MARIA CARACI VELA, Recensione :: Philomusica on-line :: Rivista di musicologia dell'Università di Pavia

Contributo di Recensione a cura di Maria Caraci Vela

 

Johannes Ockeghem. Actes du XL Colloque international d’Études humanistes, edités par Philippe Vendrix, Paris, Klinksieck, 1998

Antoine Busnois, Method, Meaning and Context in Late Medieval Music, ed. Paula Higgins, Oxford, Clarendon Press, 1999

 

 

Le due miscellanee, uscite a poca distanza l’una dall’altra, hanno avuto origine entrambe da un convegno di studi: un Colloque di Tours (3–8 febbraio 1997) per la prima (d’ora in avanti O), e una Busnois Conference dell’University of Notre Dame (8-11 novembre 1992) per la seconda (d’ora in avanti B).

I due volumi, pur concepiti con impostazione e criteri non identici, nascono da uno stesso humus, toccano problemi analoghi, sono molto vicini per interessi e metodi, e hanno in comune la presenza di nove studiosi (A. Atlas, J. van Benthem, D. Fallows, B. Hagg, A. Linmayr-Brandl, H. Meconi, L. Perkins, M. Picker, e R. Wexler); entrambi sono aperti da una introduzione a firma di un musicologo che ha dato negli ultimi decenni continuativi e autorevoli contributi sull’argomento, ovvero Leeman Perkins per O e Paula Higgins per B. Mentre il titolo della miscellanea O rimanda semplicemente al convegno del ‘97, quello di B sembra proporsi di fare il punto sulle attuali prospettive della ricerca e di privilegiare riflessioni di carattere metodologico.

I contributi si dispongono all’interno di cinque sezioni, secondo il tipo di interessi che è prevalente in ciascuno («Few of the essays, in fact, could adequately be described as exclusively methodological, critical, or contextual; some of them blend all three approaches, and all of them share the distinction of having responded to the problematic of the research situation itself, rather than to abstract paradigms or metanarratives arbitrarily imposed on the subject-matter», avverte nella introduzione Paula Higgins). Resta forse poco comprensibile al lettore il criterio col quale la griglia è stata predisposta, data l’ aggregazione sotto stessi titoli di ambiti di ricerca assi diversi fra loro. Se, infatti, la Part I. Music, ceremony and ritual in the late Middle Ages è indubbiamente una sezione compatta, al cui interno i singoli saggi trovano la loro logica collocazione, non così avviene per la Part III (Issues of Authorship, Attribution, and Anonimity in Archival and Musical Sources), che mescola nel titolo campi epistemologici del tutto distinti, e accosta tre contributi di critica stilistica e attribuzionistica a uno di ricerca d’archivio; o, analogamente, la Part V, Busnois’s Legacy, i cui saggi sono prevalentemente impostati su problemi di stile e attribuzione e assai meno sulla ricezione della musica di Busnois. Il lettore attento agli interessi esplicitati nel titolo del libro avrebbe molto gradito che nella Part II (Intertextual, contextual, and hermeneutic approaches to late medieval musical Culture) venisse affrontato il problema della intertestualità in maniera sistematica, e che si offrissero indicazioni di metodo utili a far chiarezza in un campo su cui la riflessione musicologica – e non solo musicologica – ha in tempi recenti prodotto moltissimo. In relazione alla polifonia del Quattrocento, il termine designa un fenomeno essenziale e veramente complesso, osservabile da svariati angoli visuali; analizzarlo sistematicamente sarebbe stato di giovamento per una comprensione più chiara e senza equivoci dei vari significati nei quali esso ricorre nei saggi di B. Un contributo del genere sarebbe stato certamente importante anche per la miscellanea O, in cui il problema dell’intertestualità, pur non godendo del privilegio di una apposita sezione, è inevitabilmente una forte presenza trasversale. L’analisi dei rapporti intertestuali offre chiavi di lettura preziosissime e una grande ricchezza di informazioni, ma esige di essere condotta con metodi adeguati. Ben poco ci dice l’intertestualità se non riusciamo ad individuarne la direzione o se non ne comprendiamo la natura, quanto mai differente nei singoli casi.

L’intertestualità – fenomeno inscindibile dallo sviluppo delle tecniche compositive nella polifonia medioevale e rinascimentale (nel mottetto dell’Ars Antiqua non meno che nel madrigale del tardo Cinquecento) – può configurarsi in maniere e con valenze diversissime, secondo epoche e repertori; può essere un procedimento intenzionale legato alla volontà di un compositore, noto o anonimo; può andare dalla citazione esibita in posizione enfatica (all’inizio, alla fine, o in uno degli svincoli interni della forma) a quella appena accennata, che Pasquali faceva rientrare nella categoria dell’arte allusiva (sulla quale, in maniera indipendente e da punti di vista diversi, hanno già sollecitato l’attenzione sia C. Reynolds, nel «Journal of American Musicological Society», XLV, 1992, sia la sottoscritta in «Studi Musicali», 1993); può rinviare ad un modello fuori dall’Autore, o entro l’opera del medesimo. Il rapporto intertestuale può limitarsi ad un solo elemento, o usarne molti, che hanno valore e sono portatori di riferimenti e significati, allusi non solo in se stessi, ma anche in quanto combinati con altri. Ma può esistere anche intertestualità non intenzionale, qualora un formulario musicale memorizzato e diffuso condizioni i normali processi di composizione o interferisca con quelli di trasmissione della musica. Il grado di complessità del fenomeno e il livello di consapevolezza nel ricorso alla citazione possono essere assai diversi, e la loro valutazione può non essere semplice, come la ormai abbondante bibliografia in proposito ha messo in luce (si pensi per esempio alla tipologia offerta dal repertorio frottolistico ampiamente illustrata da Francesco Luisi in «Musica e Storia», IV, 1996), così come diversissimo può essere il tipo di rapporto che il ricorso alla citazione ha con la cultura di un determinato milieu. Se dunque è certamente salutare rifiutarsi di far rientrare automaticamente ogni occorrenza intertestuale nella categoria della æmulatio cosciente, è altrettanto certo che sottovalutare la portata del fenomeno – che nel Quattrocento (e non solo) è strutturalmente connaturato ad ogni tipo di attività creativa – vorrebbe dire semplicemente privarsi di uno strumento fondamentale per la comprensione del processo compositivo nella musica medioevale e rinascimentale, e dei suoi legami con la cultura e la storia.

