulazione di ipotesi che
possono essere sostenute in accordo e sulla base dei procedimenti
notazionali fin qui esaminati.
Primo intervento
All’inizio dell’ultima riga del Ct (c. 31v)
e dopo alcune note nere, si vede un gruppo di M e Sm vuote con i
bordi arrossati: il fatto che il copista (o lo stesso Matteo) ripassi
con inchiostro rosso i bordi di queste M vuote, in un primo tempo
scritti con inchiostro nero, indica una precisa volontà di emendamento.
La correzione è, infatti, opportuna: le M e Sm nere vuote, avrebbero
avuto – per contrasto con le piene – valore ternario.
Di conseguenza il gruppo
che nella trascrizione risulta come
se pensato in note nere vuote avrebbe avuto questo
aspetto
così che il valore delle figure non avrebbe potuto
corrispondere a quello delle solite sei M nere di
in rapporto
di sesquialtera nei confronti della battuta in
di Cantus e Tenor. Soltanto
con l’arrossamento dei bordi delle note vuote – colorazione che
richiede per la mensura in atto ()
una sola terzinatura – si può raggiungere, nella trascrizione, la
dovuta compressione dei valori entro i confini della battuta.[23]
Secondo intervento
La rettifica è, come si è detto, opportuna non meno
di quella più vistosa segnalata da Anne Stone[24]
in corrispondenza della prima sezione di
dello stesso Contratenor,
dove B, S e M (bb 21–25) devono essere lette nella mensura binaria
del tempus imperfectum diminutum, ossia in
con dimezzamento dei valori
(il frammento è facilmente individuabile per il modulo decisamente
più grande e un tracciato meno elegante di note e di gambe).
Il ritmo che l’autore si prefigge di ottenere è il
seguente:
Secondo Anne Stone in origine il frammento era scritto
come segue:[25]
L’ipotesi non è facilmente sostenibile se si ritiene
che Matteo si attenesse alle regole da lui stesso prefissate, e
cioè che M e Sm nere vuote dovessero avere, nei confronti delle
piene, valore amplificato. Sembra piuttosto che, se l’originale
comprendeva, oltre ai due dragmata caudati a sinistra, anche M e
Sm (e qualche piccola gamba in trasparenza dopo la rasura potrebbe
confermare questo dato), tutte queste note fossero piene e non vuote.
Inoltre è evidente in questo caso che il frammento doveva essere
preceduto da , poiché solo
in quel modo era possibile ottenere il ritmo che risulta nella trascrizione
(es. 16a).[26]
Se questa ipotesi è ragionevole, resta da chiedersi
perché Matteo (o lo scriba per lui) abbia voluto cancellare una
versione che a ragione sembra in linea con i risultati desiderati
per sostituirla con una versione differente che pure porta alla
medesima soluzione. Se, come è noto, qualsiasi intervento ha uno
scopo preciso, in questo caso la giustificazione più semplice, la
prima che può venire in mente è questa: Matteo riserva al Contratenor
una serie di cambiamenti di mensura e lascia il segno
a Cantus e Tenor; se avesse
conservato questo simbolo anche alla sezione che si presume originale
(es. 16c) da una parte avrebbe utilizzato per il Contratenor un
segno già ampiamente usato nelle altre due voci e dall’altra non
avrebbe trovato il modo di impiegare il
che – solitamente
come espressione di sesquitertia, ma qui con valore di
tempus imperfectum diminutum – fa la sua apparizione in mezzo
agli altri segni di mensura.
In sostanza, non lascia le note che si accordano con
perché è coerente: ha deciso
che il Contratenor deve essere costantemente in rapporto proporzionale
con le altre due voci, e questo segno di mensura non gli consentirebbe
di arrivare alla fine della sua composizione in conformità a quanto
ha stabilito. Di qui la necessità di cambiare le figure piene in
modo tale da ottenere una sezione a valori raddoppiati, che, per
effetto del segno loro preposto, potessero dare la soluzione ritmica
desiderata.
Questa è, ovviamente, soltanto una delle ipotesi che
si possono avanzare a questo proposito: altre e forse più interessanti
possono essere formulate sulla base di complessi rapporti proporzionali
cumulativi, ma francamente questi non mi sembrano in linea con il
pensiero di Matteo e con il suo grado di assimilazione dei caratteri
dell’ars subtilior.