Sulla complessità del fenomeno e l’esigenza di non appiattirlo, ma di indagarlo e comprenderlo adeguatamente, si incontrano nelle due miscellanee frequenti, anche se non sistematiche, riflessioni. JEFFREY DEAN (Okeghem’s Valediction? The meaning of Intemerata Dei mater) proprio sulla base degli evidenti rapporti intertestuali tra la messa Mi Mi e il mottetto Intemerata, considerato l’opus magnum della maturità di Ockeghem, avanza l’ipotesi, affascinante ma indimostrabile, della composizione della messa come ex voto dopo una grave malattia del musicista intorno al 1470, e della composizione del mottetto, che con la messa ha evidenti rapporti intertestuali, nel 1478, in previsione della morte e «intended for performance as a pendant to the Missa My My, in place of ‘Deo gratias’ at the end of mass». Anche MARTIN PICKER (Reflections on Ockeghem and Mi Mi) sottopone ad attenta disamina i rapporti che collegano il virelai Presque transi, la messa Mi Mi e il mottetto Intemerata Dei mater tra loro e con composizioni di altri musicisti fino ben entro il Cinquecento, ma giunge a conclusioni del tutto diverse («Moreover, the motto of the mass forms part of Ockeghem musical vocabulary and is probably not an intentional allusion to Presque transi despite their common parentage»). Conclusioni che lasciano un certo margine al dubbio (dalla constatazione che «Ockeghem has a propensity for what might be called self-reference», non si evince automaticamente che il fenomeno sia del tutto involontario e non significante), anche se il saggio, ricchissimo di osservazioni interessanti, è molto ben argomentato. Sempre in O, ANDREW KIRKMAN (Quinti Toni in context: Currents in three-voice Mass writing in the later fifteenth century), che porta avanti un’indagine alla quale ha già dedicato nel ‘95 un libro importante, ritiene che nei repertori di cui si è occupato «a clear distinction between ‘freely-composed’ and ‘derived’ Masses is impossible to draw», e che la casistica vada da «Masses encased in an armature of regularly-reiterated melodic/rhythmic units» a messe in cui «material which is demonstrably borrowed dissolves into the free discourse of motivic lingua franca»: un concetto che sarebbe utile mettere a fuoco, per capire se corrisponde ad una reale tipologia dell’intertestualità involontaria o semplicemente alla proiezione della nostra attuale difficoltà di comprensione. ERIC JAS (Ockeghem as Model) esamina casi di intertestualità all’interno del corpus di Ockeghem e tra quello e le opere di compositori della generazione immediatamente successiva, e offre un buon contributo metodologico, prospettando una chiara distinzione di tipologie molto utile all’indagine (a: Intabulations; b: Compositions alluding to Ockeghem by means of short quotations or musical style; c: Compositions drawing their cantus prius factus from, or reworking a secular piece by Ockeghem).

L’intertestualità fra composizioni di Ockeghem e di Busnois (tema ampiamente sviscerato dalla musicologia quattrocentista degli ultimi anni) è toccata nel contributo di ANDREA LINDMAYR-BRANDL (Ockeghem’s motets: Style as an indicator of authorship. The case of Ut heremita solus reconsidered), che arriva ad escludere la paternità di Ockeghem per Ut heremita solus in base ad argomenti di critica stilistica. Una eventuale esplorazione dei nessi intertestuali che si ponesse con rigore metodologico e con argomenti di critica testuale il problema della direzione di tali rapporti e considerasse lo stile del musicista non come un monolito inattaccabile ma come una realtà passibile di movimento ed esposta a sollecitazioni varie, avrebbe potuto o fornire le necessarie conferme all’assunto, o magari orientare in maniera diversa le conclusioni del saggio (esposte in forma dubitativa). Con Text, Tone ansd Symbol: Regardind Busnoys’s conception of In hidraulis and his Presumed Relationship to Ockeghem’s Ut heremita solus, JAAP VAN BENTHEM esamina il problema col sussidio della gematria («while acknowledging the ypothetical nature of my analysis», come peraltro espressamente ammette), e fa emergere per il lettore, con una esegesi indubbiamente alquanto ardua da seguire, il tessuto di relazioni nascoste che lega fra loro i due mottetti. Il contributo di SEAN GALLAGHER (Syntax and style. Rhytmic patterns in the music of Ockeghem and his contemporaries, su cui si avrà occasione di ritornare) ricorda la funzione costruttiva di molte ricorrenze intertestuali non legate a procedimenti coscienti, e insiste sul sussidio che a suo avviso esse possono dare alla critica stilistica e all’attribuzionismo.

Un argomento per il quale l’analisi degli intrecci intertestuali è divenuto il principale percorso di ricerca è quello delle messe l’homme armé del tardo Quattrocento. La decifrazione dei rapporti che il gioco dei richiami motivici, mensurali, formali e compositivi di varia natura documenta in maniera rilevante si giova spesso della presenza di paratesti (tropature, canoni, dediche, chiose e aggiunte manoscritte) attraverso i quali spesso riemerge un intreccio di richiami che alludono ad avvenimenti, circostanze, personaggi, occasioni liturgiche o politiche. Un penetrante tentativo di interpretazione è stato dato per le sei messe di Napoli da un recente contributo – ignoto agli studiosi di entrambe le miscellanee (come sembra essere destino per tutto quanto nel nostro campo non si produca in inglese) – da Lorenz Lütteken (Ritual and Krise. Die neapolitanischen «L’homme armé»-Zyklen und die Semantik der Cantus firmus-Messe, in Musik als Text, Kassel, Bärenreiter, 1997, pp. 207-218). La musicologia internazionale degli ultimi decenni si è occupata ampiamente della genesi delle prime messe l’homme armé e delle dirette relazioni – documentate proprio della rete dei rapporti intertestuali – fra Ockeghem, Busnois e Dufay. Sulla base di ricerche condotte da angoli visuali a volte ben differenti, sono state proposte ipotesi sull’origine della melodia l’homme armé (chanson rustique o cittadina? melodia popolare o creazione di un compositore, magari Busnois?); della chanson combinativa a tre voci del codice Mellon (venuta dopo la diffusione di un monodico ‘canto di leva’, oppure portatrice per prima di quella melodia nel suo Tenor?) e della sua versione strumentale a quattro voci nel codice casanatense 2856, nonché dei loro possibili compositori; sui rapporti fra le chansons e le prime messe (di grande interesse è la parodia nel Tu solus Altissimus del Gloria di Busnois); sulla successione cronologica delle prime tre messe (Dufay-Busnois-Ockeghem, come alcuni sostengono, o piuttosto Ockeghem-Busnois-Dufay, secondo un’ipotesi argomentata dalla sottoscritta nel 1975 e ribadita nel ’93, che, in maniera evidentemente poligenetica, altri hanno riproposto di recente). Anche sulla straordinaria fortuna del Tenor l’homme armé e sui suoi rapporti con la storia le opinioni sono diverse: si insiste sempre sul legame con i progetti di crociata antiturca del duca di Borgogna (1454) o di Pio II (1464), ma esistono anche altre ipotesi. Per esempio quella formulata da Agostino Magro, sulla possibilità che Ockeghem avesse scritto la sua messa nel 1454 per la traslazione a Tours delle reliquie di S. Martino, santo soldato. Per la messa di Regis, poi, dall’analisi dei diversi cantus prius facti usati e dai dati documentari a nostra disposizione, si può risalire ad altra eventuale occasione liturgica. Chi insiste molto sull’ipotesi antiturca assegna un ruolo centrale alle sei messe del codice VI E 40 della Biblioteca Nazionale di Napoli, accompagnate dalla dedica a Beatrice d’Aragona regina d’Ungheria, con menzione esplicita delle imprese militari di Mattia Corvino in favore della cristianità. Diversi studiosi delle due miscellanee accostano, tangenzialmente o diffusamente, questi problemi. Hanno occasione di trattare dell’uso della prolatio maior nella messa di Ockeghem sia Bonnie Blackburn in O sia Alexander Blachly in B, in saggi su cui si tornerà piu oltre, mentre il contributo di ROB C. WEGMAN (Mensural Intertextuality in the Sacred Music of Antoine Busnois) ospita un «Excursus: L’homme armé Revisited» in cui, accogliendo un’ipotesi a suo tempo formulata da Taruskin, l’autore ritiene possibile assegnare a Busnois la chanson combinativa a tre voci, ma impossibile, per motivi di stile e di usi mensurali, collocarla isieme a quelle che il musicista scrisse negli anni ’60. L’ipotesi di Wegman è che la chanson sia stata scritta negli anni ’50, forse in relazione con una giostra del tipo di quelle, diffusissime, ‘del saraceno’, una delle quali risulta infatti essersi tenuta a Bruges, alla presenza di Carlo il Temerario, nel 1457. (Sulla diffusione delle giostre del saraceno o delle corse dell’homme armé nell’Europa tardo medioevale – e particolarmente in quella mediterranea – e sull’attuale persistenza di queste tradizioni in molti luoghi, si possono reperire non poche altre testimonianze a sostegno di quelle citate da Wegman.) Ipotizzate così le origini della chanson, «In Busnois’s L’homme armé mass those origins left a residue of meaning in the sign C3, suggesting the composer’s personal acquaintance with an earlier history». La ricostruzione di questa continuità di usi mensurali (ma si ricordi che l’attribuzione della chanson del codice Mellon a Busnois è puramente ipotetica) diviene un dato stilistico qualificante, che offre quindi a Wegman un ulteriore sostegno per nuove attribuzioni a Busnois.

Col contributo di FLYNN WARMINGTON (The Ceremony of the Armed Man: The Sword, the Altar, and the L’homme armé Mass) un’altra ipotesi nuova è formulata in base alla combinazione di testimonianze del passato e della sopravvivenza attuale di antiche cerimonie (alcune delle quali sono autentici fossili liturgici, come per esmpio la messa detta ‘dello spadone’, che si celebra all’Epifania nel duomo di Cividale). Lo Zibaldone quaresimale (1457) di Giovanni Rucellai, che attesta la tradizione della messa in armi nell’abbazia di S. Antimo (che si riteneva fondata da Carlo Magno), è messo in relazione con la documentazione su analoghe cerimonie liturgiche – officiate dal vescovo o dall’abate e accompagnate dalla ostensione di un’arma, come chiara allusione all’impegno di difendere la fede – e particolarmente con quella relativa alla celebrazione del Mattutino di Natale in S. Pietro nel tardo Quattrocento, durante la quale l’imperatore alla presenza del papa celebrante intonava in armi la quinta lezione. Da Martino V in poi esiste una interessante documentazione del dono della spada benedetta da parte del pontefice all’imperatore o ad altra autorità sovrana da sollecitare in difesa della cristianità. Interessante il caso della spada mandata a Luigi XI da Pio II, che vi fece incidere due suoi distici elegiaci (riprodotti nel saggio, ma con un errore di stampa nel primo verso, che, per ovvi motivi grammaticali e metrici, esige tua e non tuas). Sulla base di questa documentazione, discussa con grande attenzione e riprodotta nelle appendici, l’autrice si chiede se «Can we link any of these ceremonies with the l’homme armé tradition in France, Cambrai, and Burgundry?» Ipotesi attraente, ma non suffragata da prove. Nessuna delle quattrocentesche messe l’homme armé risulta in qualche modo legata alla liturgia di Natale (se mai, come s’è detto prima, per Regis e forse anche per Ockeghem si potrebbe postulare una relazione con la festa di qualche santo guerriero), e di per sé il testo annesso alla melodia dell’homme armé difficilmente potrebbe intrattenere un qualche rapporto con una occasione solenne in cui papa e imperatore fossero fisicamente presenti o ufficialmente rappresentati.

Veramente sorprendente è invece il contributo di MICHAEL LONG, Arma virumque cano: Echoes of Golden Age. Assumendo come punto di riferimento obbligato per la fioritura della tradizione l’homme armé il progetto di crociata di Pio II, e perpetrando disinvolte scorrerie in vari ambiti disciplinari, Long postula una rivisitazione in chiave cristiana del mito dell’età dell’oro in seguito alla caduta di Costantinopoli, e vede un riferimento a Pio II (= Enea Silvio Piccolomini, nomi, evidentemente, virgiliani) nel canone enigmatico scritto sotto il Tenor della sesta messa di Napoli (ipotesi, quest’ultima, avanzata con ben altro metodo di indagine anche da Lütteken, nel lavoro precedentemente citato). Inopportuno sarebbe segnalare una per una le aporie di un saggio, condotto più sulle ali della fantasia che non su quelle del metodo. Ci limitiamo a contestare i passaggi più sconcertanti. Non c’è assolutamente nulla di inusuale nelle reiterazioni della parola l’homme armé sotto la musica: che le ripetizioni di quelle che Long chiama «brief syntactic units» non facciano parte delle strategie poetico-musicali fino al XVI secolo è affermazione che si commenta da sola. Che la melodia e il testo dell’homme armé siano uno slogan propagandistico antiturco è un’idea un po’semplicistica; sarà inoltre il caso di non dimenticare che il collegamento di una o più messe con gli eventi innescati dalla minaccia turca è magari molto probabile, ma resta per ora solo un’ipotesi che aspetta di essere dimostrata (l’unico riferimento esplicito al ‘doubté Turc’ trovandosi nel cantus della chanson combinativa a tre voci), sulla quale è alquanto imprudente costruire grattaceli di altre ipotesi. La genealogia virgiliana di Enea non parte da Saturno (certo un bisnonno in moderni termini anagrafici, che tuttavia non designano automaticamente funzioni fondamentali nella mitologia) il quale è menzionato espressamente come capostipite non di Enea ma dei re latini (ovvero dei nemici). Il mito di Saturno, divinità molto importante nell’antico pantheon romano, non coincide completamente con quello del greco Crono, anzi, ha diversi aspetti peculiari, e Venere – che nella tradizione mitologica latina non è proprio la stessa identica cosa di Afrodite – nell’Eneide è figlia di Giove (cfr. Aeneis I, 250 e X, 17) e non di Saturno. L’interpretazione della miniatura con l’evirazione di Saturno proposta da Long a sostegno del proprio vertiginoso excursus esegetico, non ha molte probabilità di illustrare la Chiesa orientale umiliata dai Turchi per via del cappello orientalizzante di Saturno, dal momento che copricapi di tal foggia erano entrati nella moda occidentale da svariati decenni (non c’è neppure bisogno di consultare un repertorio iconografico, gli esempi pittorici che vengono in mente, da Gentile da Fabriano e Pisanello fino a Giorgione e oltre sono a bizzeffe); l’arma di Giove non è una specie di scimitarra, ma semplicemente la falce da Giove sottratta a Saturno, del quale è notoriamente l’attributo fondamentale. A conclusione di una disinvolta analisi numerologica ci viene proposto di leggere l’incipit del testo dell’homme armé nella prima linea della tavola di Tolomeo; se per caso non fossimo convinti del risultato – che dà un L’O la e con ciò dimostra la ‘fondness’ di Busnois «for alphabet puzzles» (cosa che altri hanno già dimostrato con più calzanti argomenti) – dobbiamo ricordarci che «Giving the unaspirated ‘h’ at the beginning of the French word for man, the three-word incipit, ‘the armed man’, actually consists of two, rather than three, sounding and visual letter groups: Lo(m)me and arme.». Inoppugnabile dimostrazione scientifica di ciò sarebbe il fatto che nel New Growe Dictionary la voce di Lockwood sull’homme armé è sotto la L, e non sotto la H. Chiudiamo qui la disamina e facciamo presente che si comincia ad essere un po’ stufi della moda delle parole in libertà, con le quali si può dire qualsiasi cosa perchè tanto tutte le interpretazioni sono valide in quanto nessuna lo è. Ma forse, più semplicemente – e forse argutamente –, lo studioso, al quale siamo debitori di contributi in cui ha pur dimostrato di saper applicare metodi di ricerca degni di rispetto, ha voluto divertirsi a prenderci un po’ in giro.