Per concludere: sulla base di considerazioni stilistiche
– stando alle quali da uno stile molto complesso Matteo sarebbe
passato successivamente a uno stile notevolmente più semplice –
Apel stabiliva che Le greygnour bien è la composizione più
antica. Ora, pur ammettendo che le poche composizioni di Matteo
presenti nei fascicoli centrali del manoscritto precedano nel tempo
quelle dei fascicoli esterni, si può dimostrare che una vera e propria
frattura fra i due stili è evidente soltanto nei casi estremi, ponendo
a confronto, cioè, Le greygnour bien con la ballade Pres
du soloil, scritta a note nere e bianche su rasura nel secondo
fascicolo (c. 16).[27]
Dal raffronto affiorano le componenti che definiscono i due differenti
orientamenti: concentrazione di proporzioni e di mensure diverse
nel primo caso, piana disposizione di una linea melodica su ‘armonie’
semplicemente disposte nel secondo. Se poi prendiamo in considerazione
altri suoi componimenti dalle connotazioni stilistiche meno evidenziate,
possiamo osservare i numerosi elementi che provvedono – occultando
ciò che permette l’individuazione di divergenze stilistiche – a
garantire invece una linea di continuità attraverso tutta la sua
produzione.[28]
Tutto questo ci porta a riconoscere che per Matteo – stante una
delle affinità che lo legano agli autori della stessa area cronologica
– esiste la possibilità di un contemporaneo svolgimento nell’una
o nell’altra direzione.[29]
Quanto alle altre analogie che coinvolgono i compositori – diversità
di tipi notazionali e di significati metrici per le stesse note,
uso di figure e raggruppamenti ‘speciali’, modelli di sincopazione
e di rapporti proporzionali –, esse non sono mai disgiunte dalla
ricerca di una differenziazione che garantisca, nella misura consentita
dal grado di adeguamento agli imperativi subtiliores e della
loro compenetrazione con substrati locali, una personale e originale
interpretazione degli stessi canoni. Su un piano diverso, è forse
utile osservare che la ricerca di uno stile diverso (contemporaneo
o successivo che sia a quello dell’Ars subtilior), la ricerca,
cioè, di uno stile più lineare deve essere stata per qualsiasi autore
più faticosa di quanto si pensi e che prima di arrivare a risultati
apprezzabili dal punto di vista melodico – visto che in quello metrico
si esaurivano tutte le possibilità – ci sia stata, non necessariamente
in modo uguale per tutti, una fase di transizione o di adeguamento
alla nuova corrente.
Ma forse la componente più vistosa che lega Matteo ai suoi contemporanei
è la coerenza nell’uso dei vari procedimenti,[30]
scelti e adottati all’interno del componimento, quella coerenza
che oggi ci permette di ipotizzare, in presenza di errori o di lacune,
un certo tipo di versione piuttosto che un altro.[31]
Quanto alla notazione di Le greygnour bien:
è veramente la più complessa fra quelle usate da Matteo? O anche
in questo caso si tratta semplicemente di cogliere il valore dei
vari accostamenti e di individuare il significato delle colorazioni?
Si può affermare, dopo questi preliminari, che gli esiti siano davvero
inattesi?[32]
Sappiamo che la notazione è un mezzo attraverso il quale la creazione
trova la sua forma scritta: più sottili si fanno le esigenze del
compositore, più complicata diviene la scrittura; ma sappiamo anche
che la notazione (anche e soprattutto ‘quella’) deve offrire tutte
le informazioni utili per evitare fraintendimenti, e che nessuna
sottigliezza può aver luogo senza la precisione assoluta dei segni
che la devono indicare.[33]
Pertanto il nostro lavoro, come si è cercato di dimostrare, si limita
al rispetto per questi segni e alla loro delicata decifrazione,
rimanendo all’ombra delle regole che lo stesso compositore ci rivela
attraverso i suoi procedimenti.
APPENDICE 1
Facsimile
di Le greygnour bien
|
APPENDICE
2
Il testo
di Le greygnour bien[34]
(traduzione e note a cura di Francesco Filippo Minetti)
Le greygnour bien que Nature
fist a l’ohume[35]
en ce folz monde
fu le don dont pris, Faconde,
prist, en ly, sens o[36]
mensure.
E, pour tant, quant unz n’a cure,
prai[37]
sembler de sciens(e) parfonde,
tre<s> tou<t>, cilz, du pris enfonde;[38]
me<s> tre <s>,[39]
ye, n’ai, en cue<r>, ardure!