Un qualche imbarazzo di fronte a questo modo di procedere può forse celarsi nella Introduction a B di PAULA HIGGINS, che fa un fugace riferimento ad «occasional excesses of interpretative zeal» nella miscellanra. Ma un analogo zelo sembra aver sfiorato anche lei all’inzio della medesima Introduction, quando nel virelai di Busnois Je ne puis vivre ainsi interpreta la parola confort (au mains que j’aye en mes dolours/quelque confort) come un doppio senso osé (con - fort) e ne deduce che, data la concomitante presenza dell’acrostico JAQUELINE DAQVEVJLE che rende riconoscibile la dedicataria, il virelai «transgresses the boundaries of polite courtly love discourse». Ci sembra strano che l’illustre studiosa non abbia presente come confort fosse parola già da secoli attestata nella lirica cortese di lingua d’oïl (e spesso in frasi analoghe o quasi identiche a quella che la impressiona), ma sempre entro un codice altamente formalizzato, e soprattutto che trascuri il ruolo normativo e cogente che ha nella cultura quattrocentesca il rispetto dei registri espressivi legati alle singole forme musicali e poetiche. Je ne puis vivre afferisce all’ambito aulico e cortese, e l’inserzione di una allusione oscena al suo interno non sarebbe stata considerata un effetto dirompente ma solo una attestazione di ignoranza, comportando uno slittamento sul piano della comunicazione quotidiana del tutto gratuito e inconcepibile (per far pervenire all’amante eventuali inviti a venire al dunque ci si sarebbe serviti di un intermediario compiacente, non di un virelai). Con l’acrostico poi Busnois non infrange certo «the cardinal rule of courtly love: a commitment to absolute secrecy», perchè la natura e gli scopi dell’acrostico medesimo – il cui uso al tempo di Busnois vantava già più di sedici secoli di storia documentata, ed era anch’esso retto da consuetudini e modi di impiego molto formalizzati – erano di portare messaggi cifrati ma decodificabili, in un gioco raffinato dell’allusione, così come era avvenuto nei casi di Jacopo, Landini, Machaut nel secolo precedente ed era continuato ad avvenire nel corso del Quattrocento.

Ci sembra un po’ eccessiva anche la disinvoltura con la quale HONEY MECONI (Ockeghem and the Motet-chanson in fifteenth-century France), pensa che il mottetto di Dufay Je ne puis plus/ Unde veniet auxiilium mihi possa «easily be interpreted as a cry of woe for lack of sexual potency», tanto più che «it is coupled with a cantus firmus asking whence cometh my help?» – (un bel problema prima del Viagra) – «in steadily decreasing note values». Certo tra i significati del verbo possum in latino e pouvoir in francese c’è sempre stato anche quello della capacità copulativa; significato che poteva esplicitarsi negli opportuni contesti (ovvero in ambito documentario, scientifico-medico, narrativo, per esempio): ma per pensare che nel Quattrocento un mottetto politestuale di complessa struttura compositiva – che afferiva, secondo una concezione radicata da due secoli, allo stile alto della musica polifonica – potesse farsi portatore di riflessioni sul vigore sessuale di qualcuno bisogna essersi posti ben al di fuori del contesto culturale di cui si sta parlando, considerato sostanzialmente identico a quello attuale. Nel medesimo contributo apprendiamo inoltre, a proposito del mottetto-chanson, che «The language of vernacular is the language of women; Latin, the language of the motet and the mass, is for the educated, for men. Joining mourning to the chanson is joining it to a genre that is primarly concerned with women: motet-chanson circulate overhelmingly in chansonniers». A parte la singolare ma insostenibile idea degli chansonniers come libri da gineceo, questo tipo di riflessioni rispecchia la visione in bianco e nero di una realtà culturale complessa com’è quella tardo quattrocentesca, e produce di conseguenza una semplificazione inaccettabile. Di diverso tenore è il contributo della stessa studiosa in B, che tratta il tema – su cui si sono interrogati anche altri, sempre nella stessa miscellanea – della dubbia attribuzione a Busnois di Fortuna desperata. Il saggio della Meconi (Poliziano, Primavera, and Perugia 431: New Light on Fortuna desperata) sottopone a uno scrutinio sistematico i testimoni, mettendo in rilievo l’importanza del codice di Londra 16439, di origine fiorentina, che tramanda varie opere di Poliziano, e in cui il testo poetico di Fortuna desperata figura in una versione che potrebbe essere quella originaria. Secondo l’ipotesi della Meconi, il personaggio femminile che lamenta d’essere stato ingiustamente diffamato potrebbe essere Nicoletta Vespucci, la bellissima amante di Giuliano de’ Medici, ritratta da Botticelli nella cosiddette Primavera (ma gli studi di Claudia Villa, che la Meconi purtroppo non conosce, hanno sostenuto con argomenti di grande interesse che il soggetto iconografico è altro). Fortuna desperata, la cui attribuzione a Busnois crea problemi d’ogni genere, sarebbe piuttosto opera di un compositore fiorentino, probabilmente Felice di Giovanni Martini (cui è ascritta la versione del codice C.G.XIII.27). Una attenta analisi della tradizione dell’intonazione primaria e delle composizioni che la riprendono (chansons e messe) orienta MARTIN PICKER (Henricus Isaac and Fortuna desperata), a ritenere che un compositore italiano – forse proprio quel Felice di Giovanni Martini a cui Frank D’Accone ha tentato di restituire una fisionomia – sia stato l’autore della prima intonazione, e che in seguito un ruolo assolutamente centrale per la fortuna del soggetto sia stato giocato da Isaac e dal suo allievo Senfl. Il lunghissimo saggio di JOSHUA RIFKIN (Busnois and Italy: The Evidence of two Songs) affronta il problema delle due composizioni su testo italiano tradizionalmente attribuite a Busnois (Con tutta gentileça e Fortuna desperata) e dell’ipotesi – mai provata – di un soggiorno in Italia del musicista. L’attribuzione delle due composizioni a Busnois – che, se dimostrata, avrebbe fornito «a powerful reason for thinking that he spent a portion of his career in Italy» – è respinta facendo ricorso principalmente ad argomenti di natura codicologica. Nonostante l’ampia e dettagliata disamina dei fenomeni della tradizione, il metodo è incerto: Rifkin non accoglie la tesi di Strohm secondo la quale il repertorio franco-fiammingo confluito nel codice dell’Archivio capitolare di Segovia sarebbe passato in Spagna nel corso dei rapporti fra le case di Asburgo e di Aragona alla fine degli anni ‘90 del Quattrocento, e pensa invece che si possa «regard the association between Segovia and the Hasburg-Burgundian court discerned by Baker and Meconi as chimerical at best» sulla base di indicazioni che sono però parziali e semplicemente funzionali all’assunto del suo saggio, e senza valutare la situazione dell’intero repertorio. È inoltre ingenuo pensare di poter contestare il valore di un codice (ancora quello di Segovia) con l’argomento della sua lontananza geografica dal compositiore in questione (Busnois), perché i testimoni sono tutti relativamente buoni o meno buoni in base alla qualità delle lezioni, che a sua volta non è automaticamente assicurata dalla vicinanza cronologica e geografica agli autori. (come ricorda una regola elementare di critica del testo). Il vasto saggio fornisce comunque diversi spunti di riflessione; si veda per esempio, un punto di vista (su cui sarebbe utile una più ampia discussione) diverso rispetto a quello di Atlas, da cui Rifkin si pone nel valutare il problema dell’attribuzione in presenza di voci aggiunte o alternative («In pieces with an added voice-part, then, ascription not specifically attached to that voice clearly refer in the first instance to the original composition – even if, in so doing, they implicitly stretch the definition of that work to incorporate an unauthorized accretion»).

In entrambe le miscellanee sono ben rappresentati i saggi di analisi stilistica. ANDREA LINDMAYR-BRANDL si direbbe particolarmente versata in questo genere di studi. Del suo contributo in O si è già detto; in B (Rejois toi terre de France/ Rex pacificus: An ‘Ockeghem’ Work reattribuited to Busnois) l’oggetto dell’analisi è Rejois toi, di cui si rivedono le ragioni dell’attribuzione ad Ockeghem e si valuta la possibilità di assegnarlo, su basi stilistiche, a Busnois, con il supporto delle acquisizioni recenti di nuovi dati biografici. Come nel saggio in O, così in questo, giunta alla fine del percorso la Lindmayr-Brandl non si sente di proporre alcuna certezza. Vorremmo poter leggere le sue conclusioni («And should none of this prove to be true? Then we have at least spent some time on an anonimous composition worth being reconsidered and reanimated for its own sake, even if only by a small group of scholars interested in the musical life and culture of the fifteenth century») non come sconsolata constatazione dell’inanità di ogni pretesa interpretativa, o della desolata irrilevanza sociale degli studi umanistici, ma piuttosto come un’apprezzabile rivendicazione del valore disinteressato del lavoro intellettuale.

Come sempre attratto da interessi di tipo metodologico, ALLAN W. ATLAS (Busnois and Japart: Teacher and Student?) individua cinque «istinct kinds of intersections between the works of Japart and those of Busnois; (1) shared tunes; (2) predilection for combinative chansons; (3) use of ‘serials’ procedures; (4) conflicting attributions; and (5) paired transmission in the sources», con ciò proponendo un concorso di elementi importanti per valutare possibili rapporti maestro-allievo e dirimere eventuali problemi attributivi. Molto convincente sotto il profilo metodologico è ll saggio di MARY NATVIG (The Magnificat Groip of Antoine Busnois: Aspects of Style and Attribution) che giunge alle sue prudenti conclusioni dopo un percorso di analisi e valutazioni condotte con grande rigore. HEINZ-JÜRGEN WINKLER (Zur Vertonung von Mariendichtung in antiken Versmassen bei Johannes Ockeghem und Johannes Regis) parte dalla consolidata certezza che caratteristica qualificante dell’età di Josquin sia «die Entwicklung von Imitationstechnik und Textdarstellung als sinnfälliger Verknüpfung einander nachahmender Stimmen und sinfälliger Darbietung ihrer Texte» (Ludwig Finscher) per giungere, attraverso l’analisi dei mottetti di Ockeghem e Regis – e in particolare Intemerata Dei mater e Clangat plebs – a mettere in rilievo come anche nella generazione precedente analoghe pulsioni, che si realizzavano con altri strumenti espressivi, fossero ugualmente presenti.

Diversi saggi danno ampio spazio all’analisi di problemi di tecnica compositiva, di costruzione formale, di sintassi musicale. Il contributo di ANNE-EMMANUELLE CEULEMANS (Une étude comparative de la mélodie et de la dissonance chez Ockeghem et chez Josquin Desprez) che in O figura nella sezione dedicata alla teoria, parte da un assunto molto impegnativo, affrontato con sicura conoscenza del repertorio e grande attenzione; restano tuttavia alcune ingenuità (gli intervalli in percentuale nella musica di Ockeghem avrebbero un senso se fossero ordinati in relazione al contesto, non certo come degli assoluti; analogamente la riflessione sull’uso dei valori notazionali non può prescindere, di volta in volta, dalla mensura di riferimento, non esplicitata nrgli esempi; resta incomprensibile poi il significato che l’autrice dà al termine ‘nota accentuata’, che non ha senso nella semiografia quattrocentesca. Forse l’autrice pensa al suono su cui cade la depositio, che comunque non è la stessa cosa di una accentuazione). Sempre in O, ALLAN ATLAS (Some Thoughts about one-line Refrains in Ockeghem’s Rondeaux) propone «the question of how music and abridged refrains might interact in the rondeaux of Jean Ockeghem, not with the idea of prescribing solutions, but in a spirit of inquiry: can we perform Ockeghem’s rondeaux with abridged refrains today, and could Ockeghem’s contemporaries have done so in the fifteenth century?» e valuta, argomentandole puntualmente, le soluzioni a suo avviso possibili per nove rondeaux, mentre MARY KATLEEN MORGAN, in un ampio saggio su: Ockeghem’s Approach to Musical Process in the three-voice Chansons, va ben addentro nell’analisi comparata delle tecniche compositive di Ockeghem e di Busnois, portando avanti con metodo sicuro le ricerche da lei fatte per la sua tesi dottorale sulla chanson degli anni ‘70 del Quattrocento. Il saggio di SEAN GALLAGHER, cui si è fatto cenno in precedenza a proposito dell’intertestualità, si occupa, più che di sintassi musicale, delle possibili funzioni compositive di alcune microformule ritmiche ricorrenti, e mette a punto un metodo di analisi che «by refining our knowledge of Ockeghem’s style, can play a role in editorial decisions and even attributive research» (sempre col beneficio del dubbio, e solo se in un concorso di elementi, «where the patterns are distinctive, both in themselves and in their combination with other compositional parameters»).