Mes il est grant desparanche,
quan<t> hom pans’, en sa fumé, a!
plus estre que en apparanche, onques d’avoir renomé, a!
En tres bon’ ssoit ensperanche,
s’il no imprent[40]
a ssoufisanche.
Il più grande bene che Natura fece all’uomo in questo
folle mondo fu il dono grazie al quale Facondia prese in sè pregio
(iperbato), senno con misura. E, pertanto, quando uno non <ne> ha
cura, per sembrare <dotato> di scienza profonda, costui affonda
(= precipita) totalmente dal pregio. Ma io non ne ho in cuore una
grande angoscia (arsura). Eppure è una grande disperazione, quando
uno pensa, nella sua presunzione, più essere che in apparenza, d’avere,
a!, mai rinomanza. Stia <,pertanto,> in gran buona speranza, chi
non apprende a sufficienza.
(Sembra si dia – sarcasticamente – per iscontato che
le scuole di retorica fossero rimaste escluse da tale «bien» – «don»).
|
________________________
[*]
In una versione lievemente
diversa, questo contributo è stato l’argomento di una relazione
per il
Seminario di Filologia Musicale tenutosi in Cremona
(Scuola di Paleografia e Filologia Musicale, Dipartimento
di Scienze Musicologiche e Paleografico-Filologiche) nei
giorni 26-28 ottobre 1999.
Abbreviazioni usate:
B=breve
S=semibreve
M=minima
Sm= semiminima
Dr= dragma
[1] Di questa composizione
esistono tre edizioni: WILLI APEL in French Secular Music
of the Late Fourteenth-Century, Mediæval Academy of
America, Cambridge (Mass) 1950, pp. 1*–3*; Id., French
Secular Compositions of the Fourteenth Century, vol.
I: Ascribed Compositions, American Institute of Musicology,
s.l. 1970, pp. 98–101 (Corpus Mensurabilis Musicae 53/1;
senza innovazioni rispetto all’edizione precedente); GORDON
K. GREENE, French Secular Music Ballades and Canons,
L’Oiseau-Lyre, Monaco 1982, pp. 60–64 (Polyphonic Music
of the Fourteenth Century 20, che copia da Apel). Sul manoscritto
e sulla notazione si veda ANNE STONE, Writing Rhythm
in Late Medieval Italy: Notation and Musical Style in Manuscript
Modena, Biblioteca Estense, α.M.5.24, PhD Diss., Harvard
University, Cambridge (Mass.) 1994; sulla compilazione del
manoscritto e sulle composizioni di autori italiani che
hanno assimilato lo stile dell’ars subtilior è consultabile
CARLA VIVARELLI, L’Ars subtilior in Italia: le composizioni
francesi di Filippotto e Antonello da Caserta nel codice
Estense α.M.5.24, tesi di Diploma in Paleografia e Filologia
Musicale, Università degli studi di Pavia, Scuola di Paleografia
e Filologia Musicale di Cremona, a.a. 1998–99.
[2] CLAUDIO SARTORI,
Matteo da Perugia e Bertrand Feragut: i due primi Maestri
di Cappella del Duomo di Milano, «Acta Musicologica»,
XXVIII, 1956, pp.12–27.
[3] REINHARD STROHM,
Filippotto da Caserta, ovvero i francesi in Lombardia,
in In cantu et sermone: per Nino Pirrotta nel suo 80°
compleanno, a cura di Fabrizio Della Seta e Franco Piperno,
Olschki, Firenze, 1989, pp. 65–74. In particolare con Giangaleazzo
l’ars subtilior figurava fra gli interessi musicali
coltivati presso la corte francofila dei Visconti.
[4] STONE, Writing Rhythm
in Late Medieval Italy.
[5] NINO PIRROTTA, Il
codice Estense Lat. 568 e la musica francese in Italia al
principio del ‘400, «Atti della reale Accademia di Scienze
e Arti di Palermo», serie IV, vol. V, parte II (1944–54),
Palermo 1946. Tesi accolta da altri studiosi, fra i quali
Ursula Günther, ma negata da Stone per l’assenza nel quarto
fascicolo (che comprende in prevalenza i brani riferiti
a Giovanni XXIII) di composizioni di Antonio Zacara da Teramo,
allora membro della cappella musicale del medesimo papa.