Di particolare interesse sul piano metodologico è il lavoro di PETER URQUHART False Concords in Busnoys, che sottopone ad una analisi stringente le chansons a tre voci di Busnois nel quadro comparativo delle tecniche compositive coeve, alla luce di una attenta lettura delle valutazioni di Tinctoris, insistendo sull’importanza di porre i problemi nell’ottica del tempo e non, anacronisticamente, su un piano teorico astratto ed avulso dalla storia («Using concepts related to modern counterpoint training – inversion, preparation or resolution – in order to judge the acceptability of a particular dissonance or the need for corrective editorial accidentals in Busnoys is clearly misguided»). Il forte richiamo alla responsabilità dell’editore moderno, che deve essere in grado di distinguere tra il livello della tradizione e/o della prassi esecutiva antica e il livello del pensiero d’autore, si accompagna alla proposta operativa di sfruttare le risorse che la critica interna offre, quando si guardi «at the repertory itself for clues hidden in its patterns and in its internal consistency». Si fonda su di una nuova e attenta lettura delle testimonianze teoriche, poste in puntuale relazione con la prassi compositiva, anche RICHARD WEXLER (Simultaneous Conception and Compositional Process in the Late Fifteenth Century), che individua nella natura dello stile a cappella fondato sulla imitazione strutturale, piuttosto che non in un improbabile passaggio dalla composizione rigorosamente ‘successiva’ a quella ‘simultanea’ («that tends to ewoke visions of momentous transformations having near mythic proportions»), l’elemento più caratterizzante in senso innovativo nella tecnica di composizione all’inizio del Cinquecento.

Di problemi mensurali si occupano diversi contributi, che ne trattano specificamente o tangenzialmente. Il già citato saggio di WEGMAN enumera e analizza gli ‘errori notazionali’ che Tinctoris rilevava in Busnois, e trova conferma all’ipotesi, dallo stesso studioso già formulata, di un rapporto stretto (probabilmente diretto) con Domarto, formativo per Busnois, mentre BONNIE J. BLACKBURN (Did Ockeghem listen to Tinctoris?) esamina gli usi mensural di Ockeghem mettendoli a confronto con il pensiero teorico di Tinctoris, e legge le critiche contenute nel Proportionale musices e poi nel Liber de arte contrapuncti, che si alternano alle manifestazioni di stima e deferenza del Liber de natura et proprietate tonorum, come testimonianze di un rapporto di reciprocità, entro il quale la composizione della Missa prolationum sarebbe la possibile prova della ricezione da parte di Ockeghem delle osservazioni a lui dirette nel Proportionale. Anche ALEXANDER BLACHLY (Reading Tinctoris for guidance on Tempo) tratta il problema della posizione critica di Tinctoris e rileva la fluidità degli usi mensurali della seconda metà del Quattrocento di contro alla rigorosa definizione dei significati dei segni che all’inizio del nuovo secolo sarebbe stata avanzata dai proporzionalisti. Non a tutti le considerazioni dell’autore potranno sembrare convincenti, soprattutto quanto al rapporto fra tactus e valori della dissonanza, dove si profila un argomento circolare; ma il saggio è comunque molto ben articolato e offre numerosi spunti di riflessione.

La corretta interpretazione della virgula apposta al tempus perfectum o imperfectum è al centro delle osservazioni di molti studiosi di entrambe le miscellanee, in linea di massima orientati – di contro alla tendenza che sostiene la diminutio in duplum – a ritenere non regolarmente prescrittiva la virgula, ma semplicemente indicativa (e non sempre) di una accelerazione diversamente quantificabile. Vige un generale accordo sul significato di proportio dupla in caso di relazione simultanea verticale con altre segnature, col conforto di non poche testimonianze teoriche del primo Cinquecento. MARGARET BENT, sulla base della sua indiscussa competenza sui repertori inglesi e continentali del primo Quattrocento, sostiene, con dovizia di esempi, la possibile valenza di signum congruentiæ o di indicatore di un’articolazione della forma musicale della virgula sul tempus perfectum, e ripropone tali significati per alcuni casi dell’età di Ockeghem, con l’avvertenza che «The notational clues on wich these observations are based are neither watertight nor consistent; indeed, it is my hope to offer some means of addressing their apparent wayardness, not to propose a consistent and tidy new solution to the problem». Proprio la grande escursione di significato della virgula nei vari repertori (si pensi per esempio al suo uso nel Coralis Costantinus) sembra rafforzare l’idea che la sua interpretazione debba di volta in volta essere valutata diversamente, secondo le situazioni storiche e geografiche in cui ricorre.

Un gruppo di saggi di O si occupa di problemi relativi a codici importanti e ai repertori in essi tràditi. CLEMENS GOLDBERG (Reading Laborde: the Significance of Johannes Ockeghem’s chansons in the context of the Chansonnier Laborde) analizza lo chansonnier, «originating in the Loire valley and probably closely connected to the king’s court in Tours», valuta la presenza del nucleo di composizioni di Ockeghem al suo interno e l’incidenza delle ricorrenze intertestuali, mentre FABRICE FITCH (Le Codex Chigi et les messes d’Ockeghem) torna su di un argomento centrale nelle sue ricerche, con un contributo importante sul piano codicologico, corredato da utili appendici. Del codice Chigi si occupa anche EDWARD F. HOUGTON con un contributo (Ockeghem’s Scribes then and now) interessante dal punto di vista paleografico (l’autore ha già dedicato agli aspetti specifici della scrittura mensurale di Ockeghem in Chigi puntuali osservazioni in passato) ma in cui affiorano il luogo comune della peculiare insufficenza della scrittura musicale, il concetto antistorico della «definitive edition or performance» – ritenuta magari possibile per la musica di certe epoche – e soprattutto la confusione tra il piano del testo e quello della prassi, con la immancabile elevazione del disco a livello testuale. Ancora il codice Chigi, insieme a quello di Vienna (Österr. Nationalbibl. 11883) è al centro dell’interesse in tre saggi che trattano della Missa Prolationum: quello di JAAP VAN BENTHEM (‘Vous nous voiez cy attachez’. En découvrant la relation entre texte et musique dans la Missa Prolacionum), che mette a frutto l’esperienza maturata nella edizione degli Opera Omnia di Ockeghem per trattare con mano leggera (concludendo con una breve parodia della Ballade des pendus) problemi complessi relativi alla tradizione della Missa prolationum e per ipotizzare una originaria disposizione del testo, che sfugga alle aporie dei due manoscritti che la tramandano; quello di MICHAEL ECKERT (Canon and Variation in Ockeghem’s Missa Prolationum) che analizza sotto l’aspetto strutturale e stilistico la messa valutando comparativamente i codici, e il denso contributo di MICHAEL FRIEBEL (Auf der Suche nach einer Originalnotation), che analizza sistematicamente gli aspetti notazionali della tradizione della Missa prolationum e i comportamenti degli scribi, e formula in base a ciò nuove ipotesi sulla originaria stesura della messa (in base alla argomentata convinzione che «Zwei verschiedene Fassungen sind uns erhalten, und beide sind – unabhängig von einander – geprägt von dem Bemühen, die Messe in ihre Notation zu überarbeiten»).

In entrambe le miscellanee un buon numero di saggi è dedicato alla ricerca biografico-archivistica o alla ricostruzione, su base documentaria non meno che sull’analisi di codici e repertori, delle peculiarità liturgiche di importanti sedi in qualche modo legate all’attività di Busnois e Ockeghem. Le ricerche di BARBARA HAGG negli archivi di Bruxelles, di cui si illustrano gli esiti in B (Busnois and ‘Caron’ in Documents from Brussels) hanno fruttato nuove conoscenze su Busnois, e permesso di sviscerare ulteriormente – senza però che sia per ora possibile giungere ad una soluzione – il problema spinoso dell’identità di Caron, musicista interessantissimo e dalla fisionomia inconfondibile, ma che sembra sfuggire ad ogni tentativo di concreta identificazione storica; la medesima studiosa in O (Music and Ritual from the Time of Ockeghem. Evidence from Paris and Tours) si occupa, sulla base delle testimonianze dei codici pertinenti, della musica nel sevizio liturgico a Tours (S. Martin) e a Parigi (Sainte Chapelle, Notre Dame e cappella di corte). Con Basilique, pouvoir et Dévotion. Ockrghem à Saint Martin de Tours, AGOSTINO MAGRO offre una parte del patrimonio di nuove informazioni reperite nel corso di un’ampia ricerca (poi sfociata in una tesi dottorale e in alcuni recenti contributi), e RICHARD WEXLER (The Politics of Ockeghem’s Canonicate) raccoglie e valuta testimonianze sull’attività di Ockeghem come diplomatico e sulla missione in Spagna del 1470, mentre PAULA HIGGINS (Musical Politics in Late Medieval Poitiers: A Tale of Two Choirmasters) esamina in tutte le sue possibili implicazioni il caso della competizione fra Busnois e Johannes Le Bègue per la maîtrise di Saint-Hilaire a Poitiers. RICHARD SHERR (Music at the Cathedral of Bruges in the time of Ockeghem) e EUGENE SCREURS con ANNELIES WOUTERS (Johannes Ockeghem et la vie musicale à la collégiale Notre-Dame d’Anvers) illustrano l’attività musicale legata alla liturgia in importanti sedi, col corredo di ampia documentazione, e GAYLE KIRKWOOD (Kings, Confessors, Cantors and Archipellano: Ockeghem and the Gerson circle at St-Martin of Tours) studia l’ambiente degli alti funzionari, consiglieri e confessori reali a Tours nel corso del Quattrocento, segnato prima dalla presenza e poi dalla continuità del pensiero di Jean Charlier de Gerson, e dalla sua visione della cultura e della musica. Il contributo di HOWARD MAYER BROWN (Music and Ritual at Charles the Bold’s Court: The function of Liturgical Music by Busnois and his Contemporaries, uno degli ultimi portati a termine dal grande musicologo morto nel 1993), prezioso per la ricchezza delle osservazioni, torna su di un’idea già da Brown stesso avanzata con vigore in passato, che ha aperto fruttuosi percorsi di ricerca molto battuti dalla attuale musicologia medievalistica. «Since the chants on which many masses were based gloss the meaning and explain the liturgical propriety of particular cycles, we can also imagine that songs on which masses were based had some similar connection with the nature or the occasion of the polyphony, and we should therefore seek to find those meanings». La abbondanza di informazioni che il cantus firmus di una composizione polifonica può dare al musicologo, la ricchezza delle possibili implicazioni storiche e liturgiche, il significato che la sua scelta poteva rivestire per il compositore e per gli ascoltatori, sono l’oggetto della ricerca di JENNIFER BLOXAM (On the Origins, Context, and Implications of Busnoy’s Plainsong Cantus Firmi: Some Preliminary Remarks), che imposta alcune essenziali questioni di metodo e tratta l’argomento con grande chiarezza e con particolare attenzione alla organizzazione liturgica della corte borgognona rispetto all’uso di Parigi.

Due sono i saggi di REINHARD STROHM in O. Il primo («Hic miros cecinit cantos, nova scripta reliquit») propone e illustra le testimonianze poetiche ed epistolari di Petrus Paulus Senilis, segretario di Luigi XI, relative ad Ockeghem, che offrono informazioni molto utili per una migliore conoscenza del musicista nell’opinione dei contemporanei; nel secondo (Portrait of a musician) si ipotizza che un noto e bellissimo dipinto attribuito al Maestro di Flémalle (S. Francisco, Museum of Fines Arts) possa essere un ritratto di Ockeghem (ma di parere contrario, nella stessa miscellanea, è Leeman L. Perkins, nel contributo introduttivo). Ancora in O, DON HARRAN (Nouvelles variations sur O Rosa bella, cette fois avec un ricercare juif), si interroga sulla iudea di Leonardo Giustinian – da un lato valutando la possibile realtà storica del personaggio di nome Rosa (secondo un’idea già avanzata da Fallows) e dall’altro esplorando le valenze emblematiche di quel nome – in una forma deliziosamente leggera, scandita non in paragrafi, ma in ‘ricercar primo’ con sei variazioni seguito da un ‘ricercar secondo’. La conoscenza della bibliografia filologica su Giustinian è buona, ma è un peccato che Harran non conosca i numerosi contributi in proposito di Antonio Enzo Quaglio, e il suo saggio di edizione nell’antologia dei Rimatori veneti del Quattrocento (curata da A. Balduino nel 1980).