La soluzione di Suzanne Clercx che propone per la redazione
dei fascicoli centrali la cappella avignonese di Clemente
VII, non ha avuto molto seguito. Ora, comunque, si tende
a identificare il centro di realizzazione del codice con
Pavia per il collegamento immediato con la corte viscontea
e, quindi, con una serie di autori francesi e italiani.
Per una visione generale del problema rimando il lettore
a VIVARELLI, L’ars subtilior, in particolare alle
pp. 11-31. Vivarelli considera la città di Pavia un importante
centro di sviluppo e di diffusione dell’ars subtilior, grazie
anche alla presenza dell’Università, forse la prima in Italia
ad accogliere il nuovo insegnamento di musica, «attento
alle più recenti riflessioni filosofico-scientifiche sul
concetto di tempo e proporzione» (p. 15).
[6] Con la composizione
Veri almi pastores musicale collegium, come ricorda
PIRROTTA, Il codice Estense, p. 40.
[7] Si veda in Appendice
la nuova lettura del testo offerta da Francesco Filippo
Minetti, che ringrazio vivamente. La versione offerta dalle
edizioni citate in nota 1 appare indebitamente emendata.
[8] Si vedano i differenti
valori assegnati da Matteo alla S caudata con occhiello
a sinistra
(per
i quali rimando il lettore al mio Gli stili di Matteo
da Perugia: procedimenti notazionali e compositivi del repertorio
profano contenuto nel codice α .M.5.24 della Biblioteca
Estense di Modena, Atti del Convegno «Fin-de-siécle»:
music traditions coming to an end, Novacella, 3–9 agosto
1998, in corso di stampa). Figura ambigua come la semibreve
caudata di cui parla l’Anonimo III del Coussemaker III,
che, a seconda della sua collocazione, ha valore variabile
da 6 M a 2 M.
[9] Uno dei casi più interessanti
a questo proposito potrebbe essere fornito da Or voit
tout en aventure di Guido (contenuto nel codice Chantilly,
Musée Condé 564, c. 25v, trascritto in URSULA GÜNTHER,
Das Ende der Ars Nova, «Die Musikforschung», xvi/2,
1963, pp. 105–121: 117–120; in APEL, French Secular Composition,
n. 39 e in GORDON K. GREENE, French Secular Music. Manuscript
Chantilly Musée Condé 564. First Part: Nos 1–50, L’Oiseau-Lyre,
Monaco 1981, n. 28 (Polyphonic Music of the Fourteenth Century,
18). In questa composizione, dove le note vuote valgono
un terzo meno delle piene, dove il comune Dr e la S caudata
valgono, rispettivamente, come una M e come quattro M, il
nostro moderno sedicesimo è espresso con tre figure differenti:
,
, e
. Il
fatto apparentemente inspiegabile che tre diversi simboli
siano chiamati a esprimere uno stesso valore all’interno
della medesima composizione potrebbe essere interpretato
come segue: nel primo caso le Sm, con significato pienamente
‘legittimo’ e sempre in coppia, hanno il compito di portare
sia all’imperfectio della B, sia al completamento
della mensura di
. Nel secondo
caso il Dr doppiamente caudato è chiamato in causa sempre
ed esclusivamente in gruppi senari. Nel terzo caso il segno
è sempre alternato
al Dr, in modo tale da offrire, nella trascrizione, una
sorta di appoggiatura ritmico-melodica
. Ora, come si
è detto, il secondo e il terzo simbolo valgono quanto il
primo e non servono per scatenare conflitti proporzionali,
né per avviare movimenti di sincopazioni, poiché su un Tenor
di piana fattura si stendono un Cantus e un Contra che si
imitano tra loro in moduli ritmici limitati allo spazio
di una battuta di 6/8. Per trovare una giustificazione
all’uso delle tre diverse morfologie si dovranno, quindi,
tenere presenti i differenti compiti ai quali esse sono
destinate. I ruoli sono infatti diversi, da semplice ‘riempitivo’
nel primo caso, a probabile suggerimento di suddivisione
ternaria del gruppo senario nel secondo caso (),
suddivisione che non si scorgeva nella trascrizione di Günther,
ma che è evidente nelle edizioni di Apel e di Greene e che
ben si adatta all’ictus stabilito dalle ‘appoggiature’
rilevate nell’ultimo dei segni osservati. Seguendo gli imperativi
dell’Ars subtilior si usano forme differenti per
raggiungere il medesimo effetto, oppure – a seconda dei
contesti – si attribuiscono più significati alla stessa
figura: modelli più frequenti di quanto si pensi e che si
possono osservare, per rimanere in area italiana, anche
in Lorenzo da Firenze (Ita se n’era star, dove per
ottenere il valore di
si
usano o
), e
– in senso contrario – in Paolo (Nell’ora ch’a segar
la bionda spiga, dove si prevede l’uso della medesima
Sm sia per avere il valore di
,
se usata in coppie, sia per completare una combinazione
ritmica insieme a
, come
,
sia per dare una veste ternaria a sei normali Sm
,
soluzione che si accosta, per gli effetti se non per la
forma delle figure, a quella di Guido).
[10] L’estrema precisione
delle grafie con le quali sono segnalati i valori dei movimenti
ornamentali esclude che questi fossero lasciati all’improvvisazione.
[11] In qualche caso –
vedi il virelai di Matteo Dame que j’aym – è possibile
osservare l’equivalenza della M e contemporaneamente la
sua negazione: su Tenor e Contratenor stabilmente in
si alternano nella
voce più acuta sezioni in
, dove l’equivalenza
della M appare in tutta la sua evidenza, e sezioni in
dove essa è invece
annullata dalla presenza della proportio sesquialtera.
[12] In altri casi – vedi
la ballade Puisque la mort attribuita a Matteo –
il valore delle note vuote varia con il variare della mensura,
così che esso risulta sempre in contrapposizione con quello
delle figure piene.
[13] Le M rosse vuote sono
in rapporto di sesquialtera rispetto alle M rosse
piene (= 9 contro 6): queste, a loro volta, sono ancora
in rapporto di sesquialtera rispetto alle nere piene
(= 6 contro 4): quindi il rapporto fra le M rosse vuote
e le M nere piene è di 9:4, ossia di dupla sesquiquarta.
[14] Il gioco basato sulla
colorazione delle figure è fra i più coltivati nell’ars
subtilior e può assumere caratteri diversi, come potrebbero
facilmente dimostrare le opere di autori dalla differente
formazione.
[15] La soluzione qui proposta
è lievemente differente da quella di Apel e più rispettosa
del valore delle singole parti della figura; tuttavia, dal
punto di vista pratico-esecutivo il risultato è lo stesso.
[16] Per evidenziare questo
procedimento e quelli successivi nella trascrizione elimino
la suddivisione in battute moderne.
[17] Dalle prime definizioni
di PHILIPPE DE VITRY (Ars perfecta in musica, in
CHARLES-EDMOND DE COUSSEMAKER, Scriptorum de musica medii
aevi nova series a Gerbertina altera, Durand, Paris
1864–76 [rist. anast. Olms, Hildesheim 1962: d’ora innanzi
CS] vol. III, p. 34) e JOHANNES DE MURIS (Libellus cantus
mensurabilis, CS, vol. III, p. 56, alla spiegazione
dell’Anonimo autore di un Tractatus tertius contenuto
nel manoscritto di Berkeley (datato 1375: The Berkeley
Manuscript. A new critical text and translation, ed.
by Oliver B. Ellsworth, Greek and Latin Music Theory,
University of Nebraska Press, Lincoln – London 1984), alle
elaborazioni dell’Anonimo v (Ars cantus mensurabilis,
CS, vol. III, p. 391) che apportano nuove norme per l’uso
del procedimento. Presente nella pratica notazionale, ma
non definita con chiarezza nella trattazione teorica è la
situazione in cui le partes risultano costituite
da tre o più elementi disgiunti l’uno dall’altro.
[18] Il numero indicativo
delle battute è quello che si osserva nella seconda edizione
di Apel (CMM 53/1).
[19] Una progressione con
l’uso di note nere piene e vuote è visibile anche nel rondeau
Trover ne puis, Cantus, bb. 6–7, ma in quel caso
l’andamento ritmico-melodico è decisamente più levigato
e più prevedibile. (Si veda l’es. 19 nel mio Gli stili
di Matteo da Perugia).
[20] Prendo la definizione
da WILLI APEL, The Notation of Polyphonic Music 900–1600,
The Medieval Academy of America, Cambridge (Mass.), 1953,
trad. it. La notazione della musica polifonica dal X
al XVII secolo, a cura di Piero Neonato, Sansoni, Firenze
1984, pp. 456–7. Segnalazione di casi più complessi in VIVARELLI,
L’Ars subtilior in Italia, cap. 2.3, «Il ‘color’
sincopato», pp. 51–8.