Sia Leeman L. Perkins sia David Fallows sono presenti in entrambe le miscellanee con contributi che danno conto dello stato degli studi sui due musicisti e discutono problemi legati alla tradizione delle opere e alla valutazione dell’autenticità. In O, PERKINS traccia nell’introduzione (Jean de Okeghem, musicien méconnu) una storia della ricezione di Ockeghem ricomponendo il quadro complesso delle attuali direzioni della ricerca, mentre FALLOWS (Ockeghem as a song composer: Hints towards a chronology) discute il corpus delle composizioni profane di Ockeghem e ne prospetta la cronologia sulla base di un criterio stilistico piuttosto solido, ovvero la evoluzione delle estensioni vocali. Ne traggono conferma, per ragioni di coerenza tecnico-compositiva, anche le datazioni del Requiem all’altezza del 1460 e della messa Caput agli anni ‘50. In B è FALLOWS («Trained and immersed in all musical delight»: Towards a New Picture of Busnois’s Songs) ad illustrare lo stato della ricerca su Busnois, del quale discute le attribuzioni proposte da Richard Taruskin e Don Giller, richiamando l’attenzione sull’importanza degli anni giovanili precedenti il servizio alla corte borgognona e dei rapporti con la musica di Binchois e Ockeghem, mentre PERKINS (Conflicting Attributions and Anonimous Chansons in the ‘Busnois’ Sources of the Fifteenth Century) dà il quadro completo della tradizione delle composizioni profane, ne discute il corpus sulla base di considerazioni stilistiche e codicologiche, e suggerisce indicazioni metodologiche per i problemi relativi all’autenticità (molto interessante il caso della tradizione di Je ne puis vivre, che attesterebbe una rielaborazione d’autore).

I musicisti intorno ai quali il progetto delle due miscellanee si è organizzato sono senza dubbio i due punti di riferimento più importanti nel panorama musicale della seconda metà del Quattrocento, e per molto tempo propro in quel panorama sono stati visti come due poli correlati fra loro ma antitetici: Busnois il ‘razionale’ e ‘matematico’, e Ockeghem l’‘irrazionale’ e ‘mistico’, secondo una formulazione accolta anche da Sparks nel molto divulgato Cantus Firmus in Mass and Motet (1420-1520), che resta tuttora un libro importante. Un’antitesi che la ricerca degli ultimi vent’anni è venuta progressivamente svuotando di significato, per tentare di ricomporre il quadro in una forma nuova, più complessa e più ricca di implicazioni e di utili chiavi di lettura. All’origine della concezione di Ockeghem ‘irrazionale’ – legato immancabilmente (ma senza alcun conforto di documentazione attendibile) alla devotio moderna, – è da collocare l’interpretazione di Besseler, della quale LAWRENCE F. BERNSTEIN (Ockeghem the mystic. A german interpretation of the 1920s) ripercorre le tappe, individuando i motivi e le occasioni che la fecero maturare nelle frequentazioni universitarie di Friburgo prima, e di Heidelberg poi (con le presenze di R. Klibansky ed E. Hoffmann e le discussioni nate intorno alla edizione di Cusano), ossevandone la particolare consonanza con gli orientamenti culturali e politici di Besseler stesso e con lo spiritualismo pangermanico degli anni 30, e seguendone l’affermazione attraverso l’opera di allievi e seguaci come W. Stephan, P. H. Lang e M. Bukofzer. Di rilevante interesse sono anche, nella stessa miscellanea, gli altri contributi dedicati alla ricezione della musica di Ockeghem nel passato: il già citato saggio di ERIC JAS, che dedica importanti osservazioni alle testimonianze offerte dall’intavolatura di Gonzalo de Baena (molto utili sono le due tavole relative l’una alla diffusione della musica di Ockeghem fino alla fine del secolo XVI, e l’altra ai casi di aemulatio prodottisi nello stesso spazio cronologico) e quello di WOLFGANG THEIN (Zitat, Bearbeitung, Transformation. Spielarten der Kompositorischen Auseinandersetzung mit Ockeghem in der Musik des 20. Jahrunderts) che esamina invece alcuni casi di ricezione compositiva di Ockeghem nel ventesimo secolo (Luigi Nono, Harrison Birtwistle, Ernst Krenek e György Ligeti), rilevandone la diversità degli approcci e giungendo alla conclusione che «Hält man die hier in den Mittelpunkt gestellten Kompositionen nebeneinender, so wird deutlich dass – abgesehen vom Zitatbezug Nonos – ein übergreifendes Merkmal die durchaus verschieden gelagerten Bezugnahmen der Komponisten verbindet: die Suche nach einem neuen Weg, zunächst für die Komponisten selbst..., gleichermassen und ins Allgemeine gewendet aber auch für das Komponieren überaupt in Zusammenhang mit den verschiedenen Ansätzen zur Neuorientierung, die sich der zu Ende gegangenen Epoche der Klassich-romantischen Musiksprache und deren Implikationen hinsichtlich Tonalität, Taktmetrik und Formenkanon anschlossen».

Tutt’e due le miscellanee escono in curatissima veste editoriale (O in particolare si direbbe voler riverberare anche nella presentazione degli Atti lo stile inconfondibile dei convegni di Tours) e sono state provviste degli indispensabili indici analitici (indice di nomi e di opere musicali citate, in O; di testimoni manoscritti e a stampa, di composizioni di Busnois, e un indice generale, in B) nei quali però sono rimaste non poche inesattezze che disturbano chi è abituato a fare uso di questi preziosi sussidi per seguire il filo di un suo o altrui percorso. Ma più che questo inconveniente – probabilmente quasi inevitabile in volumi dalla struttura complessa – spiace dover constatare ancora una volta i ricorrenti limiti dell’informazione – più accentuati in B, ma evidenti anche in O – su quanto sui vari argomenti è stato scritto in lingue diverse dall’inglese. Operare selezioni è, naturalmente, più che legittimo (nessuno è obbligato a citare tutto, né a trovare tutto ugualmente valido e calzante); ma di un filtro critico si devono comprendere le ragioni, che sono appunto quelle che lo distinguono dal semplice disinteresse, e che comunque dovrebbero essere valide anche nella selezione di quanto è stato scritto in inglese. La situazione è forse ancora più grave per i riferimenti interdisciplinari (storia dell’arte, storia della letteratura, storia della cultura, delle istituzioni, delle liturgie, filologia romanza, italiana, mediolatina), dove i lavori in inglese che sono citati, per validi e importanti che siano, non possono certamente considerarsi sostitutivi di contributi fondamentali per quelle discipline, scritti in altra lingua.

Ma, fatta questa osservazione, si deve comunque riconoscere con soddisfazione che il contributo dato alla nostra disciplina da queste due miscellanee è molto ricco e diversificato. I metodi sono ampiamente collaudati e si poggiano spesso su interessi interdisciplinari apprezzabili; gli esiti della ricerca permettono talvolta di avanzare proposte interpretative inedite, talaltra di adottare nuovi punti di vista per una più profonda e pertinente lettura del già noto. La riflessione stimolata su rilevanti problemi di natura storica, filologica, teorica relativi al secondo Quattrocento, è destinata certamente ad avere ampie ripercussioni nel futuro dei nostri studi e a suscitare nuovi interessi, nuove idee, nuove discussioni: il che è già, di per sé, un grande merito.

 

MARIA CARACI VELA

 

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