L’espediente ha impiego diverso a seconda degli autori:
Filippotto da Caserta fa uso frequente di ‘color sincopato
completo’ (nel quale le partes si combinano fra loro
secondo la colorazione), mentre Antonello, che forse lo
ritiene superato, preferisce la ‘coloratura sincopata incompleta’,
sebbene non disdegni di rivolgersi occasionalmente alla
pratica precedente, come dimostra in Dame d’onour en
qui tout, dove sono coinvolte entrambe le colorature.
(Cfr. VIVARELLI, L’Ars subtilior in Italia, pp. 54–55.
La trascrizione di Vivarelli si trova ibidem, Appendice,
pp. 156–159, mentre il frammento in notazione originale,
corrispondente alle bb. 49–59, ibidem, p. 57, es.
6).
[21] Nell’esempio si danno
due soluzioni alternative per meglio osservare i movimenti
della sincopazione.
[22] Nella sezione corretta
dall’autore stesso o da chi per lui. Solitamente
vale per
sesquitertia anche nelle opere di Matteo.
[23] Una terzinatura ulteriore,
come si vede nelle edizioni, mi sembra eccessiva, dato che
in esiste già
il primo rapporto di sesquialtera nei confronti di
.
[24] Secondo STONE (Writing
Rhythm, pp. 29–35), l’attività editoriale di Matteo
si svolgerebbe nei seguenti casi: 1) il cambiamento degli
ultimi segni nella composizione rimasta incompiuta a c.
47 del codice; 2) la correzione nel Contratenor di cui si
parla, in queste pagine, a proposito del «Secondo intervento»;
3) la creazione di Contratenores per altri autori; 4) la
rasura del mottetto Gratiosus (c. 16) e la conseguente
stesura della ballade Pres du soloil al suo posto,
e 5) le correzioni nel Contratenor del Gloria di
c. 23.
Non mi sembra invece segnalata la correzione di cui si parla,
qui, nel «Primo intervento».
[25] STONE, Writing
Rhythm, p. 111 e sgg. In effetti sono ancora visibili
in trasparenza diverse gambe di M e di Sm.
[26] Per la verità un ritmo
simile a questo si otteneva anche con una serie di dragmata
e semidragmata, ma questo avveniva soltanto quando
in una delle parti entrava in funzione una subsesquialtera
da rapportare alla prolatio maior delle altre parti.
Ma non è certamente il nostro caso.
[27] Oppure con il Rondeau
Pour Dieu vous pri che apre, con la stessa notazione,
il quinto fascicolo. È da escludere, tuttavia, che il tipo
di notazione possa interferire sempre o in modo decisivo
sullo stile di una composizione, ma si dovrebbe comunque
ricordare che, come è noto, proprio nelle ballades si manifesta
la maggior difformità stilistica fra composizioni ‘semplici’
e altre basate sulle novità ritmiche dell’ars subtilior.
[28] Per osservazioni pertinenti
a questo tema rimando il lettore al mio Gli stili di
Matteo da Perugia citato in nota 8.
[29] L’intento di adeguare
a testi ricercati scritture sofisticate è abbastanza diffuso,
tuttavia non si vede l’uso esclusivo di grafie complesse
per raggiungere risultati che si possono ottenere anche
con mezzi relativamente semplici.
[30] Se si intende il periodo
dell’Ars subtilior come una fase di sperimentazione,
di adozione di nuovi segni come espressione di valori fin
lì non contemplati, si può anche comprendere come ciascun
autore potesse elaborare personali formulazioni ritmiche
che entravano a far parte, con atteggiamento coerente, del
suo linguaggio. Fenomeno che percorre le composizioni di
molti autori, non ultimi Filippotto e Antonello da Caserta,
come dimostra in modo convincente VIVARELLI, L’Ars subtilior
in Italia,. Un caso totalmente a parte (ossia il fatto
che segni diversi siano delegati a esprimere il medesimo
valore, come si è appurato a proposito delle composizioni
che ho citato in nota 9) potrebbe sembrare una eccezione
alla regola, ma in realtà è ancora una conferma stavolta
offerta su piani diversi dato che l’autore – come abbiamo
ritenuto di poter rilevare – si attiene per tutta la durata
del componimento al rispetto di precetti, sia pure multiformi,
da lui stesso stabiliti. Non si dovrà, pertanto, ritenere
che una particolare figura abbia un valore assoluto, quanto
piuttosto che quella stessa figura è chiamata a rappresentare
significati diversi, e – sull’opposto versante – dovremo
osservare con quali morfologie si potrà raggiungere il medesimo
risultato. Nell’uno e nell’altro caso a decidere il procedimento
– al di là dell’ottemperanza ai segni di mensura – sarà
la collocazione della figura in questo o in quel contesto.
Va da sé che l’autore (o lo scriba) decide preventivamente
l’uso che vorrà fare dei segni a sua disposizione.
[31] Oltre a queste e ad
altre caratteristiche tecniche, Matteo sviluppa tutta una
serie di peculiarità di natura espressiva a carico della
linea melodica, dettate unicamente dall’eloquenza del testo,
con un compiacimento che esclude qualsiasi tentativo di
suddivisione stilistica.
[32] Nello studio
precedente (Gli stili di Matteo da Perugia) metto
in evidenza che: 1) la notazione nera non porta a risultati
di grande rilievo e le sincopazioni sono brevi e non importanti;
2) nella privilegiata nera e bianca le note vuote assumono
il ruolo normalmente svolto dalle rosse, ossia valgono un
terzo meno delle nere siano esse ternarie o binarie, ma
il loro valore – che è comunque in contrasto con quello
delle nere – dipende anche dal tipo di mensura, così che
esso può variare all’interno della stessa composizione a
seconda del segno mensurale; 3) nella notazione nera e rossa
sono comprese anche figure particolari delegate a esprimere
rapporti proporzionali; 4) l’uso di figure e di raggruppamenti
‘speciali’ serve di volta in volta per avere valori dimezzati
(con mezze Sm vuote o mezze Sm piene), per introdurre proporzioni,
per iniziare una sincopazione o per renderla più complessa,
per rendere fioriture ricercate; 5) l’introduzione di figure
isolate di colore contrastante (rosse o nere vuote nella
prolatio maior) è spesso determinata dalla necessità
di completare la battuta con un valore binario soprattutto
dopo una M alterata.
[33] Di questo avviso è
pure VIVARELLI (L’Ars subtilior in Italia), secondo
la quale l’ermetismo non poteva essere lo scopo primario
degli autori dato che le loro creazioni dovevano essere
destinate, come le altre, a eventi esecutivi.
[34] M<atheus> de Perusio,
Modena, Bibl. Estense, Ms. α.M.5.24 (olim lat. 568): RISM
B IV4 II, p. 968, n° 61: «unicus»; assente da
G. Raynauds Bibliographie des Alfranzösisches Liedes,
neu bearbeitet und ergänzt von Hans Spanke, Brill, Leiden
1980; non altrimenti che Ulrich Mölk – Friederich Wolfzettel,
Répertoire métrique de la poésie lyrique française des
origins à 1350, Fink, München 1972 ignorano il presente
(tutto eptasillabico femminile, inclusa D composta). Schema
metrico ABBA, ABBA; CDCD, CC (anzi... CDC, DCC; non ignoto
al sonetto italiano già duecentesco).
[35] Su houme (qui
con fortuita metatesi grafica della h), oume
(regionale diffuso; introdottosi, in epoca medievale, anche
a Parigi; «soit que la fermeture de o ait été plus
précoce qu’en francien, soit que la nasalisation soit survenue
plus tard»), vedi PIERRE FOUCHÉ, Phonetique historique
du français, Klincksieck, Paris 1958, vol. II, pp. 360–361.
[36] <A(P)U(D) senza –
Hoque: cfr. ancora FOUCHÉ, Phonetique historique,
vol. II, pp. 659-60. In Altfranzösisches Wörterbuch,
Adolf Tobler nachgelassen Materialien, bearbeitet und hrsg.
von Erhard Lommatzsch, Stein, Wiesbaden [= TL], vol. VI
(1965), coll. 927.31, cfr., in particolare, «...richesce
od mesestance».
[37] Metatesi di per
(/par) = po(u)r, con dittongazione
ipercorretta.
[38] <enfonder>
= <afonder>.
[39] «In Verbindung
mit einem Objectsubstantivum», TL, vol. X (1976), col. 597.34–36:
«Pai si tres soif...».
[40] = aprent. Con
quello delle consonanti finali (7–8–10), comportante fenomeni
di falsa restituzione ipercorretta (2) e crisi della declinazione
bicasuale, è notevole l’ammutimento della e finale:
6, 10, 12, 13.
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